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A proposito di ebrei:

incontro con Gad Lerner

di Silvia Golfera

Bertinoro ha promosso da tempo una gradevolissima iniziativa che si svolge nelle uggiose domeniche invernali: “I pomeriggi del Bicchiere”. La formula è di successo e felicemente collaudata in molte cittadine della nostra regione: incontro con autori, intermezzo musicale, assaggi gastronomici.
Alcuni nostri lettori ricorderanno, avendone già parlato l’anno passato, che Bertinoro, come del resto gran parte delle località romagnole, ha un legame speciale con la cultura e il mondo ebraico. È stata infatti patria del rabbino Ovadiah da Bertinoro, vissuto alla fine del quindicesimo secolo, studioso di qabbalah e viaggiatore. Non poteva quindi mancare un pomeriggio dedicato all’ebraismo e ad affrontare il tema è stato invitato un relatore d’eccezione, Gad Lerner, presentato e coadiuvato da rav Luciano Caro, un vecchio amico di Lugo.
L’incontro si è svolto il pomeriggio dell’8 febbraio ed ha subito assunto il tono di una chiacchierata molto informale, impossibile da ricostruire nella sua interezza, ma che ha toccato alcuni punti importanti su cui trovo opportuno soffermarmi. Mi sembra, infatti, che a fronte di un grande interesse per il mondo ebraico, siano invece poche le occasioni per un approccio significativo a questa cultura. Quando si parla di ebrei si finisce spesso per ridurli all’esperienza della Shoah o ad alcuni luoghi comuni relativi ad Israele.
Un incontro molto stimolante quello con Lerner, come sempre succede quando si parla con autenticità di sé e di sé in rapporto al mondo in cui si vive.
La sua presenza, fra l’altro, è stata particolarmente lodevole, affogato com’è fra impegni televisivi e la conduzione della Convention dell’Ulivo al Palasport dell’Eur.
Se in un nome può racchiudersi a volte, misteriosamente, il destino di chi lo porta, questo è senza dubbio il caso di Gad Lerner. Gad (“Come mai questo nome? Da dove viene?” si è sentito più volte domandare il nostro, a rimarcare comunque un’estraneità) è un nome biblico. Apparteneva all’ottavo dei figli di Giacobbe e in ebraico, ha fatto notare il rabbino Caro, significa ‘notizia’. Alcuni commentari biblici lo traducono anche con fortuna. E fortuna e notizia sono elementi senza dubbio fortemente connessi alla vita di Lerner. Il primo perché, come lui stesso ha sottolineato, nascere nel 1954 in una famiglia proveniente dalla Volinia, la regione di Leopoli, zona polacca, poi russa e oggi ucraina, significa certamente essere baciato dall fortuna. Vuol dire che i propri genitori sono sfuggiti a quell’immenso mattatoio che è stato lo sterminio ebraico in Europa.
E poi, nel mondo dell’informazione non basta la qualità a fare il successo, occorre una buona dose di fortuna. Ma quali sono i suoi riferimenti ideali, nel fare informazione?
Fra il serio e il faceto Lerner indica come modelli del suo stile giornalistico il metodo rabbinico, ossia lo spaccare ogni questione in infinite altre, procedere per paradossi, non trascurare alcuna prospettiva. Obiettivo è quello di cercare la verità più scomoda, meno consolatoria, meno edulcorata, quella che produce conflitto, fa arrabbiare, spinge il fruitore a voler approfondire. “Ho fatto buon giornalismo quando spingo qualcuno a passare da una libreria per cercare libri che lo aiutino a sapere”.
Ma importante è stata anche la scuola di Lotta Continua, giornale da cui è partita la sua avventura professionale. Complice il fatto che spentosi il movimento prima della rivista, questa offriva, pur all’interno di un indirizzo di fondo, una straordinaria libertà a coloro che vi lavoravano.
E poi ancora si è parlato di identità quale elemento fondante del proprio esistere. “Io non nascondo il mio essere ebreo, e per questo sono stato spesso accusato di sbandierarlo”. “Essere ebreo non ha significato nulla nei primi anni della contestazione giovanile, non segnava alcuna differenza, ma successivamente, col riaccendersi del conflitto medioorientale, questo veniva visto come un limite, un elemento da cui non si poteva prescindere”.
