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Alfabeto della guerra preventiva

Roberto Cucchini

Quello che segue, è un ragionamento sulla guerra preventiva dell’Amministrazione Bush. Lo facciamo, utilizzando dieci parole chiave.
Per gli Usa “democrazia” significa, in sostanza, cambiare i governi che non sono loro graditi (“sicurezza nazionale”), soprattutto quelli che ostacolano la diffusione del suo modello di consumo.
Durante la guerra “ufficiale”, il numero di vittime civili ha raggiunto le 5.700 unità, mentre 2000-2200 sono la stima approssimativa di quelle uccise dopo la “fine del conflitto”.

L’Onu è prigioniera delle vecchie e nuove grandi potenze; sta ai popoli liberarla e farla diventare il luogo di una loro reale rappresentanza, come sta scritto nella Carta: ”Noi, popoli delle Nazioni Unite….”.
Dopo i fatti di Nassiriya, le prese di posizione della chiesa italiana costituiscono un esempio tipico di una religione che, mentre da una parte si accomuna all’emozione del momento, dall’altra dà un avallo alle scelte dei potenti di turno.

Più che interessati a stabilizzare politicamente la situazione interna dell’Iraq, Washington pare impegnata a far fruttare propri capitali in loco e a distribuire gli appalti per la ricostruzione del paese. Un gruzzolo da spartire con l’alleato britannico, ma soprattutto tra le aziende targate Usa; agli altri (soprattutto Spagna e Italia) qualche mancia (subappalti).


A COME AFFARI
Circa 200 aziende pubbliche irachene sono state già privatizzate e acquistate da capitali statunitensi contro il parere degli stessi esponenti del Consiglio governativo, nominato dall’amministratore statunitense Paul Bremer.
Una ventata d’ossigeno per un’economia, quella statunitense, che denuncia da tempo non pochi problemi: il deficit annuo sta raggiungendo la soglia del mezzo trilione di dollari. Eppure i soldi ci sono, se il 35% delle spese militari mondiali è coperto dal Pentagono, così come il 50% delle spese per la ricerca e lo sviluppo di nuovi sistemi d’arma e circa il 60% del mercato degli armamenti è in mano ad aziende a stelle e strisce. Anche una guerra può servire a rastrellare il denaro del contribuente americano per investirlo in bombe e aerei. Tanto più quando gli uomini che stanno al governo, nutrono degli interessi particolari in tale settore. Il segretario di Stato Rumsfeld ha riempito il Pentagono di uomini non solo fidati, ma strettamente legati alle maggiori compagnie fornitrici della macchina bellica statunitense. Ora forse ci è più chiara la situazione: dati i presupposti citati, l’”esportazione della democrazia” non poteva trovare che questi sponsor.

D COME DEMOCRAZIA
Dato che le fortune della globalizzazione economica parevano non soddisfare le attese dei suoi patrocinatori già prima dell’11 settembre, si è pensato bene di passare a forme più aggressive di pubblicità del made in Usa (“i nostri valori democratici e il nostro stile di vita”, per dirla con Bush). Siamo ormai abituati ai toni vagamente apocalittici dell’inquilino della Casa Bianca; la convinzione di incarnare il Bene assoluto e di battersi contro il Male altrettanto assoluto di chi su quello “stile di vita” nutre qualche dubbio, ci fa pensare ad un certo fondamentalismo religioso, di una religione però “secolare”: quella del profitto.
Per gli Usa “democrazia” significa, in sostanza, cambiare i governi che non sono loro graditi (“sicurezza nazionale”), soprattutto quelli che ostacolano la diffusione del proprio modello di consumo. Lo hanno fatto in più di un’occasione, non per sostituire sanguinari dittatori con presidenti liberamente eletti, ma per fare l’esatto contrario, come in Indonesia nel ’65 o in Cile del ’73. Forse perché Dittatura e Democrazia hanno qualcosa in comune e alle volte si possono confondere: cominciano tutte e due con la D. Come ha avuto modo di affermare il segretario di Stato, Colin Powell: “Non è nostra usanza o tradizione andare in cerca di conflitti, passare ad azioni preventive al solo scopo di conquistare il territorio di altri popoli, o di imporre la nostra volontà a qualcuno. Ma fa parte della nostra storia e della nostra tradizione difendere i nostri interessi" (New York Times, 9 settembre 2002).
Nella sostanza, l’Amministrazione americana pensa a queste società “altre”, come ad entità senza storia, pagine bianche su cui scrivere, con i caratteri della sua neolingua universale, il destino di ogni paese. Quando si vuole imporre agli altri il proprio modello di vita, riducendo ad un unicum la variegata stratificazione dei popoli, si rischia di entrare in una logica imperiale: si sottomette, non si libera. Il sistema democratico liberale, come lo conosciamo in Occidente, non è trasferibile meccanicamente ovunque; e là dove si è tentato, l’esperimento si è trasformato quasi sempre in una farsa. I diritti umani, nella loro universalità, vanno tradotti nei vari contesti, perché lì assumano forme giuridicamente riconoscibili e culturalmente riconosciute.

