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Cinquemila donne curde e turche hanno manifestato a istanbul l’8 marzo.
Come mai una cosi’ grande manifestazione unitaria di donne a Istanbul?

di Silvana Barbieri

   
   

Due sono gli eventi accaduti tra fine febbraio a l’inizio di marzo che toccano le coscienze delle donne di Istanbul.
Domenica 29 febbraio centinaia di donne curde e turche manifestano davanti all’ospedale “Bakirkoy Develet Hastanesi” di Istanbul. Una donna ricoverata in questo ospedale è stata assassinata alle tre di notte. Gli assassini hanno agito indisturbati, sono entrati armati nell’ospedale e ne sono usciti senza alcun controllo. La ragazza assassinata si chiamava Guldunya Toren, aveva 22 anni e proveniva da Siirt (sud est della Turchia).

 


Questa la vicenda. Guldunya, stuprata dal marito di sua cugina, ha messo al mondo un bambino che ora ha tre mesi e che ha voluto chiamare, Unit, Speranza. La sua famiglia aveva chiesto allo stupratore di prenderla come seconda moglie (in Turchia la poligamia è proibita ma nelle zone più arretrate non è così infrequente), ma questi dopo essersi rifiutato era fuggito in Europa. Il clan famigliare di Guldunya (padre fratelli zii maschi) seguendo le usanze del profondo Curdistan per lavare l’onta dell’onore perduto decide di uccidere la ragazza. Guldunya, intuita la decisione della famiglia fugge a Istanbul dove nasce il suo bambino. Non sapendo come proteggersi Guldunya si rivolge al commissariato di polizia, racconta la sua storia, spiega quale rischio incombe su di lei e chiede protezione. Per tutta risposta i poliziotti avvertono la famiglia che Guldunya si trova al loro commissariato. Il padre della ragazza parte da Siirt, la raggiunge al commissariato e la convince a trasferirsi da un Imam (l’equivalente dei nostri Parroci) originario dallo stesso villaggio e trasferito ad Istanbul. Mentre si trova dall’Imam Guldunya partorisce il suo bambino. Passano tre mesi e, ad Istanbul, arrivano anche i fratelli decisi a portare a termine l’impegno preso nel clan famigliare. Si recano dall’Imam per convincere Guldunya a seguirli a Bursa, hanno trovato un marito e l’onore è salvo.
L’Iman però ha intuito le reali intenzioni dei fratelli e pretende di accompagnare Guldunya alla stazione ferroviaria. Nel frattempo la ragazza ha affidato il bambino ad una coppia senza figli rifiutandosi di rivelarne il nome ai fratelli. Raccolte le sue poche cose Guldunya si avvia con i fratelli, ma percorse poche centinaia di metri uno dei fratelli estrae il fucile e le spara. Mentre i fratelli fuggono, l’Imam e le persone che hanno assistito alla tragedia trasportano Guldunya all’ospedale, è ferita, ma non mortalmente.
A questo punto dovrebbero essere chiare le intenzione del clan famigliare: Guldunya deve morire. La ragione vorrebbe che la polizia mettesse la ragazza sotto protezione. Invece no. Né la polizia né i medici si preoccupano di proteggerla. La notte stessa del ricovero, alle 3 del mattino, due dei suoi fratelli entrano armati e indisturbati nel reparti di rianimazione dell’ospedale ”Bakirkoy”, sparano alla testa della ragazza e se ne escono indisturbati. Per Guldunya la morte celebrale é accertata ma il cuore batte ancora. I medici dell’ospedale chiedono alla famiglia se dovevano continuare a tenerla in vita. La risposta della famiglia é scontata, no. I poliziotti (sempre molto attivi nel rapire le donne attiviste di Dehap o della sinistra turca e che hanno la stessa mentalità dei fratelli di Guldunya) che non sono riusciti a fermare gli assassini e tanto meno a trovarli in compenso riescono a rintracciare la famiglia a cui era stato affidato il bambino. Il codice d’onore del clan famigliare esige la morte anche per il piccolo. Il bambino è, al momento, affidato ad un orfanotrofio, ma la famiglia di Guldunya ne ha fatto richiesta e il Ministro dei diritti delle donne (sic) ha già dichiarato che è suo diritto ottenerlo. Il presidente dell’orfanotrofio si sta battendo per impedire che questo avvenga a costo di subire una denuncia e finire in tribunale, dove però, purtroppo, le leggi non sono dalla sua parte.
Il secondo episodio che ha colpito il cuore delle donne di Istanbul riguarda ancora una curda impegnata politicamente in una associazione di donne operaie della sinistra turca. Si tratta di Derya Aksakal, 29 anni, sposata con una bambina e proviene da Dersim.
Il 3 marzo alle ore 17 si trovava a percorrere una strada nei dintorni dell’ospedale “Haydarpasa Numune Hastanesi”. Un pulmino grigio si ferma al suo fianco, ne scendono tre uomini mascherati e la costringono a salire. Mentre l’auto percorre le strade della periferia di Istanbul, i poliziotti, perché di polizia si tratta, mascherati chiedono a Derya di diventare collaboratrice e spia e riferire loro nomi e tutto quello che conosceva sia del suo gruppo politico che della sinistra turca. Al suo rifiuto i poliziotti le strappano i pantaloni e iniziano a torturala. Le spengono sigarette su tutto il corpo (più di 20 bruciature )e mentre due poliziotti la tengono immobilizzata il terzo la violenta introducendo la mano nella vagina. Alle 18 Derya è abbandonata alla periferia di Istanbul.
Scrivevo nel mio articolo “8 Marzo per Leyla Zana” che Leyla Zana oltre ad essere una militante pacifista si è sempre impegnata nel tentativo di modificare le condizioni di estrema arretratezza sociale della popolazione curda, divisa in tribù, attraversata da faide, retta da rapporti patriarcali, caratterizzata dalla più totale sottomissione della donna.
Proprio questa condizione di estrema arretratezza è stata, da sempre, utilizzate dallo stato turco per dividere i curdi e dominarli. L’idea che mi sono fatta durante questo processo è che lo sforzo dei quattro deputati sotto processo ad Ankara era ed è tutto teso a far fare un salto in avanti al Curdistan, spingendolo verso il superamento della sua arretratezza e sconfiggendo l’organizzazione feudale basata ancora oggi sulle tribù che popolano i villaggi controllati oltre che dalla gendarmeria da 70mila guardie di villaggio. Ma questo impegno civile dei deputati curdi non poteva garbare allo stato turco. Per questo i loro tentativi di mediazione e di pacificazione dei conflitti tribali sono stati tacciati, grazie anche alla costruzione di falsi testimoni, come propaganda della lotta armata.
Leyla Zana nel suo intervento alla quinta udienza del processo (luglio 2003) aveva detto: ” Nel nostro paese sono molte le persone che vivono sulla linea di confine della miseria e della fame. Ci sono più di dieci milioni di disoccupati, più di diecimila bambini di strada, metà delle donne subisce rapporti di oppressione. Non possiamo considerare queste condizioni come naturali o ineluttabili. Sono invece reversibili. Non possiamo continuare a sperare in soluzioni magiche. Cambiare dipende da noi. Un mese fa a Mardin è stata lapidata una donna curda. Per alcune settimane ha agonizzato in un ospedale. Le associazioni delle donne sono state accanto a lei fino a che è morta. Il suo funerale si è trasformato in una grande manifestazione di donne. La manifestazione non ha sepolto solo il corpo di Semse ma ha inteso seppellire anche la tradizione primitiva che l’ha uccisa.
“La morte di Semse, la brutale aggressione contro le donne che a Istanbul manifestavano contro gli stupri perpetrati dalle forze di sicurezza, così come i 4 poliziotti in borghese che hanno rapito, stuprato e torturato Gulbar Gulduz (attivista di DEHAP rapita a giugno nel pieno centro di Istanbul) e la manifestazione di protesta che ne è seguita da parte delle donne di Dehap e della sinistra turca contro la quale la polizia ha scatenato i cani, provocando il ricovero di più di 20 donne in ospedale e più di ottanta fermi, documentano più di ogni altro fatto quanta resistenza ci sia al cambiamento.
“Cambiare, dipende da voi giudici, dal modo in cui applicate le leggi e amministrate la giustizia, dipende dalla volontà politica di chi ci governa.
Se non avremo il coraggio del cambiamento resteremo un paese povero e infelice”.

