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Filippo Davoli - padano piceno

(Ged, Biblioteca di ciminiera, 2003)
di Leonardo Mancino


Filippo Davoli - padano piceno

 

 

C’è davvero, nella poesia di Filippo Davoli, un disegno soprattutto in termini morali e formali (e linguistici); un autentico cammino evolutivo della sua poesia, che è civile, religiosa, giusta di toni e di modi, lirica come ancoraggio nella classicità.
Una parabola evolutiva, dicevo, che va colta in una sempre più razionale acquisizione rispetto alle prime raccolte, dai dati della realtà storica ma anche personale del poeta stesso.
Nel medesimo tempo, al primo lirismo (Alla luce della luce, soprattutto, e Un vizio di scrittura), fatto tutto di intermittenze del cuore, si sostituisce una ironica componente fantastica che gli permette un sempre maggior controllo del momento puramente lirico, nonché di una sempre mossa varietà ed intensità poetica.
In padano piceno, (libro totale, di poesie tutte eccellenti), segnalo tuttavia due testi: Il sigillo e Il viaggio di poesia. In sostanza, ho letto in esse un tormentoso senso di responsabilità sociale: Davoli confessa sempre un acuto e cristiano senso di colpa convinto e condiviso con l’altro da sé. Precocemente consapevole del ruolo che compete agli intellettuali, Davoli considera la poesia “luogo e strumento di rigorosa ricognizione della realtà, nonché di esplorazione (e di elaborazione concettuale) dell’ambiente urbano (Macerata, come pure la nativa Fermo o la paterna Carpi), in cui agonizza con i propri vizi, pensieri e sentimenti.
Nella città e nei suoi reticoli, l’inumano benessere contribuisce ad acutizzare i quotidiani disagi e malesseri: e il poeta non sa (o non vuole scegliere) la collocazione più giusta per sé: padano o piceno?
Ma a che serve saperlo o volerlo? Il mondo è tutto in tutto, nel tanto male, nel poco bene; e se bene c’è, è quello che si fa e si testimonia nonostante tutto. Davoli ormai sa (e conosce) che aspirando a beni quasi esclusivamente materiali il tempo si consuma in un’alienazione endemica.
Per lui, allora, la poesia è il reperto di una condizione (concetto, questo, di autobiologia) che da storico/umana si è fatta biologica, quasi incomunicabile, sede di un’autoanalisi condotta per riportare alla luce la smarrita identità in un ostinato e solitario sperimentalismo che ha come fine – soprattutto – di ricercare e ricreare la lingua poetica come strumento di conoscenza.
Per spiegare tutto ciò, possono bastare alcune composizioni per ciò esemplari, come Piccolo canzoniere familiare, in cui sono evidenziati grandi momenti di spleen e di sospensione; Pianura, ove le parole si snocciolano sicure e precise; Il sigillo (già citata e bellissima), in cui la vita si evolve in un esplicito ed elegante movimento elementare, realistico-estemporaneo senza eccessive alterazioni; Il vecchio amico, che si gioca tutta in una sorta di critica della ragione sognante ed in cui emergono qua e là forti considerazioni sull’esistere, di rara profondità; Il viaggio di poesia, che vale “tutta” una dichiarazione di poetica e che riporta alla mente Remo Pagnanelli; Dove la roccia non crolla, che vale il grande volto delle cose che restano dopo l’Apocalisse; e la splendida E’ sempre più elevato il silenzio, dedicata ad Alvaro Valentini, che chiude il libro e ne rappresenta una delle pagine più intense.

 


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