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Il mestiere delle armi in Africa

a cura di Roberto Cucchini

Ancor oggi, l’Africa è il continente del mondo più dilaniato dalle guerre. Da circa 15 anni si assiste ad una sorta di “somalizzazione” di diverse entità statali post-coloniali: la dissoluzione delle istituzioni, causata dalla fine del sostegno strumentale ottenuto dalle grandi potenze durante quasi cinquant’anni di “guerra fredda”, ha concorso al riemergere di identità precoloniali, al crollo dell’economia legale, al dispiegarsi della corruzione e alla deflagrazione di piccoli e grandi conflitti bellici.
Ma di quali conflitti si tratta? L’aiuto militare o finanziario internazionale da parte di Usa e Urss aveva assicurato ai vari gruppi armati, statali e non, una certa coesione politica ed entrate regolari. Tuttavia la perdita di tutto ciò, con la dissoluzione del blocco orientale, ha permesso in primo luogo la circolazione di una grande quantità di armi provenienti sia dai paesi dell’Est che dal mercato libero americano. Questo, in concomitanza con la crisi della versione africana degli Stati nazionali, ha facilitato l’esplosione di conflitti armati complessi e multiformi, di bassa intensità militare anche se di altissima intensità di vittime, scatenati da gruppi armati quasi sempre non statali, da signori della guerra, da eserciti o da bande all’interno di un’economia dove prevalgono le attività predatrici e criminali dei vari gruppi belligeranti.
Come è stato scritto: “Dell’aureola eroica dei partigiani, ribelli e guerriglieri non è rimasta alcuna traccia. Una volta sostenute ideologicamente e spalleggiate da alleati stranieri, guerriglia e antiguerriglia si sono rese autonome. Quel che rimane è la teppaglia armata. A tenerli uniti non vi è nessuno scopo, progetto o ideologia, bensì una pseudostrategia il cui vero nome è rapina, assassinio, saccheggio”. (Hans M. Enzensberger, Prospettive sulla guerra civile).

IL CONTROLLO DELLE MATERIE PRIME
La maggior parte dei confitti armati in atto in Africa, hanno come obiettivo il controllo del territorio, che permette il saccheggio delle risorse per proprio tornaconto o per assecondare gli interessi di potenze esterne all’area.
Se infatti andiamo a vedere più a fondo quali risorse si celano in questi paesi, capiremo perché le maggiori forze economiche e finanziarie attualmente presenti nella scena internazionale, auspichino in modo sfacciato, una sorta di colonialismo di terza generazione (dopo il colonialismo tradizionale e il neocolonialismo), caratterizzato da un’esplicita ideologia neorazzista che imputa ai popoli africani, per ragioni non solo o tanto politiche, ma dichiaratamente antropologiche, i loro insuccessi sociali, l’incapacità di uscire dallo stato di sottosviluppo in cui si trovano immersi, e quindi la necessità di metterli in “amministrazione controllata” da parte delle potenze del Nord.
Ricordiamo, a titolo di esempio, solo alcuni dati: la produzione di cobalto dell’Africa copre attualmente circa il 40% del fabbisogno mondiale, mentre oltre il 50% delle riserve mondiali conosciute sono concentrate nel Congo e nello Zambia; il cromo (Sudafrica e Zimbabwe) rappresenta il 61%; i diamanti (Congo, Botswana, Sudafrica) il 42%; la produzione di uranio (Niger e Namibia) il 16 %; quella dell’oro (Sudafrica) il 24%. Sempre il Sudafrica produce l’80% di platino, ma vaste riserve di metalli appartenenti a questa famiglia di minerali si trovano anche nello Zimbabwe, Burundi, Etiopia, Sierra Leone e Kenya. Sempre le viscere del Sudafrica trattengono il 18% della produzione mondiale di titanio e il 14% di manganese.
Come si può capire, questo tesoro che madre natura ho regalato al continente nero, non può lasciare indifferenti le vecchie potenze industrializzate né quelle emergenti, le quali cercano alleati o complici nei vari governi della zona o in chi può garantire i loro lucrosi affari, anche se in dispregio dei diritti umani. Una delle ragioni dei conflitti, in atto in questa regione, è quindi da attribuirsi proprio alla deliberata volontà di controllo di materie prime strategiche, che interessano alcune potenze industriali (in modo particolare gli Usa, la Francia e l’Inghilterra) e varie multinazionali, che con la fine del regime di apartheid in Sudafrica, hanno visto pregiudicato il loro indiscusso dominio sulle risorse in questa parte del mondo. Non potendo più appoggiarsi al regime segregazionista di Pretoria, sono state obbligate a stringere alleanze più o meno esplicite, con altri governi della regione e in particolare con l’Uganda e l’ex Zaire, dopo averli prima ripuliti di personaggi politicamente impresentabili, ma per lungo tempo loro buoni alleati e soci in affari, come Amin e Mobutu.
Grazie proprio al traffico di diamanti di cui controllava il contrabbando, le vie di transito, i posti di blocco, ecc., il movimento angolano di guerriglia antigovernativa (Unita) guidato da Savimbi – uomo protetto e armato dall’Occidente, ucciso in circostanze oscure circa due anni fa, poco prima che le fazioni in lotta arrivassero a intavolare l’ennesima trattativa di pace – era riuscito a rifornirsi di armi pesanti e proseguire la guerra civile combattuta solo per mettere le mani su vaste zone del paese ricche di minerali, e trarne a proprio vantaggio (e a quello dei suoi amici) i maggiori benefici economici. La Commissione incaricata dalle Nazioni Unite di indagare sulle violazioni delle sanzioni imposte a questo movimento armato, dovette lamentare che “la capacità dell’Unita di vendere i suoi diamanti si fondava su tre fattori: accesso alle zone minerarie, ai luoghi di commercializzazione, e facilità di vendita sulle principali piazze” che, guarda caso, sono tutte collocate nei paesi ricchi.
Un altro esempio: l’ex presidente liberiano Taylor ha offerto asilo, formazione e armi ai ribelli della Sierra Leone, che lo ricompensavano in diamanti. Gli stessi ribelli pagavano sempre con tale pietra i rifornimenti di materiale bellico ottenuti da mercanti occidentali e provenienti dal Burkina Faso, Costa d’Avorio, Slovacchia e Ucraina. Ciò ci fa capire come le esportazioni diamantifere della Liberia verso il Belgio, potevano superare di ben 16 volte, in termini di carati, le sue capacità di estrazione.