M COME MORTI
Sappiamo che i morti di parte angloamericana durante le quattro settimane di guerra, sono stati 150 circa; altrettanti quelli successivi “alla fine delle ostilità”, come si continua a ripetere senza essere sfiorati dal dubbio che queste parole risuonino di un’agghiacciante tragicità. Invece, non si è mai saputo il numero di parte irachena: si è parlato di 30mila soldati uccisi (rispetto ai 40-46mila del ’91). Questo il risultato delle 24mila bombe sganciate sugli obiettivi sensibili e degli 800 missili lanciati sulle varie città irachene. Non solo. Durante la guerra “ufficiale”, il numero di vittime civili ha raggiunto le 5.700 unità, mentre 2000-2200 sono la stima approssimativa di quelle uccise dopo la “fine del conflitto”. Senza contare la “strage preventiva” pianificata e perpetrata attraverso l’embargo da Washington direttamente o con la copertura delle Nazioni Unite. Ma nessuno ne ha mai parlato. Sui giornali sono apparse foto e profili biografici dei “nostri” morti. Avevano tutti un volto. Gli “altri” no. La loro marginalità mass-mediatica, la loro irriconoscibilità civile e perciò umana, testimoniano di un razzismo quotidiano, a cui siamo più o meno consapevolmente esposti. Come ieri con gli afgani, oggi con gli iracheni. E domani con chi?

P COME POLITICA
Si è parlato delle ragioni che hanno spinto Washington a stringere i tempi della guerra in Iraq. Messe da parte le motivazioni “nobili” (ricerca delle armi di distruzione di massa, estromettere il tiranno), sono rimaste sul tavolo quelle più prosaiche: in primo luogo, il controllo sulle fonti energetiche. Ma non perché l’America avesse bisogno di mettere le mani sulla “pompa di benzina“ irachena (gli Usa hanno diversificato da tempo le fonti di approvvigionamento). Quella contro l’Iraq è stata una guerra politica, nel senso che Bush ha scelto di giocare d’anticipo sui tempi del declino, che sta coinvolgendo la superpotenza d’oltre Atlantico ridotta sempre più ad una dimensione militare-finanziaria. L’Europa si sta strutturando come forza politica unitaria e in un prossimo futuro anche militare, con proprie capacità d’intervento sulla scena internazionale, mentre la Cina si sta affermando come gigante economico in rapida crescita; ciò che le permetterà di svolgere, in un domani non lontano, un ruolo di grande potenza mondiale.
Non è un caso che la dottrina della guerra preventiva contenga l’intenzione di “dissuadere i potenziali avversari dal perseguire una politica di riarmo che speri di sorpassare o di eguagliare la potenza degli Stati Uniti”. È un’esplicita minaccia a quei paesi o blocchi di potenze regionali che volessero superare o eguagliare la forza bellica degli Usa. Non è quindi il terrorismo di Al Qaeda che, con il fondamentalismo religioso, esprime il fallimento delle corrotte classi dirigenti arabe, a turbare i sonni dell’inquilino della Casa Bianca; questi fenomeni delittuosi (il più delle volte compiuti da forze a suo tempo addestrate e finanziate da Washington) servono per ricostruire quel consenso interno attorno ad un “sistema democratico”, che sta negando sempre più i suoi propri postulati: rispetto delle differenze, integrazione, partecipazione del popolo alle scelte, libertà, eguaglianza, rispetto dei diritti umani e sociali. Controllare la regione del Golfo o quella asiatica (Arabia Saudita e Iraq, ma anche Afghanistan) significa mettere le mani su un’arteria petrolifera vitale per i paesi dell’area (Cina in primis), ma non solo (Europa), e quindi condizionare le loro energie vitali in rapida e, per gli interessi statunitensi, pericolosa espansione.

