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Diritti umani violati nel paradiso dei turisti:
il caso Tunisia

di Luciano Ardesi

 
 

Nell’anno che lo consacrerà di fatto presidente a vita, Ben Ali è alla ricerca del consenso internazionale e di attestati di democrazia. L’immagine “solare” della Tunisia, diffusa dai depliant turistici, acceca infatti anche le cancellerie dei paesi occidentali.
L’ultimo attestato è venuto dal presidente americano George Bush, al quale Ben Ali ha reso visita nella seconda metà di febbraio. C’è voluta la pressione delle organizzazioni di difesa dei diritti umani e della libertà di stampa, per costringere Bush e il suo segretario di Stato Colin Powell a fargli un timido invito a “proseguire” con le riforme e la libertà di stampa, senza per questo rimettere in causa i rapporti tra i due paesi. Non è del resto un mistero che Washington approvi la strategia contro il fondamentalismo islamico adottata da Ben Ali fin dalla sua presa del potere nel novembre 1987: lotta al terrorismo con tutti i mezzi, anche illegali, e liberalizzazione economica per ancorare il paese all’Occidente.
Il riconoscimento a questa politica era venuta già all’inizio del dicembre scorso dal presidente francese Chirac, in visita a Tunisi. “Il primo dei diritti umani è mangiare, essere curato, ricevere un’educazione, avere una casa”, aveva allora affermato il presidente francese, sottolineando i successi della Tunisia in questo campo, e dimenticando completamente la mancanza delle libertà fondamentali.
Venendo dal partner privilegiato della Tunisia, le parole di Chirac avevano scatenato la protesta non solo degli oppositori tunisini, ma anche delle organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani. La strategia contro il terrorismo, infatti, si è progressivamente estesa a tutte le forme di opposizione, e coinvolge ormai tutta la società.
L’incauta dichiarazione di Chirac ha avuto tuttavia un esito paradossale, dato che ha costretto l’Eliseo e i giornalisti al seguito del presidente a dirigere l’attenzione sul caso dell’avvocatessa Radhia Nasraoui, giunta ormai allo stremo proprio in quei giorni per uno sciopero della fame che durava da quasi due mesi. La protesta dell’avvocatessa era dovuta alle continue angherie del regime: pedinamenti, interruzione della linea telefonica, impedimento a viaggiare all’estero, visita di ladri alquanto sospetta nel suo ufficio, ecc.
Radhia Nasraoui, con i suoi numerosi scioperi della fame, è diventata il simbolo della resistenza dei militanti dei diritti umani, poiché nella sua attività professionale si è battuta contro le persecuzioni del regime nei loro confronti. Ma dietro questo simbolo vi sono, appunto, tante persone, comprese coloro che alla fine hanno dovuto cedere ai ricatti e alle pressioni di un regime poliziesco. Tuttavia, grazie anche alla determinazione di persone come Radhia, la resistenza è ben viva.

La scure del potere
Il potere si è accanito in modo particolare contro le associazioni dei diritti umani. La Lega tunisina per i diritti umani (Ltdh) da anni è nel mirino di Ben Ali. La repressione e i tentativi di addomesticamento si sono succeduti invano. Recentemente la Ltdh si è vista vietare un finanziamento che l’Ue le aveva accordato nel quadro di un programma sui diritti umani, e al suo segretario Mokhtar Trifi è stato rifiutato il permesso di lasciare il paese per una conferenza internazionale al pari di altri militanti dei diritti umani. Tra le organizzazioni costantemente prese di mira vi è il Consiglio nazionale delle libertà in Tunisia (Cnlt). I suoi membri sono sorvegliati e continuamente intimiditi. All’inizio di gennaio Sihem Bensédrine, una giornalista che è stata tra le fondatrici del Cnlt, è stata aggredita mentre rientrava nella sua abitazione, che è anche sede dell’associazione, non riconosciuta dal regime.
Di fatto anche le associazioni che non si occupano di diritti umani, sono tutte controllate. Diverse Organizzazioni non governative (Ong) o si sono piegate al regime, o ne sono una emanazione diretta. Hanno il compito di rafforzare nella società una rappresentazione positiva del paese e del suo presidente.
Il regime è infatti molto attento alla propria immagine, e controlla completamente l’informazione. La scure del potere si abbatte con particolare accanimento contro i giornalisti. Ma in epoca di internet, il controllo della stampa non basta. La prima misura ad essere intrapresa, e da tempo ormai, è la chiusura dei siti dell’opposizione. Coloro che si sono cimentati nell’uso delle nuove tecnologie per dare un po’ di voce alla critica, sono stati trattati come di consueto con arresti, processi sommari e angherie continue per scoraggiare chi ne volesse seguire l’esempio. Zouahir Yahyaoui è uno di questi. Nel giugno 2002 è stato arrestato in un internet café e processato per “diffusione di notizie false” dal suo sito TUNeZINE. Condannato a due anni di prigione, al termine di un processo fortemente criticato, ha inanellato una serie di scioperi della fame per protesta. Nel novembre scorso ha ottenuto finalmente la libertà condizionata, al termine di un ennesimo sciopero della fame.
Dall’interno del paese è impossibile collegarsi ai siti che dall’estero diffondono liberamente le notizie sulla Tunisia. Anche la posta elettronica è sotto controllo. Secondo l’associazione Reporter senza frontiere, dei 12 provider, di cui quattro privati, che danno l’accesso alla Rete, nessuno è indipendente dal potere.

