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Donne e
violenza continua ad essere un binomio tragicamente sensibile,
perché, anche nel tempo in cui vanno di moda le donne-soldato,
in cui cioè anche le donne sono entrate nell’istituzione che con
legittimità esercita la violenza fino all’uccisione, lo
squilibrio continua ad essere consistente: se guardato con la
lente di genere, questo fenomeno continua ad essere, anche nelle
società occidentali, in larga misura quello di uomini che usano
violenza e di donne che la subiscono.
Credo che tutti abbiano in mente le quasi settimanali notizie di
uccisioni di donne da parte di conviventi o ex mariti, incapaci
di tollerare che la loro donna scelga un altro o la solitudine
al posto loro. Pochi però rammentano che per ciascuno di questi
casi tragici, ce ne sono decine che non si concludono con un
omicidio, ma “semplicemente” con un ricovero ospedaliero o con
un silenzio casalingo che dura a volte una vita intera.
Stiamo concludendo, io e le colleghe antropologhe della
Cooperativa “Daera”, una ricerca proprio su queste tematiche a
Siracusa nell’ambito del programma “Urban Italia”. In
particolare, ho seguito la parte consistente nella
somministrazione a 1.300 cittadini/e di questionari telefonici
di opinione sulla violenza contro le donne. Pensavamo che pochi
avrebbero accettato di parlare di queste cose; invece, non è
stato così. Pensavamo che nessuna donna avrebbe raccontato una
storia di violenza al telefono; al contrario, su mille donne fra
i 18 e i 59 anni, circa una quarantina ne hanno parlato
apertamente; ma soprattutto moltissime hanno dichiarato di avere
avuto amiche, parenti o vicine di casa con questo problema e di
essere state quindi in qualche modo coinvolte.
Certo ormai quasi nessuno sembra accettare che un marito usi
violenza per ottenere un rapporto sessuale dalla moglie, ma
tanti dicono che uno schiaffo non crea alcun problema,
soprattutto se è reciproco. È infatti abbastanza diffusa l’idea
che la violenza non è da considerarsi tale, quando è un
linguaggio che entrambi i partner usano e quando si reagisce. La
variabile di ceto sociale a questo proposito diventa importante.
Molte donne di ceto popolare parlano della violenza domestica e
della loro reattività: se una donna non reagisce, può solo
essere una stupida. Al contrario, nei ceti medio-alti arrivare a
confessare a se stesse che si subisce violenza, è frutto di un
percorso molto faticoso; e prevalgono considerazioni sul fatto
che la donna è debole, indifesa, impossibilitata a reagire,
paralizzata dalla violenza dell’uomo. Sia per le une che per le
altre, però, la donna è fondamentalmente sola: non esistono
istituzioni in grado di aiutarla.
Certo è la costruzione di genere, cioè ciò che per una società
bisogna fare per essere una “donna normale”, che è sensibilmente
diversa a seconda della classe sociale: un modello (quello di
ceto basso) include la capacità della donna di fare conto sulla
sua forza che, anche nella subordinazione, le permette sia la
difesa fisica, sia la difesa di uno spazio suo di indipendenza,
di valore; l’altro modello vede la donna come appendice
subordinata del marito, senza altre difese, senza risorse, una
donna virtuosa in quanto educata, contenuta, estranea alla
violenza se non per il ruolo di vittima silenziosa.
L’Afghanistan non è lontano
Mi fa
sempre impressione quando oggi, parlando di violenza alle donne,
c’è bisogno di andare subito alle afgane con il burqa o alle
bengalesi sfigurate dall’acido, ignorando e rimuovendo la
violenza fatta di quotidiane umiliazioni e di costanti botte che
tante donne occidentali continuano a vivere in segreto: non
dovrebbe questo interrogarci a maggior ragione, perché siamo in
una società dove le donne hanno la maggiore istruzione, dove
votano, dove esiste il divorzio?
È vero che esiste anche una violenza che alcune donne esercitano
contro gli uomini. Ma questo resta un problema segnato da uno
squilibrio di genere: cioè la violenza su un corpo diverso
(corpo di donna come corpo che esprime la massima differenza
cioè quella sessuale, ma anche corpo di omosessuale che esprime
desiderio differente dall’essenza virile del corpo maschile) è
esercitata da esseri umani che appartengono a un genere preciso
e che attraverso di essa si affermano in quanto categoria, prima
ancora che in quanto individui, forti di una legittimità che
deriva da come l’essere maschio è costruito culturalmente, non
dalla maggiore forza fisica. Tanto che lo stupro, massima
espressione di questa violenza, è un atto perpetrato sempre da
un maschio verso una femmina o un altro maschio.
Mi sembra perciò molto sensata la linea di riflessione che
alcuni gruppi di uomini anche in Italia stanno sviluppando sul
fatto che la violenza contro le donne è un problema maschile e
che sarebbe bene gli uomini iniziassero a dire qualcosa in
proposito, a farci i conti, a costruire percorsi di
trasformazione culturale per imparare ad essere uomini in modo
diverso, a guardare le proprie paure e ad ammettere la diversità
dentro di sé e fuori di sé, abbandonando la tentazione di
negarla esercitando violenza sugli altri.
C’è chi tende a interpretare la violenza come fenomeno
esclusivamente psicologico: il frutto di una catena di violenze
o di debolezza e frustrazione. Anche se dal questionario emerge
che, per molti, l’uomo arriva alla violenza fisica perché è
dentro a una relazione, nella quale subisce dalla donna altri
tipi di violenze; pochi, sia fra gli uomini che fra le donne,
sono disponibili a vedere anche chi usa violenza come un essere
umano che ha bisogno di aiuto: l’idea del mostro, dello
squilibrato, del violento di natura è più rassicurante. In
questa, come in tante altre risposte, si tende ad allontanare da
sé la violenza, a farne un fenomeno che sappiamo esiste, ma dal
quale posso sempre tirarmi fuori (“sono fortunata: non mi è mai
capitato!”) se non provoco, se non frequento brutte compagnie,
se scelgo l’uomo giusto.
Vorrei chiudere raccontando un’intervista emblematica della
violenza esterna (quella che ci fa rappresentare lo spazio
pubblico come un deserto) e interna, nascosta con forza, ma
assolutamente evidente nella sua invisibilità: la signora alla
proposta di fare il questionario risponde che, nella sua
famiglia, questi problemi non ci sono, poi accetta di proseguire
e alle domande sulla qualità della vita nel suo quartiere e su
quanto vi si senta sicura, risponde che da loro tutti stanno
chiusi nelle loro villette e di questi problemi non ce ne sono.
La sua idea è che la donna abbia rovinato il mondo e che
dovrebbe stare più composta. Quando chiedo se personalmente
abbia mai subito qualche forma di maltrattamento, mi dice che
preferisce non rispondere e quando in conclusione le chiedo, per
la definizione del campione statistico, il suo stato civile, mi
risponde: “Qui è tutto a posto!”.
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