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Ho conosciuto Filippo Davoli in circostanze curiose, circostanze che rendono ancor più
significativa, attualmente, la convinzione che la parola, quando si incarna in quello che
non ho alcuna ritrosia a definire evento (miracolo, direbbe Montale), sa essere più
comunicativa e densa di qualunque e-mail, chat, sms e via baloccandoci con gli attuali
veicoli che attraversano l'etere. Perché ci siamo conosciuti proprio in una di quelle
piazze virtuali, evito di dire postmoderne, che l'architettura del web apre a decine. Ed
è curioso come, nel totale anonimato di un nickname, cioè di uno pseudonimo senza
ulteriori specificazioni se non quella del nome proprio accanto alla città di
provenienza, ci siamo subito riconosciuti come anime affini. Le mani sulla tastiera, senza
un volto, si sono scambiate alcune battute e rese conto che avevano qualcosa in comune:
l'amore per la poesia, per i libri, per la musica.
Mi piace la suggestione di questo incontro, e mi scuso se ne inseguo per un istante il
significato. Un incontro che testimonia, a dispetto di quanti sostengono che il futuro del
libro sta nello schermo freddo di un personal computer o di una scatola elettronica, che
è vero proprio l'opposto e che l'arte riesce a penetrare dappertutto e smuovere le cose
come un maestrale violento per poi ricomporle fuori da un monitor e consentire l'incontro
tra due persone (non più nomi di uno spazio inesistente) nei luoghi più consoni per chi
ama i libri. Come in una trattoria di Cagliari o di Macerata, attorno a un tavolo a
parlare, in una classica locanda dei "destini incrociati", per usare le immagini
dei miei Miguel de Cervantes e Italo Calvino. Una locanda fumosa ed umanissima.
Così, anticipo fin d'ora che, in queste poche righe, non renderò del tutto merito alla
raffinatezza e densità della poesia di Filippo Davoli con una lettura filologicamente
accurata. Ritengo che il fascino dei libri belli consista nel fatto che essi riescono ad
adattarsi agli stati dell'animo, perché, come dice Filippo spesso, sono proprio i libri
che ci cercano e non noi che cerchiamo loro. Perciò, preferisco seguire la suggestione
della mia lettura, di un percorso personale tra alcune poesie che mi sembra corrano lungo
un filone che le accomuna (del resto, esistono molti modi per entrare fra le pieghe di un
testo e, forse, a maggior ragione di una raccolta di poesie, che per quanto concepita e
scandita dall'autore, a differenza del romanzo, ha la prerogativa d'essere come una stanza
dalle mille porte attraverso cui scegliere di entrare).
Dopo avere letto Una bellissima storia ed esserne rimasto piacevolmente impressionato, ho
voluto incontrare l'autore. Una volta è naufragato lui, dal mare d'acque, a Cagliari. Una
seconda volta sono andato io a Macerata: entrambi abbiamo così gustato i sapori e
aspirato i profumi dei nostri luoghi, sicché le pagine si sono animate di preziosi
dettagli d'esistenza. Da Macerata a Recanati, dove Filippo mi ha accompagnato con la
piacevolezza affabulatoria di cui è dotato, il cammino è breve su per le strade che
circondano i colli dolci e ondosi, come Filippo ama dire, del maceratese. Due mari,
allora, uno dacque e l'altro d'erbe, il mio e il suo, che ci accomunano nel
movimento corposo e morbido delle parole. Con Filippo, sul Colle dell'Infinito, ho
compreso - direi meglio, preso, afferrato e portato via con me - quel viatico
straordinario che è l'ultimo verso dell'Infinito.
E il naufragar m'è dolce in questo mare: le parole covano nella sensibilità, filtrano
dalla ragione ma radicano profondamente nel loro lento sedimentare sui luoghi del nostro
vivere. Non avevo mai pensato a quanta vita dei colli recanatesi, che Leopardi aveva
dinanzi agli occhi, palpitasse in quel verso.
La poesia di Filippo è così: è vita, prima di tutto. E poi è parola, una parola che si
incarna - profeticamente - per ritornare alle cose, agli uomini, al dialogo fitto ed agli
incontri. "La vita è l'arte dell'incontro", ama dire Filippo citando Vinicius
de Moraes. Aggiungerei io, parafrasando, che per Filippo anche la poesia, in quanto
strumento, in quanto accidente che al poeta è toccato in sorte d'avere, è arte
dell'incontro. Banale sillogismo ci porta ad inferire che senza la vita, senza il
movimento talvolta amaro delle cose, la poesia è parola vuota, fine a sé stessa, che non
si incarna.
