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Storie di questo mondo di Silvia Golfera

Leone Ginzburg, un russo italiano.

di Silvia Golfera

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Qualche anno fa è uscito presso Einaudi il bel libro di Giorgio Boatti “Preferirei di no” riguardo al giuramento di fedeltà al regime, imposto nel 1931 dal governo fascista, ai professori universitari. Su 1250 docenti, soltanto 12 cattedratici ebbero la forza di rifiutare. “Sublimato all’un per mille” fu il titolo trionfale di un giornale dell’epoca, sottolineando il successo dell’iniziativa, la cui regia era da attribuirsi a Gentile. Quale destino sarebbe toccato in sorte a coloro che tale giuramento abiuravano? Perdita della cattedra, pensione al minimo, sorveglianza di polizia assicurata. Ma forse quello che bruciava di più era l’isolamento culturale e l’ostracismo che sarebbero seguiti a un simile gesto.
Naturalmente ciò non significa che tutti i rimanenti 1238 docenti fossero fascisti. Tantissimi giurarono controvoglia, e ne ricavarono un sentimento di vergogna e di umiliazione: Lombardo Radice dichiarò piangendo ad un collega: “Coprirò di vergogna tutta la mia opera… ma non posso mettere sul lastrico i miei figlioli giovinetti”. Come lui tantissimi altri che non mi soffermo a citare. Va detto, per il vero, che illustri personaggi come Togliatti e Croce invitarono a sottostare al giuramento perché coloro che militavano nell’antifascismo potessero continuare a esercitare dall’interno la propria opera critica. Lo stesso Papa, su suggerimento di padre Gemelli, dichiarò che i docenti potevano giurare, ma con riserva interiore. E che ciò li avrebbe esonerati dalla responsabilità del loro atto.
Fra i dodici che non si sentirono di ridurre la propria coscienza ad alcun compromesso, non si trova Leone Ginzburg, ma solo per questione cronologica. Studioso precocissimo di politica e storia, esperto e raffinato interprete e traduttore di letteratura russa, a soli ventitré anni, Ginzburg ottenne, nel 1932, la libera docenza presso l’università di Torino. Ma neppure lui giurò, e per questo vide conclusa nel 1934 la sua carriera universitaria.
Ma chi era Leone Ginzburg? Molti certamente ne conoscono il nome, in virtù soprattutto del fatto di essere stato marito della scrittrice Natalia Levi Ginzburg e di comparire in modo mirabile nel famoso romanzo “Lessico famigliare”: “Mio padre incontrò Mario (il figlio) un giorno sul corso re Umberto, in compagnia di uno che conosceva di vista, un certo Leone Ginzburg. - Cos’ha da fare Mario con quel Ginzburg? – disse a mia madre….- È uno – disse mia madre – coltissimo, intelligentissimo, che traduce dal russo e fa delle bellissime traduzioni.
–Però – disse mio padre – è molto brutto… È brutto – diceva a mia madre – perché è un ebreo sefardita. Io sono un ebreo aschenazita, e per questo sono meno brutto.”
La condizione di Ginzburg sotto il fascismo emerge in un altro passo del romanzo: “Ci sposammo, Leone e io…Mio padre, quando mia madre gli aveva detto che lui voleva sposarmi, aveva fatto la solita sfuriata…Questa volta non disse che lui era brutto. Disse:
-Ma non ha una posizione sicura!
Leone infatti non aveva una posizione sicura; l’aveva quanto mai incerta. Potevano arrestarlo e incarcerarlo di nuovo; potevano con un pretesto qualsiasi mandarlo al confino. Se però finiva il fascismo, disse mia madre, Leone sarebbe diventato un grande uomo politico.”
Purtroppo Leone Ginzburg non sopravvisse alla fine del fascismo. Morì invece nel 1944 nell’infermeria del carcere di Regina Coeli, dove giunge in gennaio, in stato di semincoscienza, una mascella fratturata, per le torture subite dai tedeschi. Nei giorni successivi si spegne, senza che nessuno gli abbia prestato un soccorso adeguato.
Leone Ginzburg è un’anomala figura di intellettuale italo-russo, profondamente legato alla cultura d’origine, ma innamorato dell’Italia, che seppe fondere e fare interagire in modo fertile e ricco entrambe le tradizioni. Era nato a Odessa nel 1909, in una famiglia ebraica molto facoltosa. In realtà, come rivela Gianni Sofri sul “Dizionario Biografico degli Italiani”, egli non era figlio di Fedor Nikolaevic Ginzburg, che pure lo riconobbe e accolse come proprio, ma di Renzo Segrè, un italiano con cui la madre, solita trascorrere le vacanze a Viareggio, ebbe una breve relazione nell’estate del 1908. A favorire i rapporti della famiglia Ginzburg con l’Italia era stata Maria Segrè, governante presso i Ginzburg dal 1902, che aveva presentato il fratello a Vera Griliches, madre di Leone. Maria Segrè mantenne sempre un legame strettissimo e affettuoso col nipote, di cui coltivò la memoria anche dopo che era stato assassinato.
Dopo la rivoluzione d’ottobre, i Ginzburg si trasferiscono in Italia, poi per un breve periodo a Berlino. Successivamente si stabiliscono in modo definitivo a Torino, dove Leone studia al Liceo d’Azeglio e scrive i primi saggi. Per completare la tesi di laurea, trascorre un periodo a Parigi. Ma gli studi non sono l’unico motivo del soggiorno: qui prende contatti, infatti, con Croce, Carlo Rosselli e Salvemini e matura la propria visione politica. In Italia aderisce al movimento “Giustizia e libertà” e svolge un’intensa attività, tanto da essere arrestato nel ’34 assieme a Carlo Levi e Augusto Monti. Un’amnistia lo fa uscire nel 1936 e intraprende, assieme a Giulio Einaudi e a Pavese, l’avventura dell’omonima e prestigiosa casa editrice.
Con l’avvento delle leggi razziali, lui che era stato naturalizzato nel 1919, perde la cittadinanza, fatto che rende la sua situazione ancora più precaria e incerta rispetto a quella, già molto difficile, di tutti gli ebrei italiani. Da Parigi gli giunge l’offerta di lavorare nel gruppo che era stato di Rosselli, ma rifiuta, perché vuole restare in quella che continua a considerare la sua nuova patria e non diventare un fuoriuscito.
Con l’entrata in guerra dell’Italia, Ginzburg, assieme alla moglie Natalia e ai tre bambini, viene confinato a Pizzoli, in Abruzzo, in qualità di “internato civile di guerra”. Con la caduta del fascismo si trasferisce immediatamente a Roma. È fra gli organizzatori del Partito d’Azione, di cui dirige il giornale ‘Italia libera’, e delle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà. Adotta il nome di copertura di Leonida Granturco, ma quando i fascisti lo arrestano, il 20 novembre 1943, ne scoprono presto la vera identità e il 9 dicembre lo consegnano ai tedeschi.
Queste le scarne parole con cui Natalia ricorda gli ultimi giorni di Leone:
“Venne poi il 25 luglio, e Leone lasciò il confino e andò a Roma…Arrivata (anch’io) a Roma, tirai il fiato e credetti che sarebbe cominciato per noi un tempo felice. Non avevo molti elementi per crederlo, ma lo credetti….Leone dirigeva un giornale clandestino ed era sempre fuori di casa. Lo arrestarono, venti giorni dopo il nostro arrivo; e non lo rividi mai più….Leone era morto in carcere, nel braccio tedesco delle carceri di Regia Coeli, a Roma durante l’occupazione tedesca, un gelido febbraio.”

golferasi@yahoo.it

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