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Io sono nato nel 33
in questa plaga della Sicilia, terra dei Nebrodi in una zona di
confluenza tra la Sicilia occidentale e quella orientale.
Faccio questa divisione perché c’e’, o meglio, c’era, una profonda
differenza tra queste due parti della Sicilia. La parte occidentale era
la zona del latifondo dove i segni della storia erano molto più
incisivi, più profondi. La parte orientale era più contrassegnata dai
segni della natura, vuoi una natura serena, come questa dei Nebrodi,
vuoi una natura minacciosa, come può essere quella intorno all’Etna o
sullo stretto di Messina, funestato da terremoti
ricorrenti.
La mia è una geografia di tipo umano ma anche di tipo socio-letterario.
Nella parte orientale non c’era il latifondo ma la piccola proprietà
contadina, quindi i segni della storia sono stati meno accesi, meno
evidenti che nella Sicilia occidentale, dove da sempre c’e’ stato il
conflitto tra i contadini, i lavoratori, e la classe dominante, i
feudatari e quella classe intermedia, che si e’ interposta tra i
feudatari ed i contadini che erano i gabelloti, i campieri, da cui e’
nata la mafia.
Il nucleo della mafia rurale è nato proprio nel latifondo.
Ho pensato che in Sicilia quelli che hanno avuto più consapevolezza del
loro ruolo nella storia sono stati veramente quelli provenienti dalla
parte occidentale, nella zona del latifondo, perché hanno preso
coscienza della loro condizione di soggezione, di sfruttamento e ci sono
stati di tempo in tempo momenti di ribellione, di rivolta nei
confronti degli oppressori, che detenevano il potere. Questo avveniva
sia in superficie, con le rivolte contadine, sia in quella parte della
Sicilia dove per la prima volta si era affacciato il mondo industriale,
sia pure di un’industria particolare quali le miniere di zolfo.
Gli “zolfatari”, vivendo in condizioni estreme nel sottosuolo con il
rischio continuo della vita, capirono di doversi mettere insieme per
poter chiedere i propri diritti e riscattare la propria condizione di
sfruttati. Alla fine dell’Ottocento c’è stata una presa di coscienza ben
chiara, ben evidente, con il messaggio socialista arrivato fin qui
da noi in Sicilia e ci furono i primi moti che vanno sotto il nome di
“Fasci Siciliani”; ci sono state rivolte, ma tragica è stata la
repressione da parte dello Stato; i vari governi centrali, prima quelli
borbonici, poi subito dopo quelli del Regno d’Italia del 1860 poi la
venuta di Garibaldi e’ stato il momento di accensione di queste rivolte
di contadini, di braccianti. Ad esempio la rivolta di Bronte o di Alcara
Li Fusi. Su quest’ultima ho scritto il romanzo “Il sorriso
dell’ignoto marinaio” cercando di rivisitare questo momento storico
attraversato da quasi tutta la letteratura siciliana, da Verga a
Pirandello, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa, in
quanto punto cruciale.
Gli scrittori siciliani si sono chiesti il perché di tanta infelicità
sociale partendo proprio dall’unità d’Italia, momento che aveva acceso
tante speranze. Si pensava che l’unità avrebbe finalmente portato una
equità sociale, una sorta di armonia fra le varie classi della società.
Tutto questo non e’ avvenuto, perché a Cavour interessava soltanto
l’unità politica del paese, consegnandolo alla monarchia Sabauda e le
condizioni sociali rimasero quelle che erano, se non addirittura
peggiorarono, in quanto ci furono aggravamenti di tasse nei confronti
delle classi inferiori, l’obbligo
della leva, ci fu uno scontento generale.
Queste condizioni si protrassero per anni, questa infelicità sociale
continuò soprattutto nelle plaghe meridionali nell’Italia. E’ nata una
letteratura sia di tipo strettamente letterario che di tipo
storico-sociologico, che prese il nome di “Meridionalismo” (tra i
più famosi autori Gramsci e Salvemini), perché c’era una
discrepanza fra la condizione della popolazione del meridione e quella
del nord, dove era avvenuta -soprattutto in Lombardia- la prima
rivoluzione industriale.