R COME RESISTENZA
Attualmente in Iraq non c’è una forza politica, che rivendichi politicamente gli atti militari compiuti contro le truppe angloamericane. Bisogna quindi evitare di mitizzare le azioni portate a termine da gruppi armati, annoverandole tutte come forme di “resistenza”, compiendo specularmente la stessa operazione, anche se di segno opposto, di chi qualifica ogni azione militare contro le truppe d’occupazione come “terrorismo”. Sappiamo che tra la popolazione irachena esiste un sentimento di ostilità nei confronti delle truppe straniere che si traduce anche in un appoggio, più o meno esplicito, alle azioni armate, ma questi stessi settori della società civile prendono le distanze dal terrorismo indiscriminato.
L’ostilità nei confronti delle forze occupanti deriva da diversi fattori: dalla percezione di non avere alcun diritto di decidere del proprio futuro, dai mille problemi quotidiani non risolti, da una presenza militare alleata boriosa, dal numero di vittime civili causate dal conflitto in corso e dal ricordo di un embargo che è costato al popolo iracheno un milione e mezzo di morti innocenti. C’è quindi una resistenza condotta dalla componente sunnita del popolo iracheno, cui il regime deposto aveva riservato un trattamento di favore (e quindi, presumibilmente, filo Saddam), e una sciita, legata a Teheran e sottoposta invece ad una spietata repressione da parte del dittatore deposto, divisa tra coloro che (oppositori vissuti all’estero) hanno deciso di far parte del Consiglio governativo provvisorio, e chi invece si è schierato contro la presenza Usa.
Infine, ci sono forze che praticano il terrorismo e che la popolazione irachena ha individuato in combattenti provenienti da altri paesi islamici della regione. Nei riguardi di tali atti criminali, essa esprime la più forte condanna.
Pur all’interno di un’estrema frantumazione della società civile, pare stiano ora nascendo forze che si propongono di resistere all’occupazione attraverso forme di azione civile non armata. Sarà nostro compito seguire e appoggiare tutti quei gruppi, che si impegnano a favore dell’indipendenza del paese, ma anche di un sistema autenticamente democratico e rispettoso dei diritti umani.

S COME SPERANZA
Sono stati 110 milioni gli uomini, le donne, i giovani, gli anziani che hanno invaso le strade delle città del mondo il 15 febbraio scorso. Un “NO alla guerra” che è venuto dai movimenti di massa, dalla maggioranza dei governi dei paesi membri dell’Assemblea delle Nazioni Unite, dal Papa e dai rappresentanti delle varie religioni monoteiste. Da ogni parte, con le più diverse motivazioni, tutti hanno contestato questa guerra perché negava il valore del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite. Forse per la prima volta nella storia dei movimenti pacifisti, nonviolenti, la dimensione del diritto da impugnare è entrata a far parte del senso comune di milioni di persone, mentre la legge del più forte è stata vissuta e rifiutata come una violazione della legalità internazionale.
È stato detto dai media che hanno sostenuto l’avventura militare irachena, che chi era sceso in piazza contro una guerra sentita ingiusta, era antiamericano. Ma come poter essere antiamericani, se una parte significativa di questo movimento della pace era formato da migliaia di cittadini americani, tra i quali molti parenti delle vittime dell’11 settembre? Come sostenere che tali manifestazioni avrebbero incoraggiato il dittatore iracheno, quando ad opporsi alla guerra erano molti di coloro che negli anni 80 avevano denunciato quei governi occidentali (francesi, britannici, Usa, sovietici e italiani) che avevano fornito a Saddam le armi di distruzioni di massa? L’Onu è prigioniera delle vecchie e nuove grandi potenze; sta ai popoli liberarla e farla diventare il luogo di una loro reale rappresentanza, come sta scritto nella Carta: ”Noi, popoli delle Nazioni Unite….”.

