donne del mondo donne del mondo donne del mondo donne del mondo

 
 
 
 
 
 

L'Italia delle donne che subiscono violenza

di Sara Ongaro

 
 

Donne e violenza continua ad essere un binomio tragicamente sensibile, perché, anche nel tempo in cui vanno di moda le donne-soldato, in cui cioè anche le donne sono entrate nell’istituzione che con legittimità esercita la violenza fino all’uccisione, lo squilibrio continua ad essere consistente: se guardato con la lente di genere, questo fenomeno continua ad essere, anche nelle società occidentali, in larga misura quello di uomini che usano violenza e di donne che la subiscono.
Credo che tutti abbiano in mente le quasi settimanali notizie di uccisioni di donne da parte di conviventi o ex mariti, incapaci di tollerare che la loro donna scelga un altro o la solitudine al posto loro. Pochi però rammentano che per ciascuno di questi casi tragici, ce ne sono decine che non si concludono con un omicidio, ma “semplicemente” con un ricovero ospedaliero o con un silenzio casalingo che dura a volte una vita intera.
Stiamo concludendo, io e le colleghe antropologhe della Cooperativa “Daera”, una ricerca proprio su queste tematiche a Siracusa nell’ambito del programma “Urban Italia”. In particolare, ho seguito la parte consistente nella somministrazione a 1.300 cittadini/e di questionari telefonici di opinione sulla violenza contro le donne. Pensavamo che pochi avrebbero accettato di parlare di queste cose; invece, non è stato così. Pensavamo che nessuna donna avrebbe raccontato una storia di violenza al telefono; al contrario, su mille donne fra i 18 e i 59 anni, circa una quarantina ne hanno parlato apertamente; ma soprattutto moltissime hanno dichiarato di avere avuto amiche, parenti o vicine di casa con questo problema e di essere state quindi in qualche modo coinvolte.
Certo ormai quasi nessuno sembra accettare che un marito usi violenza per ottenere un rapporto sessuale dalla moglie, ma tanti dicono che uno schiaffo non crea alcun problema, soprattutto se è reciproco. È infatti abbastanza diffusa l’idea che la violenza non è da considerarsi tale, quando è un linguaggio che entrambi i partner usano e quando si reagisce. La variabile di ceto sociale a questo proposito diventa importante. Molte donne di ceto popolare parlano della violenza domestica e della loro reattività: se una donna non reagisce, può solo essere una stupida. Al contrario, nei ceti medio-alti arrivare a confessare a se stesse che si subisce violenza, è frutto di un percorso molto faticoso; e prevalgono considerazioni sul fatto che la donna è debole, indifesa, impossibilitata a reagire, paralizzata dalla violenza dell’uomo. Sia per le une che per le altre, però, la donna è fondamentalmente sola: non esistono istituzioni in grado di aiutarla.
Certo è la costruzione di genere, cioè ciò che per una società bisogna fare per essere una “donna normale”, che è sensibilmente diversa a seconda della classe sociale: un modello (quello di ceto basso) include la capacità della donna di fare conto sulla sua forza che, anche nella subordinazione, le permette sia la difesa fisica, sia la difesa di uno spazio suo di indipendenza, di valore; l’altro modello vede la donna come appendice subordinata del marito, senza altre difese, senza risorse, una donna virtuosa in quanto educata, contenuta, estranea alla violenza se non per il ruolo di vittima silenziosa.

L’Afghanistan non è lontano

 Mi fa sempre impressione quando oggi, parlando di violenza alle donne, c’è bisogno di andare subito alle afgane con il burqa o alle bengalesi sfigurate dall’acido, ignorando e rimuovendo la violenza fatta di quotidiane umiliazioni e di costanti botte che tante donne occidentali continuano a vivere in segreto: non dovrebbe questo interrogarci a maggior ragione, perché siamo in una società dove le donne hanno la maggiore istruzione, dove votano, dove esiste il divorzio?
È vero che esiste anche una violenza che alcune donne esercitano contro gli uomini. Ma questo resta un problema segnato da uno squilibrio di genere: cioè la violenza su un corpo diverso (corpo di donna come corpo che esprime la massima differenza cioè quella sessuale, ma anche corpo di omosessuale che esprime desiderio differente dall’essenza virile del corpo maschile) è esercitata da esseri umani che appartengono a un genere preciso e che attraverso di essa si affermano in quanto categoria, prima ancora che in quanto individui, forti di una legittimità che deriva da come l’essere maschio è costruito culturalmente, non dalla maggiore forza fisica. Tanto che lo stupro, massima espressione di questa violenza, è un atto perpetrato sempre da un maschio verso una femmina o un altro maschio.
Mi sembra perciò molto sensata la linea di riflessione che alcuni gruppi di uomini anche in Italia stanno sviluppando sul fatto che la violenza contro le donne è un problema maschile e che sarebbe bene gli uomini iniziassero a dire qualcosa in proposito, a farci i conti, a costruire percorsi di trasformazione culturale per imparare ad essere uomini in modo diverso, a guardare le proprie paure e ad ammettere la diversità dentro di sé e fuori di sé, abbandonando la tentazione di negarla esercitando violenza sugli altri.
C’è chi tende a interpretare la violenza come fenomeno esclusivamente psicologico: il frutto di una catena di violenze o di debolezza e frustrazione. Anche se dal questionario emerge che, per molti, l’uomo arriva alla violenza fisica perché è dentro a una relazione, nella quale subisce dalla donna altri tipi di violenze; pochi, sia fra gli uomini che fra le donne, sono disponibili a vedere anche chi usa violenza come un essere umano che ha bisogno di aiuto: l’idea del mostro, dello squilibrato, del violento di natura è più rassicurante. In questa, come in tante altre risposte, si tende ad allontanare da sé la violenza, a farne un fenomeno che sappiamo esiste, ma dal quale posso sempre tirarmi fuori (“sono fortunata: non mi è mai capitato!”) se non provoco, se non frequento brutte compagnie, se scelgo l’uomo giusto.
Vorrei chiudere raccontando un’intervista emblematica della violenza esterna (quella che ci fa rappresentare lo spazio pubblico come un deserto) e interna, nascosta con forza, ma assolutamente evidente nella sua invisibilità: la signora alla proposta di fare il questionario risponde che, nella sua famiglia, questi problemi non ci sono, poi accetta di proseguire e alle domande sulla qualità della vita nel suo quartiere e su quanto vi si senta sicura, risponde che da loro tutti stanno chiusi nelle loro villette e di questi problemi non ce ne sono. La sua idea è che la donna abbia rovinato il mondo e che dovrebbe stare più composta. Quando chiedo se personalmente abbia mai subito qualche forma di maltrattamento, mi dice che preferisce non rispondere e quando in conclusione le chiedo, per la definizione del campione statistico, il suo stato civile, mi risponde: “Qui è tutto a posto!”.

 

Missione Oggi

 
 
 
 
 

HOME

Società

Politica

Arti visive

Lettura

Scrittura

Punto rosa

Legalità

Paesi in guerra

Mondo