Curde e turche finalmente insieme
Ecco come si spiega la manifestazione di 5 mila donne curde e turche contro gli stupri, contro gli omicidi d’onore, contro la violenza e la tortura nelle carceri.
Per non perdersi e ritrovarsi poi solo al prossimo stupro o delitto d’onore è stato costituito un coordinamento di donne appartenenti a 16 diverse organizzazioni. Un coordinamento che non si propone solo di rispondere alle provocazioni ma di essere, soprattutto, un momento di approfondimento e di studio. Ed è già in corso uno studio sui codici civili e penali dai quali risulta che le donne non sono sullo stesso piano degli uomini. Ad esempio per la legge turca la pena per un uomo che commette un omicidio d’onore è solo di due anni e mezzo perché è considerato un omicidio provocato. Sono anche stati affrontati i temi dell’isolamento carcerario, della violenza sessuale che le donne subiscono sia in carcere che nei commissariati di polizia. L’impegno del coordinamento è denunciare il sistema patriarcale che la donna subisce in Curdistan spiegando come questo modello sia funzionale al perdurare dell’oppressione del governo turco, sull’intera società e in particolare sulla minoranza curda.
Da sempre Leyla Zana e gli altri deputati curdi in carcere hanno cercato di costruire luoghi di dialogo tra curdi e turchi. Questo coordinamento di 16 organizzazioni di donne curde e turche che, a partire dalla consapevolezza della comune oppressione che la società turca riserve a loro, si propone di smascherare i tentativi velati, ma non troppo, del governo islamico di far arretrare, ancor più, la condizione di libertà della donna, mi sembra una importante base di partenza per il superamento delle diffidenze e dell’odio che i militari e i governi che si sono succeduti hanno sempre inculcato alla popolazione turca nei confronti di quella curda. Le donne di Istanbul, con questa manifestazione e con l’organizzazione che si sono date, ci stanno indicando l’unico percorso possibile per un superamento non solo delle loro divisioni interne, delle pesanti contraddizioni dello stato turco ma anche l’unica possibile soluzione dei contrasti armati oggi nel mondo.

15 marzo 2004 - Silvana Barbieri
 

   
   
   

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