T COME TERRORISMO
“Gli Stati Uniti d’America sono in guerra contro il terrorismo globale. Il nemico non è un singolo regime, o un’unica persona, o una particolare religione o ideologia. Il nemico è il terrorismo: la violenza premeditata, politicamente motivata e perpetrata ai danni degli innocenti”. Così recita un documento che delinea le linee di fondo della strategia politico-militare di Washington per il secolo a venire. Un concetto vacuo che permette una sola cosa: identificare tutti coloro che non accettano le nuove tavole della legge statunitensi e dei suoi più fidati alleati, i presunti, potenziali nemici, come terroristi de facto. Questo perché se fossero i terroristi i suoi più acerrimi nemici, e non viceversa, sarebbe difficile non annoverare nelle loro schiere anche qualche scomodo alleato.
Infatti, se il carattere principale dell’azione terroristica è quello menzionato (“la violenza premeditata, politicamente motivata e perpetrata ai danni degli innocenti”), la politica militare contro i palestinesi dei territori occupati non potrebbe non trovare più efficace descrizione. Ma è il nemico che fa il terrorista, e non il contrario; prima lo si identifica (lo si sceglie), poi lo si qualifica. Ciò garantirà ampia libertà di giudizio e di selezione contro una lista di “Stati canaglia” e movimenti di resistenza, a seconda delle necessità politiche, economiche, geostrategiche del momento, decise dalla Casa Bianca. L’importante è avere sempre un nemico a disposizione.

V COME VITTIME
I 19 morti di Nassirya: vittime, martiri, eroi? È stato detto da più parti (alti prelati, politici, giornalisti), che hanno donato la vita per portare la pace; certamente molti di loro ne erano convinti. Ma in un contesto di guerra, ciò che vale non sono le intenzioni personali, ma il ruolo che viene svolto in un contesto. In verità, non hanno donato la loro vita: più realisticamente la vita è stata loro tolta durante un’azione di guerra. Perché di questo si tratta: di guerra. Ma chi sostiene l’idea del dono, lo fa a ragion veduta: perché nel parlare di dono, evoca la volontarietà del loro atto, l’autonoma responsabilità della scelta fatta, e in questo modo si attenua quella di chi li ha mandati a fare una guerra d’occupazione chiamandola “operazione di pace”. Forse qualcuno di loro aveva in cuor suo anche accettato la possibilità di morire, ma certo non l’avevano cercata; una cosa è sacrificarsi, un’altra è sacrificare, un’altra ancora è essere sacrificati. Vorremmo che i “nostri” ragazzi fossero ancora vivi: italiani, statunitensi, inglesi, iracheni, afgani, spagnoli..…Tutti.
Roberto Cucchini

 


C COME CHIESA
I criteri della chiesa sono chiamati a confrontarsi continuamente con quelli vissuti dalla persona di Cristo. La sua logica non può essere messa da parte nei momenti più critici, come se la logica dei potenti fosse in questi casi più saggia e più realistica di quella evangelica.
Dopo i fatti di Nassiriya, le prese di posizione della chiesa italiana, o almeno del suo più autorevole rappresentante, costituiscono un esempio tipico di “religione civile”, una religione che, mentre da una parte si accomuna all’emozione del momento, dall’altra dà un avallo alle scelte dei potenti di turno.
Il richiamo al Vangelo viene a risultare irrisorio e ha un che di blasfemo: noi continueremo a combattere i terroristi a fianco degli Usa, ma “non li odieremo”. Si dimentica che, nel Vangelo, l’amore al nemico non è un “sentimento”, ma è un comportamento concreto, che Gesù ha chiaramente espresso con la sua vita e la sua morte: è “dare la vita” anche per il nemico. Questo “per-dono di Dio”, con la sua forza che ci rende possibile fidarci davvero della sua logica.
Questo ci saremmo aspettati dai responsabili delle nostre chiese. Questa è la luce che da loro ci aspettiamo.
Meo Elia

G COME GUERRE
Negli ultimi 50 anni, il numero degli interventi militari di Washington contro altri paesi (senza essere stati minacciati da questi) ammonta a oltre 250. Se la sono presa con mezzo mondo, ma hanno quasi sempre scelto l’avversario più facile.
Infatti le sole guerre combattute che si possono reputare tali, sono state per loro un mezzo o totale fallimento: quella di Corea è terminata con una tregua, quella del Vietnam è stata una sconfitta, nonostante la superiorità militare. La spedizione in Libano nei primi anni ’80 è stata una debâcle, così come l’avventura somala. L’unico trionfo è stata l’invasione di Grenada, piccola isola dei Caraibi.
Viene un sospetto: la ragione della guerra a Saddam era quella di trovare le armi di distruzione di massa. Tra queste, anche una parte di quelle che Washington gli aveva fornito negli anni ’80 per combattere l’Iran.
R.C.

 

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