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Saddam Hussein merita la pena di morte?
di Alessandra Ruberti


Dal momento della cattura di Saddam Hussein una domanda più di altre mi è stata rivolta: neanche il dittatore iracheno merita la pena di morte?
La risposta mia e, credo, di ogni abolizionista è chiara: no, neppure Saddam merita la pena di morte. La ragione di questa affermazione sta forse nel doppio livello insito nella stessa domanda: il senso di vendetta da un lato e il senso di giustizia dall’altro. Non si “merita” una vendetta, la si subisce. E non si subisce la giustizia, la giustizia si merita perché spetta a tutti, di diritto, perché essa è super partes.
In Occidente il dovere giuridico è scisso dal dovere morale o religioso, seguendo la strada della laicità dello Stato, chissà perché tanto contestata ultimamente. Basta osservare le polemiche suscitate in Francia da una legge che vieta i simboli religiosi troppo evidenti nei luoghi pubblici.
Quindi, Saddam deve essere processato secondo la legge in un tribunale. Proprio perché il dittatore ha negato questo diritto a tanti suoi connazionali; proprio perché ha violato sistematicamente il più elementare diritto dell’uomo, il diritto alla vita. E proprio perché coloro che lo giudicheranno in un’aula di tribunale non possono essere peggiori di lui, ma anzi hanno il dovere legale prima ed etico e politico poi di essere migliori di lui.
Il problema è proprio qui: chi processerà Saddam Hussein? Il Pentagono ha recentemente dichiarato che il dittatore è prigioniero di guerra, a dispetto di quanto affermato dal comandante delle truppe in IRAQ, gen. Sanchez, all’indomani della cattura del dittatore. Quindi dovrà essere osservata da parte dei vincitori della guerra contro l’IRAQ la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra (1949), peraltro già violata durante e dopo la cattura del dittatore, quando questi veniva definito un “semplice” terrorista. (E sappiamo come vengono trattati i terroristi in territorio americano, come nella base di Guantanamo!).
Saddam ha diritto alla visita della Croce Rossa o della Mezzaluna Rossa affinché ne sia attestata la forma fisica, mentre è in custodia dei militari americani. Alla fine della custodia (presumibilmente tra ormai cinque mesi), secondo quanto dichiarato dal governo americano, il dittatore verrà consegnato alle autorità irachene che lo processeranno per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, reati che prevedono la condanna alla pena capitale. Numerose le dichiarazioni contrarie a tale esito espresse da esponenti politici: Aznar, Schroeder e persino – o forse scontatamente – Kathami, mentre il Vaticano ha auspicato una condanna a morte solo simbolica, riportando le sue posizioni indietro nel tempo.
L’Italia ha confermato la sua linea di basso profilo, rimettendosi al popolo iracheno. Del resto, ha anche rifiutato di promuovere la moratoria sulle esecuzioni presso l’Assemblea Generale dell’ONU e non ha fatto alcun passo verso l’abolizione della pena di morte nel mondo durante il semestre di presidenza dell’Unione europea.
La voce che incontra il consenso degli abolizionisti è ancora un volta quella di Kofi Annan, il Segretario Generale dell’ONU, tanto spesso scavalcato proprio dagli Stati Uniti nelle crisi internazionali: già all’indomani della cattura di Saddam Hussein, egli dichiarava che il dittatore andava giudicato secondo gli standard e le norme internazionali e che l’ONU non avrebbe sostenuto la pena di morte. Peccato che non sia operativo il Tribunale Penale Internazionale permanente, istituito a Roma nel 1998, e tanto osteggiato guarda caso dagli Stati Uniti. Non ci sarebbe stato alcun imbarazzo sul come processare Saddam Hussein e non ci sarebbero stati dubbi circa la eventuale pena a cui condannarlo: il Tribunale penale internazionale non prevede infatti la pena di morte.

Alessandra Ruberti
- Coalizione Italiana contro la pena di Morte gennaio 2004


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