Incontrare gli altri, comunicare, è spesso faticoso. Implica uno spostamento non solo
fisico ma anche - soprattutto - interiore. E l'immagine del cammino, della ricerca che
conduce all'incontro che poi va coltivato col dono sacro della parola è carissima a
Filippo. Anzi, direi che sostanzia la ragione stessa del suo ultimo libro, Una bellissima
storia, dove già per sé la storia è un percorso lungo le proprie strade e per i propri
luoghi. Luoghi che non sono mai concepiti come vuoti, solitari; sono intensamente abitati
da mille destini che Filippo incrocia: dediche, citazioni, riferimenti alla quotidianità
di una comunità rendono i suoi versi una bellissima città a misura d'uomo.
Vorrei qui fare un breve cenno, per spiegarmi e restituire l'immagine che ho avuto nel
vedere i collages di Filippo, proprio alle sue composizioni figurative, dove si insiste su
qualche immagine reale o appartenente alla nostra tradizione pittorica usandola come
sfondo, per "incollarvi" o riprodurvi con la tecnica del fotomontaggio profili a
lui noti, sagome e ritratti di persone che hanno avuto un tratto significativo nella sua
vita e che rappresentano la ricerca delle sue radici. Le piazze, i locali, le stanze vuote
si animano della sua gente. Della sua comunità.
La medesima impressione possono darci i suoi versi con una magica suggestione evocativa e
pittorica. Il suo camminare diviene tuttavia il nostro camminare, ché diversamente la
poesia non si incarnerebbe. Un cammino attraverso il tempo e lo spazio, una storia di
incontri, perdite, nostalgie, miracoli imprevisti e gesti minimi che poi divengono
emblematici. Così, anche il tema dell'incontro può avere il duplice valore della magia e
dell'incanto da una parte, della sofferenza e del distacco dall'altra. Gli incontri sono
imprevisti, ci capitano tra capo e collo, proprio come i libri. Succedono, accadono senza
che noi ne possiamo prevedere i tempi e la scansione. E tutto si basa su un sottilissimo e
tenue filo di immagini, profumi, gesti evocativi. Un semplice tratto, una svista.
Tra simili ci si conosce al volo.
Si riconosce un tratto, una svista,
i sillogismi del cuore. Specialmente
se poi un'ansia di coprire fa scoprire
le carte, svelare i sogni, diciamo così
Ma è un gioco per pochi intimi e forse
una tacita complicità destinata
al suo privato oblio.
That's all.
(Una bellissima storia)
Tutta la densità del primo verso, vitalissimo e dal profumo intenso di una invocazione,
si riverbera poi nella malinconia e quotidianità del finale. That's all. Questo è tutto:
come per chiudere una questione e rimandare tutto al prossimo pensiero, alla prossima
poesia. Come uno scatto improvviso, uno struggimento che è già divenuto volontà di
proseguire la bellissima storia verso un altro incontro. That's all.
Il rapporto con il tempo è basato su un ambiguo atteggiamento di amore e odio. Filippo lo
insegue dentro l'immobilità paradossale del suo trascorrere, fra le storie dell'esistenza
e la storia personale dell'esistere: un tempo immobile, catturato nell'immagine del locale
dove si gioca a biliardo e che immaginiamo avvolto nella semioscurità delle luci soffuse,
tra i fumi e le persone che maneggiano la stecca da biliardo, magari un bicchiere poggiato
sulla cornice del tavolo.
Se Ti incontrassi davvero
al Bar del tempo
forse pioverei nei tuoi occhi
ma mi risucchierebbe di là
la sala da biliardo
e la fumea che ne colora le ore.
Io giocare non so: preferisco guardare
l'attimo in cui la canna
schiocca sulla biglia color crema,
afflitto come sono dalla smania
di frenare gli istanti, di calarmi
dentro la vita (Tu che faresti?)
forse in quegli occhi Tuoi
potrei arrestare l'ansia di questa corsa
senza finale
con le tappe intermedie che si accavallano
se solo Tu abbandonando il bicchiere
apparissi per caso sull'uscio
a cercarmi di nuovo.
Ecco, allora direi
che forse non era grave scivolare
sul piano verde tra i birilli scomposti
se Tu venissi a chiedermi di andare
perché s'è fatto tardi.