La letteratura meridionale ha affrontato sempre questi temi, come la
condizione della popolazione, cercando di capire le ragioni, le cause di
questa perenne infelicità sociale.
Ma
l’indipendentismo non e’ stato una soluzione…
L’indipendentismo è stato un peggioramento delle condizioni, perché la
classe dominante degli agrari, quelli che ci ha raccontato De Roberto
nei “Viceré” e che poi Lampedusa ha ripetuto, coloro che quando
c’è stato un cambiamento politico hanno adottato il cosiddetto
“trasformismo”.
Erano dominatori prima e, con i cambiamenti politici, hanno continuato
ad essere classe dominante. La famosa frase “bisogna che tutto cambi
perché tutto resti come prima” è molto significativa di questo
trasformismo delle classi dominanti meridionali.
Salvo Uzeda, il protagonista de “i Viceré”, dopo l’Unità d’Italia si
presenta alle elezioni ed è il primo eletto nel suo collegio. Lui,
spiegandolo alla zia reazionaria, dice che loro si adattano perché
devono sempre dominare.
Le piaghe siciliane e meridionali rimangono sempre aperte.
Tutte le ansie, le speranze del meridione, sono state soffocate, come ad
esempio i Fasci siciliani del 1892/93, con la repressione; c’è stata
un’ondata di rivolte popolari dopo la Prima Guerra Mondiale con la crisi
economica, con l’avanzare del messaggio socialista, Giuseppe Antonio
Borgese ha scritto un grande libro su questo momento storico (il
1918/19), “La crisi dei partiti, le rivolte, gli scioperi”.
Gli agrari si sono sempre schierati dalla parte della reazione e della
repressione, il fascismo è nato proprio per arginare questa ansia di
riscatto delle classi popolari, Mussolini ha fatto da baluardo perché si
aveva paura delle classi popolari. Si pensava che potesse arrivare qui
quello che era avvenuto in Russia con la rivoluzione bolscevica.
Il fascismo ha occultato per ventanni tutte le problematiche popolari
con la repressione e la mancanza delle libertà.
Con la fine della guerra, nel ’43, sono riemerse quelle che erano le
aspettative, le ansie, la richiesta di diritti delle classi popolari e
sono incominciate le lotte per la Riforma Agraria, l’occupazione delle
terre.
In questo quadro, proprio perché le classi dominanti avevano paura che i
contadini potessero ottenere i loro diritti vennero fuori i partiti
reazionari, la Democrazia Cristiana di destra da una parte, ed il
movimento Indipendentista Siciliano, che era formato dagli
agrari, i fascisti che stavano occultati ma fomentavano la reazione e da
questo movimento capeggiato da Andrea Finocchiaro Aprile.
In Sicilia ci furono le prime elezioni regionali nel 1947 con un grande
successo del cosiddetto “blocco del popolo”, i partiti popolari di
sinistra, comunisti e socialisti insieme. Ci fu la coalizione delle
forze reazionarie, forse anche con l’aiuto della CIA e degli americani,
spaventati di questa “rivoluzione sociale” in potenza, il primo maggio
del 1947 ci fu la Strage di Portella della Ginestra.
Dal punto di vista letterario, nel secondo dopoguerra è uscita tutta una
letteratura chiamata “neorealismo”, che affrontava i temi del riscatto
delle classi popolari dei braccianti, ad esempio Antonio Rossello
in un suo romanzo “La luna si mangia i morti” sui temi
dell’occupazione delle terre, sul conflitto tra le classi popolari ed i
signori, oppure Angelo Petyx con un romanzo chiamato “La
miniera occupata” sul mondo dei minatori, delle zolfare, riprendendo
un
tema affrontato da Verga con la piece teatrale “Dal tuo al mio”.