“Essere ebreo significa che, pur profondamente legato agli accadimenti della realtà italiana, con parenti sparsi fra Israele e mezza Europa, si finisce per avere una visione più ampia della realtà”. “Essere ebreo significa amare profondamente il paese in cui si vive, ma sentirsi anche parte di una civiltà più ampia, che per un’ebreo europeo rimanda inesplicabilmente al problema di interrogarsi su cosa sia e come costruire una cittadinanza europea”.
E a questo proposito mi tornano in mente le parole di Amos Oz, tratte dal suo ultimo libro “Storia d’amore e di tenebra” quando racconta: “Mio zio David….era un europeo consapevole, in un epoca in cui nessuno in Europa si sentiva ancora europeo, a parte i membri della mia famiglia e altri ebrei come loro. Tutti gli altri erano panslavi, pangermanici, o semplicemente patrioti lituani, bulgari, irlandesi, slovacchi. Gli unici europei di tutta Europa, negli anni venti e trenta erano gli ebrei”.
E forse di questo l’Europa dovrebbe ricordarsi un poco più spesso. Un po’ più di riconoscenza (vera) e di rimorso (sincero) contribuirebbero a fare di Israele un’entità più solida, e non uno Stato in perenne rischio di annientamento. Aprendo di conseguenza maggiori prospettive anche per uno Stato palestinese.
Adriano Sofri, a mio avviso una delle voci più acute e più libere (sic!) della cultura italiana, ci ha rammentato più volte come Israele sia un pezzo di Europa, espulso e rigettato lontano dal nostro continente, sul quale purtroppo si continua a scaricare una cattiva coscienza che non si pacifica. Il sionismo stesso, come movimento che si poneva l’obiettivo di ricreare un “focolare” ebraico, è sorto come reazione all’ondata di antisemitismo che i nuovi nazionalismi di fine ottocento avevano alimentato. Infrangendo così il sogno in cui molti ebrei si erano cullati, di una possibile assimilazione. Anche per gli israeliani il problema dell’identità è complesso e mai compiutamente risolto: all’attaccamento per la propria terra fa spesso da contraltare il bisogno di recuperare le proprie radici lontane.
In definitiva cosa significhi essere ebrei è estremamente difficile da esplicitare per gli ebrei stessi: non solo religione, sottolineano sia Lerner che Caro, non solo popolo o cultura, non certo razza, chè l’unica razza esistente (altro lascito di Einstein, oltre alla Relatività) è quella umana.
Paradossalmente le uniche idee chiare sulla definizione di ebreo sembrano possederle gli antisemiti: l’ebreo da complesso diventa doppio, e quindi infido, perché certo l’antisemita è un uomo semplice che fatica a comprendere un’identità non appiattita su un’unica dimensione. L’ebreo è potente, lo si immagina operare nell’ombra (e quindi la sua potenza, poichè invisibile, diventa immensa), è la finanza che stritola i piccoli, è massoneria, è potere occulto che esaspera l’impotenza delle masse. È l’incarnazione di tutte le paure senza nome. Ho trovato molto azzeccata la definizione di Lerner: “L’antisemitismo è la risposta più facile per chi non ha il coraggio di guardarsi allo specchio e di cogliere anche in sé stesso una responsabilità per i mali che lo affliggono”.
Spunti per una riflessione che certo ha trovato ascolto in un pubblico molto numeroso e partecipe, a testimonianza, aldilà dell’indiscussa capacità di richiamo del personaggio, dell’interesse che la cultura ebraica riscuote almeno nella nostra regione e di cui, ripeto, si parla poco o in modo spesso superficiale e fuorviante. Bisogno a cui occorrerebbe dare risposte più articolate e stimolanti se c’interessa realmente contrastare quel sentimento antiebraico che ogni tanto aleggia nel nostro continente, come i recenti sondaggi dell’UE hanno evidenziato, e che è senza dubbio segno di un disago, di un malessere, di una febbre sociale che potrebbe intossicare e travolgere, come nel recente passato, la nostra ‘bella’ Europa.

golferasi@yahoo.it


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