La sala da biliardo, allora, diviene un bar assoluto del tempo, diventa un luogo altro e
fuori dalla misura crono-logica, per seguitare a giocare coi paradossi di Davoli, un luogo
nel quale si cerca con smania di frenare gli istanti (un altro paradosso: la frenesia
della non frenesia); si spera, almeno si spera, di vedere comparire sull'uscio la figura
di un altro incontro, in un'atmosfera cinematografica dall'intenso tratto figurativo:
talché ci rimane impresso, assurdamente, il volto di un'assenza. La figura che si spera
di vedere ma non si vede: se tu venissi a chiedermi di andare / perché si è fatto
tardi.
Affascinante questa capacità della parola di legarci all'assenza di un'immagine, più che
all'immagine stessa (se tu venissi: ma non ci sei). In questo caso, cioè, l'andare via
perché si è fatto tardi è proseguire lungo il filo di una bellissima storia con niente
altro che la speranza di non essere più soli. Proseguire il cammino con il desiderio di
un incontro e con la speranza che l'incontro ci possa essere, al bar del tempo e in
un'altra poesia. In questo caso, davvero esemplare della poesia - o, se è ancora concesso
usare tale terminologia, della poetica - di Filippo, c'è il racconto della contraddizione
fra il desiderio di vivere nel mondo e la difficoltà ad esserci, a sincronizzarsi con i
suoi movimenti; l'evocazione di uno scotto da pagare alla lucidità con cui si osservano
le cose ma che impedisce però di aderirvi completamente. Il divario tra la contemplazione
e la materialità del vivere, se si vuole: o ancora meglio, il contrasto tra chi il mondo
lo vive da dentro, senza poterne valutare l'interezza, e chi invece è capace di uno
sguardo sintetico, da un osservatorio privilegiato e complessivo, ma che il più delle
volte, non potendo viverci dentro, subisce l'esistere come la condizione di un
disadattato.
Ma Al bar del tempo può ancora accadere l'evento dell'incontro; c'è lo scatto miracoloso
di un accadimento che poi è sempre una ricerca e una speranza che tale accadimento si
verifichi, più che la sua realtà e certezza. Ed entriamo, per l'ingresso principale,
dentro un altro tema di Filippo, quello di una profonda intensa religiosità che anima
molte sue pagine, direi anzi tutte, anche quando non s'affaccia con evidenza. Una
religiosità che da una parte gli fa sentire l'altissimo valore e la responsabilità
impliciti nel fare poesia, dall'altra tributa al poeta la capacità profetica
dell'intermediazione tra il qui ed ora e l'Altro come altrove da qui. La ricerca tra gli
uomini diventa anche una ricerca con gli uomini per una possibilità di riscatto più
ampia. Con le parole che Filippo Davoli ama dire spessissimo: la poesia è un accessorio,
è strumento. Non può esistere fuori dal mondo e dalla vita che lo anima.
Ecco allora il senso radicalmente profetico della parola evocativa che galleggia nel bar
del tempo: dice Davoli di aver voluto esplicitamente dialogare con il libro omonimo Il bar
del tempo di Davide Rondoni: "nel testo che dà il titolo al libro l'autore
accompagna Gesù Cristo al bar. Qui ho sentito affiorare un'ipotesi di incontro ulteriore
nello stesso bar" (vedi nelle note in calce al libro di Davoli).
Ebbene, sono sempre contrario alle note d'autore nei libri, perché mi danno l'impressione
di una certa nostalgia che l'autore stesso ha per il proprio testo, quasi di volontà a
non staccarsene del tutto nel consegnarlo ai lettori. Preferisco sempre l'ambiguità,
preferisco che l'autore non dia segnali e che lasci scoccare dall'incrocio tra la sua
anima e quella del lettore la scintilla dell'interpretazione. Tuttavia, qui, la
spiegazione di Filippo ha un senso imprevisto, perché crea, come in abisso, in una
vertigine di senso, l'occasione per un molteplice incontro: tra Davide Rondoni e Cristo;
tra Filippo e Davide Rondoni (o meglio, tra le poesie dell'uno e dell'altro); tra Filippo
e Cristo (o il desiderio di Cristo); tra Filippo e noi e così via ricostruendo i circoli
che, dal più stretto al più esterno e ampio, vanno allargandosi poco a poco come cerchi
nell'acqua. E vanno restituendoci il senso della poesia che è incarnazione del verbo. La
poesia diviene allora parola che ha messo immediatamente in contatto l'uomo con l'uomo e
l'uomo con sé stesso e con la propria ricerca del senso che ha il vivere (o il continuare
a vivere: l'incontro con Cristo evoca forse il senso di una stanchezza per il tempo
materiale?) e il medesimo fare poesia.