La concezione metastorica di Verga si può spiegare soltanto attraverso
la concezione metafisica del fato, dell’impossibilità’ da parte degli
uomini di intervenire nella storia per cambiare il proprio destino,
questa predestinazione che l’uomo ha di essere segnato dalla nascita
nella sua condizione, questo avviene ad esempio ne
“I Malavoglia”, avviene in tutti i suoi racconti.
Questa concezione si può spiegare soltanto in un mondo dove domina la
paura della natura, il mondo di Verga era attorno all’Etna, egli pensava
che la storia non poteva influire sulla predestinazione dell’uomo.
Una concezione da fato greco, ma anche un po’ coranica.
La conservazione
del potere, dinamiche e mezzi.
Tutto parte dall'immobilità. La letteratura del secondo dopoguerra ha
rappresentato questo. Tomasi da Lampedusa, con la sua visione
positivistica del mondo, dice che le classi sociali hanno una dinamica
quasi meccanica. Nascono, si raffinano con la ricchezza ed il benessere,
poi tramontano. Un po' come le stelle, questa era la concezione del
principe di Salina. Ma questa è una concezione inaccettabile.
Sciascia da illuminista ha cercato di centrare la sua attenzione,
la sua tematica prima a quelli che sono i grandi temi illuministici, la
pena di morte, la tortura, con i primi romanzi: “Il consiglio
d'Egitto”, “Morte della requisitoria” e poi ha visto quello
che era il male profondo della società siciliana, la mafia.
La mafia del secondo dopoguerra, con l'avvento della democrazia che
stabilì un legame, un'alleanza strettissima con il potere politico.
Tutti i suoi romanzi d'indagine, tutti i polizieschi, dal “Il giorno
della civetta” in poi, trattano il tema del connubio, dell'alleanza
tra mafia e politica.
Per quanto mi riguarda, ho cercato di rappresentare questa Sicilia del
secondo dopoguerra con un primo romanzo, dal nome “La ferita
dell'aprile”, dove ho cercato di raccontare questo momento storico
che và dal 47 al 48 visto dagli occhi di un ragazzino quale io ero
allora, nella ricostituzione dei partiti, nella nuova impostura dei
nuovi poteri che si intrecciavano, la strage di Portella della Ginestra
ed il fallimento delle speranze che si erano accese.
Poi in una trilogia narrativa che parte dal “Sorriso di un ignoto
marinaio”, passa attraverso “Nottetempo, casa per casa” e
arriva a “Lo Spasimo di Palermo” ho cercato di rappresentare tre
momenti importanti della storia italiana, ma anche siciliana perché
parto sempre dalla Sicilia, da momenti storici e ambienti siciliani per
poter rappresentare la storia italiana.
“Nottetempo, casa per casa” appunto racconta il momento della
crisi del primo dopoguerra, della grande guerra, i conflitti sociali, la
nascita del fascismo.
“Lo Spasimo di Palermo” si svolge nella contemporaneità, negli
anni che vanno dal 68, con il risveglio politico dei giovani, il
terrorismo, il fallimento della generazione dei padri, nutrendo speranze
di cambiare questa società ed il fallimento della generazione dei figli,
i ragazzi del 68, ed in questo movimento di speranze disilluse si e'
innestato il terrorismo che ha distrutto tutto.
Quello che e' nobile in queste generazioni, al contrario di quelli che
stono stati latitanti e perciò conniventi e colpevoli, è che si sono
impegnati – oggi la parola impegno è diventata oscena –nella speranza,
nel sacrificio, nella lotta. C'era una nobiltà nel tentativo di
svecchiare questa società italiana che è disperante nelle sue vicende.
In Italia e' mancata una rivoluzione borghese, qui da noi, soprattutto
in Sicilia, non è mai arrivata. L'illuminismo è arrivato fino a Napoli,
c'è stato il tentativo della Repubblica Partenopea del 1799 ma anche lì
c'è stata la grande repressione borbonica, con Nelson che ha dato una
mano alla reazione.
