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Oil, oil oil. Petrolio e politica nella Russia di Putin

di Simone Morgagni

Le prossime elezioni presidenziali, che si terranno in Russia in primavera e le elezioni svoltesi nella seconda metà del 2003 per il rinnovo della Duma, hanno creato nel contesto internazionale molte preoccupazioni circa la paura di una deriva oligarchica dello stato russo sotto la figura di Vladimir Putin. Questa situazione è stata acuita dall’arresto nel 2003 di Mikhail Khodorkovskij, maggior azionista della società petrolifera Yukos, e dalla recente e misteriosa sparizione di Ivan Rybkin, uno dei candidati a presidente dell’opposizione. La realtà russa si manifesta in maniera molto più complessa di quanto possa apparire a prima vista, e se al momento attuale non si sa ancora cosa possa essere successo a Ivan Rybkin, è possibile chiarire almeno in parte la lotta intestina che ha attanagliato nella seconda metà dello scorso anno la federazione Russa, sfociata appunto nell’eccellente arresto di uno degli uomini più ricchi del globo. Bisogna innanzi tutto far notare come in pochi paesi il rapporto tra impresa privata e democrazia sia cruciale ed al contempo deregolamentato come nella Russia post-comunista. Questo fattore è figlio del saccheggio che si è compiuto negli anni del passaggio dall’economia pianificata all’economia di mercato ed ha portato alla dicotomia netta tra una massa di popolazione estremamente povera ed un ristretto gruppo di oligarchi dei media e del petrolio immensamente ricchi. Un’altra chiarificazione preliminare da porre riguarda il ruolo del petrolio all’interno dell’economia dello stato russo; si può notare infatti, come esso rappresenti circa il novanta per cento delle importazioni di valuta estera ed in base a semplici considerazioni macroeconomiche si può agevolmente ridurre lo schema economico russo a quello della Spagna del declino imperiale; si può sostenere insomma come la Russia sia uno stato industriale decaduto che al momento si regge sullo sfruttamento intensivo dei propri territori siberiani, delle proprie materie prime, si nutre insomma delle ricchezze del proprio impero. L’errore, se vogliamo identificarne uno principe, risale ai tempi in cui Boris El’cin privatizzò completamente l’industria, in particolar modo quella petrolifera, cedendola sottocosto (si stima a circa cento volte meno del prezzo di mercato) a personaggi legati a lui ed alla propria famiglia. Da allora ad oggi essi hanno sfruttato le ricchezze naturali ed economiche del paese esportando più denaro possibile all’estero e cercando al contempo di acquisire potere controllando i media e di introdursi all’interno dei singoli governi così come di quello federale. L’avvento al potere di Vladimir Putin ha rovesciato però le carte in tavola. Egli non sembra, infatti, disposto a lasciarsi governare da questa ristretta cerchia di personaggi influenti e sembra determinato a cercare di recuperare allo stato il controllo delle regioni siberiane e del maggior quantitativo possibile di ricchezza sottratta alla nazione russa. Appena la condizione economica generale delle finanze pubbliche si è ristabilita infatti, la lotta si è subito fatta cruenta. Putin è riuscito prima a dividere gli oligarchi del petrolio da quelli dei media, alleandosi con i primi a danno dei secondi e riuscendo nel breve volgere di qualche anno a ristabilire un perentorio controllo statale sui mezzi di informazione, procedendo per vie legali contro i principali detentori di giornali e televisioni, oscurando canali e testate od ottenendo l’allontanamento dei precedenti proprietari. E’ mia opinione che tutto questo potere mediatico concentrato nelle mani del presidente sia altrettanto dannoso ed auspico pertanto una tempestiva ridistribuzione all’interno del settore che porti ad una vera economia di mercato rispettosa delle leggi e garante della libertà individuale dei singoli. Anche se ammetto come questa sia una prospettiva difficilmente realizzabile in un clima di scontro come quello attuale. Eliminati quindi gli oligarchi dell’informazione Putin si rivolge, nella seconda metà del 2003, contro il principale oligarca del petrolio, il maggior azionista