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Il primo a tornare fu Chaim
Lo videro camminare lungo la riva,
ma non indovinarono chi era. E come avrebbero potuto? Un tempo era atletico e largo di
spalle, adesso era rimpicciolito, rinsecchito, il vestito a brandelli e, ancora più
importante, senza faccia. Il falegname Chaim non aveva faccia. Il suo viso era ricoperto
da un bosco rigoglioso di peluria, una selva serpeggiante e nera. Così Ida Fink,
scrittrice polacca scampata al massacro, descrive uno di quei pochissimi sopravvissuti che
fecero ritorno al proprio villaggio, alla propria casa, spesso nellincredulo stupore
dei compaesani. Che Chaim sia un uomo senza volto pare quasi ovvio, dal momento che molto
spesso il prezzo della sopravvivenza era proprio una rinuncia allidentità. La
stessa Fink si salvò grazie a documenti ariani. Sarebbe interessante vedere se e come
questa sia stata recuperata e a quale prezzo. Senza dubbio qualcuno se ne sarà occupato e
potrebbe costituire tema di un prossimo intervento.
Ida Fink, scrittrice polacca, emigrò in Israele nel 57, ma ha continuato per tutta
la vita a scrivere in polacco mentre dai suoi racconti traspare unardente passione
per questa sua patria negata. Emigrò assieme ad altri ventidue scrittori, quando il
governo cercò di mascherare con una nuova (vecchissima) ondata di antisemitismo i
fallimenti e lo scontento generati dal regime, facendo ricadere sui dirigenti ebrei la
colpa delle degenerazioni del comunismo.
Ma cosa trovarono gli ebrei al loro ritorno? Ulisse sa bene come il rientro in patria sia
carico di dolore e di pericoli, quasi quanto il viaggiare in terre sconosciute. La
speranza/disillusione di chi torna a casa dopo lesilio è fra le esperienze più
antiche che lumanità abbia sperimentato. Chi parte perde sempre qualcosa, ma forse
gli ebrei, nella loro condizione spesso ambigua di cittadini ospiti hanno
perso più degli altri. Operare delle generalizzazioni è molto difficile, i dati sono
scarsi, a volte contrastanti, inconciliabili.
Per alcuni ci fu la solidarietà dei vecchi conoscenti, ma spesso non fu certo con gioia
festosa, con sollievo, con ringraziamenti a Dio, che i più accolsero i loro antichi
vicini ebrei.
Per altri addirittura, la salvezza non arrivò neppure con la fine della guerra, sgozzati
da chi era entrato in possesso delle loro case, dei loro campi, degli oggetti quotidiani,
e non intendeva più rinunciarvi.
Un caso ancora a parte è quello passato alla storia come il Pogrom di Kielce.
Kielce è una cittadina della Polonia dellOvest, che prima della guerra contava una
popolazione di circa 75.000 persone, di cui 25.000 ebrei, che furono quasi tutti
assassinati a Treblinka nellestate del 1942. Dopo la guerra, terminata nel gennaio
del 1945, ne tornarono gradualmente in città circa 200, molti dei quali trovarono dimora
in un unico grande caseggiato di via Planty 7
Il primo luglio 1946 scomparve un bambino di 8 anni, Henryk Blaszczyk. Riapparve tre
giorni dopo raccontando di essere stato rapito dagli ebrei, che tenevano chiusi in una
prigione, da cui era miracolosamente scappato, bambini polacchi, in attesa di essere
sacrificati per impastare col loro sangue il pane pasquale.
La polizia perquisì il casermone di via Planty, naturalmente senza trovare nulla. Ma
intanto la voce si era diffusa e la mattina del 4 luglio una folla inferocita si
precipitò per le strade. Erano passati 18 mesi dalla fine della guerra, poco contava la
considerazione che circa 8 ne mancassero ancora alla Pasqua. Nessuno si premurò di
verificare la veridicità delle dicerie. Seweryn Kahane, responsabile del comitato
provinciale ebraico, chiese per telefono la protezione della polizia, ma gli fu risposto
che era già impegnata in altre operazioni. Si rivolse allora ai militari russi di stanza
a Kielce, che dichiararono di non voler interferire coi fatti interni polacchi. Supplicò
il vescovo Kaczmarek di parlare alla folla, ma la Chiesa, che su tante cose si pronuncia,
allora trovò più comodo tacere. Fu una strage, di cui fu vittima lo stesso Kahane,
raggiunto nel suo ufficio. La popolazione, e non solo i soliti infelici miserabili,
afflitti da povertà e ignoranza in egual misura, ma anche studenti e borghesi, tutti
furono percorsi da un fremito di parossismo antisemita. In preda a una delirante isteria
collettiva circondarono il palazzo dove abitavano gli sventurati dracula, li stanarono col
fuoco e ne uccisero 42.