I capi rivoluzionari, da Caracciolo a tutti gli altri grandi illuministi
napoletani, come la poetessa Eleonora Fonseca Pimentel o Mario Pagano,
sono stati uccisi.
Le condizioni attuali dell'Italia le conosciamo, dopo il disfacimento
del vecchio potere democristiano e socialista oggi ci troviamo in un
Italia berlusconiana, che quanto di più vergognoso, più insopportabile,
si poteva immaginare.
Quali maestri ha
avuto Vincenzo Consolo?
Mi misi da ragazzino a leggere, soprattutto gli autori meridionalisti,
gli autori siciliani e incominciai a capire questa realtà siciliana. Ero
molto curioso, da ragazzo. Quando frequentavo il liceo e nei primi anni
di università mi interessavano le personalità come Nino Pino Ballotta ma
anche Danilo Dolci che lì a Partinico faceva gli “scioperi a
rovescio”.
Dopo la pubblicazione del primo libro importante fu l'amicizia con
Leonardo Sciascia, che andavo a trovare a Caltanissetta, e poi anche
molte personalità politiche siciliane importanti, da Pompeo Colaianni,
Girolamo Li Causi, delle personalità straordinarie.
Ho abbastanza anni per aver vissuto un periodo molto alto della storia
siciliana attraverso queste personalità. Ho frequentato poi un urbanista
che si chiamava Carlo Doglio che era stato prima a Partinico con
Danilo Dolci e poi era diventato consigliere comunale del comune di
Bagheria, nel momento duro dello scontro per la speculazione delle Aree
edificabili. Lui lottò molto perché la mafia non s’impossessasse di
queste aree che erano tutte di proprietà della
nobiltà siciliana e i vari principi Alliata piuttosto che altri
vendevano questi terreni ai mafiosi e loro facevano speculazioni
edilizie.
Ricordo che una volta ho dormito in casa di Carlo Doglio, la mattina
siamo usciti ed io, disinvoltamente, varcai la soglia del portone, lui
mi prese per la camicia, mi tirò indietro, e mi disse che prima di
uscire bisogna guardarsi bene; rischiavano la vita, insomma.
Poi è venuta la signora Dacia Maraini ed a distanza di trent'anni
ha scritto il libro “Bagheria” scoprendo l'acqua calda, perché i
responsabili erano i suoi parenti, gli Alliata, di questo sacco, insieme
agli altri nobili, nutrendo la mafia di Bagheria.
Erano gli anni molto importanti d’impegno civile e politico, gli anni di
Buttitta, di Sciascia, di Danilo Dolci, oggi c'è una sorta di
sonno della ragione, come di resa nei confronti di questi poteri che ci
sovrastano e anche di pessimismo, di rassegnazione.
Lei si e' trovato
a Milano nel '68. Come ha vissuto un siciliano proveniente da un piccolo
paese questa cosa?
Io sono arrivato a Milano il 1 gennaio del 68.
Ho provato una sorta di spaesamento, pur avendo studiato a Milano, in
quanto avevo conosciuto una Milano ancora prima del miracolo economico,
negli anni 50, una Milano con ancora le ferite della guerra; avevo
assistito a tutto l'esodo dei braccianti meridionali che andavano a
lavorare all'estero perché abitavo in piazza Sant'Ambrogio dove c'era un
Centro orientamento immigrati, vedevo queste masse che venivano
sottoposte alle visite mediche e poi
inviati alle miniere di carbone del Belgio piuttosto che in Svizzera o
nelle fabbriche della Francia.
Quando sono ritornato a distanza di anni a Milano mi sono ritrovato
dinnanzi una città che non conoscevo, di fronte ad una realtà
industriale e nel pieno dello scontro sociale molto acceso fra i
lavoratori e gli imprenditori, i grandi scioperi, ecc.
Da questo sono rimasto spiazzato ed ho cercato di capire realtà che mi
circondava.