Parola chiama parola e libro chiama libro. Per me, aver letto per prima la raccolta più
recente di Davoli, significava giocoforza iniziare un cammino, una storia cui ora potevo
anche dare una sagoma, il profilo dolce e marino dei colli maceratesi. E riconoscere,
percorrendo a ritroso la storia poetica di Filippo per approdare al suo libro precedente,
che per lui la parola è uno stato di necessità, è un vizio di scrittura.
Come un vortice dolce di vento che spariglia improvviso le carte sul tavolo da gioco; come
un mulinello imprevisto che scompiglia le foglie sul terreno e sembra il passare di
un'auto silenziosa lungo qualche stradina di campagna che si inerpica su per chi sa dove.
Leggeri, i cambiamenti insistono sulle cose poco a poco: piccoli miracoli, sguardi,
subitanei spostamenti dell'anima. In un istante, la presenza di intuizioni minuscole (di
un click improbabile, dice in un verso della bellissima storia) e pacificatorie:
Spesso è come nell'aria
un nuovo darsi delle cose.
Sorge nei fiori
e prelude alla neve
e galleggiando in te d'intorno dice
che un altro tempo incombe
e si dischiude.
Intuizioni minuscole sottendono
alla gelida notte. Guardo
sovente la sua pace. Penso
in me un porto. Riposo.
Qui, il movimento della lettura e del pensiero diventa gradatamente verticale, come una
musica che propone il tema, si allarga ed espande tutt'intorno per raccogliere le
possibili pulsazioni del mondo e dopo costringe a cadere giù giù, fin dentro l'animo,
porto di noi stessi. E poi il riposo, il sospiro di pace, la sedazione, l'ultima nota
appena prolungata di un canto largo. Guardo, penso, riposo: il ritmo del respiro vitale.
In Parva c'è la musica e l'evocazione figurativa, prima di tutto, che ci costringono a
impadronirci di ognuna delle sue parole e seguirne l'incanto sino all'ultimo, fino a che
esse riescono a diventare nostre, disponibili a farsi piegare (dote rara questa, in epoca
di artifici di maniera in cui, alla pastosità e densità della parola duttile, si
preferisce la freddezza e la rigidità del ragionamento. Lo dico pensando a molti libri
che ultimamente si pubblicano poesia e narrativa - incapaci spesso di avere il coraggio di
volare alto, di uscire dal bozzettismo senza alcun respiro, ancorché non poetico, almeno
narrativo: Filippo non teme il confronto con le parole e, in certo senso, le lascia libere
di creare altro dall'immediata orizzontalità della lettera. Fa che la parola divenga
immagine e che a questa si accompagni una musica: non un gioco a tesi e neppure una fredda
architettura di segni matematici, ma un impegnativo compromesso con la vita, per il quale
il testo, dopo, è anche di chi ha avuto sufficiente coraggio per entrarvi dentro. O,
forse meglio, di chi ha avuto il coraggio di farsi abitare da esso).
Mamre, a mio parere, è uno dei momenti più intensi di Davoli, dove quasi si
crea l'effetto eco di un ascoltare interiore:
Nel tempo
non del tempo
soltanto in transito
svanendo e rinascendo poco a poco
non del tempo
nel tempo
Si impasta come l'immagine di un dialogo con sé stessi, all'ombra della quercia di Abramo
e sotto le ali degli angeli emissari:
stando come si sta
tra le foglie e la terra. Poi la notte
la lunga notte mai scesa, perenne
ci si riprende gli occhi
e così via.
Ma è per via
che troveremo il giorno, riposando
sopra la roccia
all'ombra delle querce.
Mistero, suggestione, musica, immagine e una perfetta densa sensazione di pace. Nel
frattempo, il lettore (che oramai è quasi costretto a pronunciare i versi di Davoli ad
alta voce) aspetta il miracolo di un'altra poesia che violi il paradosso di questo
silenzio eloquente. Anche se gli costa fatica. Anche se è un gioco per pochi intimi e
forse / una tacita complicità destinata / al suo privato oblio.
That's all.
di Giovanni Cara
(questo articolo è apparso
nella rivista "Portales", 2, 2002)
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