L’ORO NERO CHE PIACE AGLI USA
Tra le materie prime che fanno gola, c’è anche il petrolio. Le riserve africane dell’oro nero interessano attualmente gli Usa, impegnato da tempo a diversificare i propri approvvigionamenti: il petrolio africano è considerato una priorità per la loro sicurezza nazionale, tanto da prevedere che nell’arco di alcuni anni, un buon 25% del suo fabbisogno verrà proprio da questo continente. Qui entrano in campo paesi come il Sudan, la Nigeria (primo esportatore africano di greggio), l’Angola (secondo grande produttore continentale), la Guinea equatoriale, il Congo e il Gabon. Già due grandi produttori di petrolio americani, come la Exxon-Mobil e la Chevron-Texaco, si stanno muovendo con il proposito di investire laggiù oltre dieci miliardi di dollari. Un campanello d’allarme è venuto però dall’Associazione delle conferenze episcopali della regione dell’Africa centrale, che ha messo in evidenza “la complicità esistente tra le compagnie petrolifere e i politici della regione”, aggiungendo inoltre che “i proventi del petrolio sono utilizzati per mantenere al potere alcuni regimi” che non rispettano i diritti umani.
In Angola, ad esempio, dove la Chevron controlla già il 75% della produzione locale, una cricca di affaristi vicini al governo, ha stornato circa il 30% dei profitti provenienti dal petrolio a proprio esclusivo vantaggio. Intanto gli Stati Uniti hanno provveduto a escludere la Guinea equatoriale, soprannominata il “Kuwait africano”, dalla lista dei 14 paesi africani accusati di violare i diritti civili e politici delle loro popolazioni. Si tratta di uno Stato, in cui i due terzi delle concessioni petrolifere sono state assegnate a operatori americani fortemente legati all’amministrazione Bush, e descritto dal rapporto annuale della Cia come un paese gestito “da dirigenti senza legge che hanno saccheggiato l’economia nazionale”.

Roberto Cucchini

 

 

Congo: i diamanti di sangue

 

Sempre il controllo delle materie prime, ha rappresentato la causa principale delle guerre in Angola, Liberia, Sierra Leone e nella Repubblica democratica del Congo (RdC). Qui, dal 1998, è iniziata tra la fazione dell’ex dittatore Mobutu e quella di Kabila (padre), ciò che alcuni commentatori hanno definito “la prima guerra mondiale“ del continente, in cui sono stati coinvolti gli eserciti di ben nove Stati africani: Congo, Zimbabwe, Namibia, Angola, Rwanda, Burundi, Uganda, Sudan e Ciad.
Oggetto del contendere: il controllo sull’estrazione e la vendita di pietre preziose (la RdC possiede un terzo dei giacimenti diamantiferi del mondo), ma anche di legname, oro, manganese, uranio, rame e del coltan (una miscela di cobalto e wolframio, utile all’industria bellica e spaziale, ma anche a quella dei cellulari e microprocessori), di cui questo paese dispone i due terzi delle risorse mondiali.

 

©Missione Oggi


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