Itzhak Zukerman, uno degli eroi del ghetto di Varsavia, era ancora in Polonia in quel
tempo e si recò a Kielce nel pomeriggio del 4 luglio. In una lettera alla moglie descrive
con amarezza le strade della città percorse ancora una volta da sangue ebraico e da torme
di popolazione in preda alla follia.
Più tardi emerse che il bambino si era semplicemente recato nel villaggio di Pieradlo, a
25 Km di distanza, a casa di uno zio.
Lepisodio è rimasto tabù in Polonia per circa cinquantanni. Alcuni
commentatori del tempo congetturarono addirittura che il linciaggio fosse stato
orchestrato dagli stessi ebrei per convincere i propri correligionari ad emigrare in
Palestina. Attribuire alle vittime la colpa delle atrocità che le colpiscono è una
cinica aberrazione di cui purtroppo non tutti sono ancora esenti. Neppure noi siamo a
digiuno di accuse deliranti e becere nei confronti degli ebrei.
E dopo Kielce, qual è stata la condizione degli ebrei polacchi, se ne esistono ancora?
Nel 2000, sul Manifesto, è uscito a questo proposito un bellarticolo di Câcile
Liege.
Dopo il trauma della guerra e le discriminazioni subite sotto il regime comunista, gli
ebrei polacchi si erano ridotti a circa 2000 unità. Un dato agghiacciante se si pensa che
prima del 1939 erano 3.250.000 e che al genocidio ne erano sopravvissuti 250.000.
Soltanto oggi, col ritorno alla democrazia e con lingresso della Polonia in Europa,
i pochi rimasti tendono di nuovo ad aumentare e tentano, con grande difficoltà, di
recuperare il senso della propria identità. Riacquistano il coraggio di rivendicarsi
ebrei, mentre la Polonia sta maturando la consapevolezza di essere stata per molto tempo
un faro della cultura ebraica.
Nelle università polacche si riprende a studiare la cultura yiddish e i libri di Isaac
Bashevis Singer hanno avuto, in questi anni, un enorme successo. Rinascono a Varsavia, e
nelle altre città, scuole, istituzioni culturali, circoli e riviste ebraiche, spesso
incoraggiate da alcune fondazioni americane, come la Fondazione Lauder, che lavora per il
ritorno dellebraismo nei paesi vittime del nazismo. Lattuale governo vede con
favore il reinsediamento e il riemergere di una comunità, per poter dimostrare che la
Polonia non è il paese intollerante e razzista che molti ritengono.
Lantisemitismo sembra essere rimasto retaggio dei movimenti più beceri e di strati
minoritari della popolazione.
La stessa chiesa polacca, dopo lesperienza di Solidarnosc, il sindacato cattolico di
Lech Walesa, che discusse, diede ampio spazio alla questione ebraica e accolse nelle sue
fila molti militanti ebrei, sembra aver assorbito lo spirito del Concilio Vaticano II.
Una Polonia che sta cambiando, quindi, che nella libertà riesce a recuperare il senso
complessivo della propria storia in tutte le sue componenti, senza cesure con
quellanima ebraica che tanto ha significato nella sua e nella cultura mondiale.
Del resto, come ricordava già Sartre in un bellissimo saggio del 1946 Riflessioni
sulla questione ebraica lintera questione del razzismo antigiudaico va
capovolta: Non è il carattere ebraico a provocare lantisemitismo, ma al
contrario è lantisemita a creare lebreo. Il fenomeno primo è dunque
lantisemitismo, struttura sociale regressiva e concezione del mondo prelogica
che promuovendo una visione autoritaria della società, arriva a colpire chiunque affermi
una propria specificità. Sartre invitava i giovani ebrei, che uscivano dalla guerra, a
vivere senza complessi il proprio ebraismo, essendo il razzismo un fenomeno che si
sviluppa indipendentemente dal proprio oggetto e che costituisce innanzi tutto un problema
per chi lo pratica.
golferasi@yahoo.it
Già
pubblicato sul quindicinale "Centomila" - Lugo (Ravenna) |
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