Nel 68 tutto era messo in discussione, tutte le certezze che avevamo
anche dal punto di vista culturale, c'erano le riviste che io leggevo,
sono stati anni di studio, di meditazione, d’osservazione di questa
realtà.
Se mi posso permettere, senza essere ridicolo, lo stesso spaesamento
l'ha avuto Verga quando è approdato a Milano, nel 1872. Egli si trovò in
una Milano in preda alla prima rivoluzione industriale ed in lui ci fu
una specie di regressione ideologica, perché rifiutò quel mondo nuovo,
quel mondo di scontri, di scioperi, quel mondo industriale; ritornò
indietro con la memoria, lì avvenne la sua conversione, del Verga che
noi conosciamo, che ci ha restituito un
grande autore dovuto a questo ripiegamento, a questo ritorno alla
memoria dell'infanzia, alla Sicilia arcaica ed alla sua concezione
metastorica.
Per me è stato assolutamente diverso, ho cercato di capire questa realtà
industriale di una metropoli del nord, quali erano le ragioni di questi
conflitti sociali, le ansie di rinnovamento. Le avevo vissute in Sicilia
con i contadini, lì mi trovavo di fronte a degli operai che avevano
maggiore consapevolezza di classe; le battaglie di Sciascia e di
Pasolini, di Franco Fortini di Paolo Volponi, di
Calvino, l'esperienza dell'Olivetti, avevo cercato di studiare tutto
questo.
Per poter scrivere il secondo romanzo stesi 13 anni senza pubblicare,
proprio per questo spaesamento che ho provato: “Il sorriso dell'ignoto
marinaio”, ambientato nel 1860, rifletteva il mondo che io stavo
vivendo, conflitti sociali, nuove istanze e nuove idee.
Dal punto di vista narrativo non mi sono mai allontanato dalla Sicilia,
ho scritto poco su Milano in modo diretto. La letteratura e' metafora,
se parlo della Sicilia parlo del nostro Paese intero, della condizione
degli uomini dell'occidente.
Come vede la
letteratura siciliana di oggi?
Vedo che c'e' stata dopo la mia generazione una frattura.
Quando sono nato come scrittore, c'era un senso d’appartenenza, una
consapevolezza di appartenere ad una tradizione importante letteraria,
un filone con una sua identità ben precisa, infatti si parla di
letteratura siciliana perché ha una sua precisa identità e una sua
concatenazione e consequenzialità.
Quando pubblici il mio primo libro lo mandai a Sciascia con una lettera
dove denunziavo il debito nei suoi confronti; Vittorini lo
seguivo a Milano attraverso i suoi insegnamenti ed i suoi interventi
giornalistici nella rivista Menabò insieme a Calvino.
Capivo di appartenere a questa tradizione letteraria siciliana.
Dopo la mia generazione c'è stata come una sorta di frattura da parte
dei nuovi autori, i quali non si riconoscono più in questa tradizione, i
loro modelli sono sempre altrove, non c'e' il senso di appartenenza a
questa storia, i temi che loro scelgono spesso sono contrassegnati
dall'ansia del successo facile, della ribalta, della notorietà, quindi
l'adozione del romanzo poliziesco, il più facile e di maniera, il tipo
televisivo, c'è stato come uno iato, una frattura, i loro riferimenti
sono ormai non più alla tradizione letteraria ma al cinema, ai fumetti,
alla canzonetta.
Vivere in Sicilia,
adesso.
Con le ultime elezioni nazionali, la Sicilia portò questa valanga di
consensi alla destra.
61 a zero, ricordo che mi hanno interpellato su questa vicenda ed ho
risposto “i siciliani siamo servili, cerchiamo di accontentare l'ultimo
padrone che arriva o per cinismo o per ingenuità: gli ingenui ci cascano
nell'illusione, poi ci sono i cinici ed i trasformisti di sempre, come
abbiamo visto nella storia, quelli che tentano sempre di salire sul
carro del vincitore per avere dei vantaggi. Tutto rimane immobile”.