Giornalisti nel mirino
La situazione della stampa non è migliore: praticamente ha diritto di cittadinanza solo quella di regime. Gli sporadici tentativi di dar vita a organi indipendenti, sono sistematicamente repressi. I giornali vengono chiusi, i giornalisti sono continuamente vessati. Dopo il caso del giornalista Taoufik Ben Brik diventato famoso, anche per la sua risonanza all’estero, per aver apertamente denunciato la situazione nel paese, il regime ha continuato con la solita prassi. Particolarmente severa e sistematica la repressione contro la stampa e i giornalisti del movimento fondamentalista. Ma ad essere colpita è anche la stampa di sinistra; il direttore della rivista El Badil, Hamma Hammami, è stato più volte incarcerato, anche per la sua appartenenza al partito comunista operaio tunisino (Pcot). Non meno colpiti sono i giornalisti che militano nelle organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Om Zied, giornalista e membro fondatore del Cnlt, è stato incolpato alla fine dell’anno scorso di “traffico di valuta”, un modo per evitare di dare all’iniziativa repressiva una coloritura politica. Voci di dissenso si sono levate perfino dall’interno dell’Associazione dei giornalisti tunisini (Ajt), benché vicina al potere.
La stampa straniera è sottoposta ad un accurato vaglio prima di essere ammessa nel paese. Il corrispondente per il Maghreb del quotidiano francese Le Monde, Jean-Pierre Tuquoi, non può più entrare nel paese da quando ha scritto il libro-denuncia Il nostro amico Ben Ali.
Per tutti questi motivi la scelta di Tunisi come sede, nel 2005, della seconda fase del Vertice mondiale dell’informazione, tenuto a Ginevra all’inizio di dicembre, è stata fortemente contestata. La Tunisia è considerata, dalla associazioni che si occupano di informazione, nel gruppo dei 20 paesi dove c’è meno libertà d’espressione. Del resto all’avv. Mohamed Nouri, presidente dell’Associazione internazionale di sostegno ai prigionieri politici (Aissp), è stato impedito di recarsi a Ginevra per assistere al vertice.

Un presidente inossidabile
L’offensiva del regime riguarda ogni forma di opposizione. Tre anni fa il giudice Mokhtar Yahiahoui è stato revocato dopo aver divulgato una lettera aperta al presidente, nella quale denunciava l’assenza di indipendenza della giustizia. La lista dei perseguitati è lunghissima, come di coloro che scelgono la forma estrema di resistenza, lo sciopero della fame, per cercare di attirare l’attenzione su un paese la cui immagine standard sembra essere quella del sole e della tranquillità. Ciò è vero per turisti, forse, non certo per i tunisini.
E il regime sta ormai ripiegandosi su se stesso. Andato al potere nel novembre 1987, dopo aver destituito con un certificato medico l’ormai senescente presidente Burghiba, Ben Ali aveva fatto sperare in una svolta. Tra le prime misure prese c’era l’abolizione della presidenza a vita, voluta proprio da Burghiba. La riforma della Costituzione prevedeva non più di tre mandati presidenziali di 5 anni ciascuno. Nel maggio 2002 Ben Ali ha fatto plebiscitare con un referendum una controriforma della Costituzione che gli consente di andare oltre i tre mandati, e che contemporaneamente rafforza l’impunità, a vita, del presidente.
Il senso di questa misura è evidente. Ben Ali ha accumulato tanto potere e tanta repressione che la sua partenza è inimmaginabile senza che un parlamento democraticamente eletto non gli chieda i conti di quanto fatto. Per questo è costretto a prevenire ogni tentativo di ritorno alla democrazia. La situazione è dunque per il momento bloccata.
In un clima del genere non stupisce che girino le voci più disparate, dallo stato di salute del presidente, agli intrighi di quella che è diventata una vera e propria corte. E come in tutte le storie di fine regno, i clan si posizionano e si affrontano.
Campione della lotta al terrorismo senza tentennamenti, e in epoca non sospetta, Ben Ali ha ricevuto dagli attentati dell’11 settembre 2001 una sorta di certificato di buona condotta a vita. Il cinismo di Chirac e di Bush, non è che l’ultimo episodio di questa catena di riconoscimenti, tra l’indifferenza dei governi e la scarsa attenzione dell’opinione pubblica mondiale. Nessuno dubita che le prossime elezioni dell’autunno saranno un altro plebiscito a favore di Ben Ali con le consuete percentuali del 99,9% dei voti. In fondo non faranno altro che confermare un’investitura già datagli dall’Occidente.

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