della quarta industria petrolifera del globo, Khodorkovskij. La Yukos da lui gestita, infatti, svolge da anni una politica filo-americana nell’orbita del gruppo neoconservatore del presidente degli Usa Bush. Ciò cercando di massimizzare la produzione dei propri giacimenti per sfruttare l’alto prezzo del greggio, cercando attraverso una rete di circa 600 aziende off-shore di ripulire dalle imposte ed esportare dalla Russia il maggior quantitativo possibile di denaro e conducendo quella che possiamo definire come una vera e propria politica estera, consistente in uno stretto rapporto sia con gli Usa sia con un avversario strategico per la federazione russa come la Cina. Questa deriva è stata aspramente combattuta dalla presidenza russa, prima con l’introduzione di misure fiscali sempre più rigide contro l’esportazione di capitali e l’evasione fiscale, da compiersi in tre passi, dal 2002 al 2006, quando la Yukos ha poi mostrato segni di interessamento verso la politica attiva attraverso la candidatura di propri dirigenti ed ha manifestato l’intenzione di una fusione con la ExxonMobil, anche attraverso la magistratura in maniera alquanto più decisa. Questa prospettiva avrebbe infatti portato ad uno scontro immane tra lo stato stesso ed uno stato dentro lo stato come la Yukos, scontro che sarebbe avvenuto dentro i palazzi del potere attraverso l’elezione guidata di uomini nel conto spese dell’azienda petrolifera, la quale oltretutto non sarebbe neppure più stata controllabile poiché protetta dal capitale americano che la ExxonMobil vi avrebbe convogliato con la fusione. Questa ipotesi sembra essere corroborata anche dalle reazioni che hanno seguito lo svolgersi della vicenda dato che al momento dell’arresto di Khodorkovskij sia l’ambasciatore americano a Mosca, sia Richard Perle, entrambi apparentabili al gruppo neoconservatore hanno espresso formali proteste e tentato di escludere la Russia dal successivo G8 come rappresaglia, sintomi evidenti, data l’interferenza nell’attività giudiziaria di un altro paese, di un interessamento molto profondo alla questione. Possiamo sostenere a questo punto come l’arresto di Khodorkovskij possa essere identificato come la difesa non ortodossa di uno stato contro un pericolo imminente e non solamente come inclinazione putiniana al populismo o ad una sorta di dittatura soft. La Russia odierna, anche per colpa dell’occidente, non è uno stato democratico in quanto carente di esperienza, valori ed istituzioni adatte. La giustizia quindi non è assicurata e la presenza di una sorta di sceriffo, ruolo simile a quello che d’altronde si è assunto il presidente russo, non può essere visto solamente in chiave negativa, in quanto momentanea unica soluzione alla spoliazione ed all’impoverimento di un paese ricco di tradizioni e passato. Con questo non intendo lodare senza riserve l’operato di Putin ed il suo agire ai limiti della legalità, ma intendo far presente come un’azione dello stato intesa nel senso classico europeo non avrebbe sortito effetto alcuno in quanto nel caso presente è lo stato stesso a non disporre del proprio potere sovrano. Questa opera di riconquista della sovranità da parte della federazione russa mi pare purtroppo necessaria e dovrà giungere a conclusione il prima possibile, permettendo poi una normalizzazione dei rapporti e delle dipendenze tra il settore pubblico e quello privato oggi troppo strettamente intrecciati; sarà allora che bisognerà vigilare per evitare derive dell’organizzazione statale. Ciò che va fatto ora è piuttosto il tentativo di una lenta trasposizione dei valori democratici europei all’interno del tessuto sociale russo, premessa indispensabile per un vero governo democratico ed a riguardo auspico quindi un maggior coinvolgimento dell’Unione Europea. Coinvolgimento tendente a legare all’occidente questo grande paese che ha subito incalcolabili danni in questi quindici anni di indiscriminato passaggio all’economia di mercato senza alcuna preparazione e precauzione così come noi abbiamo voluto. Il cambiamento ha creato tutte queste disparità e questi problemi che in qualche modo dobbiamo ora assumerci come nostri almeno in parte.


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