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Ol’ga Fedorovna Berggól’c. Ciò che avevo letto di lei nel bel libro di
Salomon Vólkov ‘San Pietroburgo’ (Ed. Mondadori) mi aveva profondamente
turbata, quasi ferita, come se la cosa mi riguardasse. Racconta Volkov:
“Andai a casa di Berggól’c negli anni sessanta per intervistarla. Venne
alla porta, non aveva ancora sessant’ anni. Avevo già un’idea delle sue
condizioni, ma rimasi allibito nel vedere una donna con una vestaglia
gettata sopra il corpo nudo, i capelli sfibrati appiccicosi, lo sguardo
perso nel vuoto. Riusciva a malapena a stare in piedi e mi invitò con la
voce rauca nella sua stanza…Questa immagine dostoevskiana era lontana
dalla maestà di Achmatova, ne faceva una ‘madonna ubriaca di Leningrado’…”
Avevo provato a immaginare l’avvilimento e il degrado di quella
meravigliosa poetessa che aveva cantato l’assedio di Leningrado fino a
divenirne il simbolo. Che dalla radio, nel 1942, incitava i suoi
concittadini alla resistenza e al coraggio, non in nome di una
ideologia, nella quale non credeva più, ma per l’amore che tutti
portavano a questa città eroica e straziata. I soldati, al fronte,
ripetevano a memoria i suoi versi:
“Ti amo di un nuovo amore
amaro, che tutto perdona, vivo
Madre Patria, con la corona di spine
e uno scuro arcobaleno sul capo…”
E ancora:
“Nel fango, nel buio, affamati, contriti,
la morte c’insegue com’ombra dappresso’
eppure eravamo davvero felici,
così tumultuosa era la libertà,
da farci invidiare dai nostri nipoti.”
Sapevo che in gioventù era stata una bolscevica entusiasta, ma attorno
al 1938, negli anni più bui delle purghe staliniane, suo marito, Boris
Kornilov, che aveva lavorato con Šostakòvič alla colonna musicale di
alcuni film, era stato fucilato. Lei stessa, incinta, era stata
arrestata dalla polizia politica, selvaggiamente presa a calci e poi
rilasciata. Perse il figlio e la possibilità di averne altri.
Il dolore e l’amarezza non l’avevano più abbandonata, e da essi cercava
scampo in un alcolismo divenuto cronico. Annota nel suo diario segreto,
che negli anni cupi dello stalinismo conservava sepolto in un cortile
della prospettiva Nevskij:
“..No, non sono più tornata dalla prigione. Se resto a casa da sola,
parlo ad alta voce con l’inquirente, con la commissione, con la gente
della prigione, del mio caso, vergognoso e costruito a tavolino.”
Eppure, quando nel 1957, alcuni giovani poeti d’avanguardia di
Leningrado, chiamati ‘poeti minatori’ perché per lo più studenti
dell’Istituto minerario, vollero invitare un’anziana poetessa, non si
rivolsero ad Achmatova, nonostante la venerazione di cui era oggetto.
L’avvertivano troppo distante e aristocratica, e vollero incontrare
invece Ol’ga Berggol’c. La sentivano più vicina di qualsiasi altro e
disponibile a portare loro, come scrissero, un po’ “di verità sul caos
disperato di un mondo affamato e disorganizzato”.
Eppure la storia russa è piena di figure femminili eroiche, disperate,
tragiche. Dostoevskij lo sapeva bene. E a Ol’ga non pensavo più. Finchè
non l’ho incontrata passeggiando, l’estate scorsa, per San Pietroburgo.
Nel cuore della città si trova una via dedicata ad Anton Rubinštejn,
fondatore nel 1861, con l’aiuto della principessa Elèna Pavlovna, del
famoso Conservatorio di Pietroburgo, da cui è uscito poi il fior fiore
della musica russa. Si tratta di una via silenziosa, dall’atmosfera un
po’ parigina, per i caffè e i ristoranti che vi vanno spuntando, quasi
appartata sebbene centralissima. Va infatti a sbucare sulla prospettiva
Nevsky, all’altezza del ponte Anichkov, quello coi famosi quattro
cavalli impennati, sul canale della Fontanka. Nel cuore nobile della
città. Ebbene, in questa via, su una casa d’angolo, una targa ricordo,
segnala la presenza, per alcuni anni, della poetessa Ol’ga Fedorovna
Berggòl’c. La Russia ama i suoi poeti, anche se non sempre ne ha avuto
cura, e le città abbondano di marmi con su scritto “Qui visse…”
Una facciata grigia con le finestre incrostate di polvere e quell’aria
di squallore senza speranza che tanto spesso si respira ancora nei
caseggiati russi. E tentavo di immaginare questa donna costretta a
trascinare la sua amarezza in una komunalna, le case in coabitazione che
solo adesso iniziano a sparire. Una donna umiliata, ma capace ancora di
assumere posizioni di grande coraggio come nel 1949, quando Zdanov, in
una riunione all’Unione scrittori sferrò un terribile attacco nei
confronti di Achmatova che definì ‘…puttana e monaca, la cui lussuria si
mescola alla preghiera’.
Nessuno, in quell’occasione ebbe il coraggio di ribattere e come
racconta Izrail Metter ‘seicento intellettuali…passati attraverso gli
orrori della guerra, ora sedevano imperturbabili al loro posto in quella
sala e ascoltavano con deferenza…quelle assurdità orribilmente rozze.’
Ebbene, Ol’ga Berggol’c fu l’unica ad avere il coraggio di alzarsi e di
protestare con tono sdegnato, scontando con l’emarginazione, la
denigrazione, l’allontanamento, la sua mancata acquiescenza.
Morì nel 1975, a sessantacinque anni d’età, dimenticata e travolta da
quell’unica amica che le era rimasta devota, la vodka. A lei
perfettamente si attagliano i versi che Achmatova aveva scritto per sé:
Questa donna è malata
questa donna è sola,
morto il marito, in carcere il figlio,
pregate per me.
San Pietroburgo, estate 2003 |
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