Oggi siamo in una condizione veramente penosa, con il signor Totò
vasa-vasa, con i signori Miccichè e con mezzo parlamento siciliano
d’inquisiti, taluni condannati conniventi con la mafia, quello che sarà
poi esiziale sarà l'attuazione di questi progetti megalomani di opere
pubbliche. Un disastro, dal ponte sullo stretto di Messina a tutto il
resto. Adesso devono pagare le cambiali, le promesse fatte ai poteri
oscuri, per non dire mafiosi. I cantieri devono aprire.
La Sicilia e' quella che offre le truppe d'assalto al potere d’oggi.
Salvemini li chiamava i coco' o i paglietta, gli
avvocaticchi dell'estrema provincia siciliana che approdano al governo e
che sono le macchinette parlanti di Berlusconi, i vari Schifani, Nania,
ecc.
Noi abbiamo sperimentato sempre tutto ciò. Ho abbastanza anni, ho visto
già dal secondo dopoguerra, si mettono sempre in moto queste forze.
Quando c'è un'ansia di rinnovamento, di cambiare questa società allora
arrivano queste forze oscure che fanno alleanze con i politici e
stabiliscono dei “patti diabolici”.
Questa Sicilia, questo meridione, rimane sempre uguale a se stesso.
Adesso viviamo nella menzogna, nell'impostura, perché adesso si e'
abbattuto su tutto questo il potere mediatico, che e' un potere di
menzogna e d’impostura. Una forza che nessuna dittatura ha mai
conosciuto, una forza subdola di persuasione delle masse, di controllo
delle masse attraverso la menzogna, la menzogna mediatica.
Nient’altro è che il messaggio pubblicitario applicato alla politica.
Pasolini giustamente diceva che il nuovo fascismo è la pubblicità.
Adesso viviamo in questo nuovo fascismo.
Il potere berlusconiano nasce dalla pubblicità, volgarità, il consumo
delle merci. I metodi della menzogna pubblicitaria le hanno applicate
alla politica. Viviamo in un paese di gente “telestupefatta” che vive in
una sorta di sogno mediatico.
La vita reale ormai non si distingue più da quella fittizia televisiva.
La vita perde valore, come ogni cosa.
C'è anche una politica nell'emissione della notizia, perché i
telegiornali non parlano di temi importanti ma di cronaca nera? Perché
così facendo si può avere più polizia, più repressione, loro non si
sentono responsabili, non pensano che la responsabilità sia loro quando
una società e' malata.
Perché viviamo in una società malata, alienata. Loro ti danno solo
l'effetto. Il delitto familiare, il massacro, l'arma a portata di mano
per cui si uccide per pochi euro.
Ovviamente loro non ti dicono la loro responsabilità, di questa
mancanza, di questa svalorizzazione dei valori veri, il valore della
vita umana che è un valore incommensurabile, e di tutti gli altri
valori, l'onestà, l'etica, il rispetto delle regole. Tutti questi valori
sono saltati, propinandoti quotidianamente l'impostura.
Questa società sembra sempre uguale a se stessa, si e' tentato tante
volte di cambiarla culturalmente, socialmente, politicamente ed ogni
volta è stato uno smacco, perché le forze che ci sovrastano sono più
potenti ed ogni volta sembra che sia un fallimento.
Non sono un pessimista, sono uno storicista e penso che la storia abbia
i suoi momenti alti, momenti di accensione di grande speranza. Parlavo
infatti di nobiltà d'intenti.
Però ci sono momenti d’arresto e di regressione, ma la forza della
storia non si può fermare.
Credo che nella generazione come la tua (sono del ’79, ndr), o nella
successiva, verrà un desiderio di rinnovare, di cambiare la condizione
degli altri, la propria condizione e di rendere questo mondo più civile
e più umano.
Fonte:
Erroneo
- Lunedì, 22 Marzo 2004 |
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