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La polvere che si è
alzata a causa dei “venti” di guerra e di terrore, che spirano ormai da
tempo nel mondo, a ritmi sempre incisivi, ha fatto da coperta ad alcune
questioni che avrebbero avuto bisogno di maggior trasparenza, pubblicità
e discussione.
In Italia ad esempio è passato per l’appunto, un po’ troppo in sordina,
il nuovo codice di regolamento dei Beni Culturali, che entrerà in vigore
dal primo maggio 2004.
Molti i punti particolarmente delicati della riforma che di certo come
detto, avrebbero avuto bisogno di una più ampia discussione, non solo
tra gli esperti ma anche fra i cittadini al fine di poter riflettere in
maniera sufficientemente chiara su quel che si vuole intendere col
termine di “bene culturale”.
L’aspetto più ambiguo e pericoloso, di questa riforma, consiste nella
decisione di voler alienare e dunque in buona sostanza “vendere per fare
cassa” entro tempi davvero troppo stretti, quei beni appartenenti al
patrimonio pubblico dello Stato, ritenuti dalle soprintendenze, di
scarso pregio artistico.
Per correttezza di informazione la riforma prende spunto da quella già
presentata nella precedente legislatura (anche su questa ci sarebbe da
discutere!) ed in cui sostanzialmente venivano individuate tre categorie
di beni:
1) quelli assolutamente inalienabili (patrimonio archeologico,
monumenti);
2) quelli alienabili ma il cui passaggio di proprietà era condizionato
dalla realizzazione da parte del privato acquirente di un piano di
restauro del bene e di godimento pubblico;
3) quelli ritenuti non di pregio e quindi liberamente alienabili.
Come ha sottolineato la Presidente dell’Associazione Nazionale dei
Tecnici per la Tutela dei Beni Culturali e Ambientali, Irene
Berlingò,”la normativa contenuta nel collegato alla Finanziaria appena
approvato e il nuovo Codice, azzerano completamente la grande tradizione
di tutela esistente nella Penisola fin da prima degli Stati preunitari,
culminata nelle leggi Bottai del 1939, un modello insuperabile di
chiarezza e completezza.
Con le nuove procedure si ammette la vendibilità di ogni bene immobile
di proprietà di enti pubblici, eccezion fatta per quelli per i quali le
Soprintendenze territoriali riescano a dimostrarne, in 30 giorni (120
giorni previsti per il procedimento globale con il meccanismo del
silenzio-assenso), il valore e l'interesse culturale ed artistico.”
Quest’ultimo aspetto dovrebbe davvero preoccuparci: riusciranno entro
tale termine, le Sovrintendenze a “stabilire” il patrimonio da tutelare?
Siamo in un paese (quello dei condoni) riconosciamolo,che non si è
sempre distinto per efficienza anzi, a volte, abbiamo anche assistito ad
episodi di lassismo e corruzione che ha coinvolto le stesse istituzioni
preposte a tutelare il patrimonio pubblico dello Stato.
In questo anello debole della riforma vi è la possibilità di innescare
meccanismi finalizzati a facili profitti e ad interessi non solo e non
sempre a vantaggio dello Stato.
Si smonta così il principio della tutela tout court di cui parla
l’articolo 9 della costituzione che questa riforma vuole modificare, che
così recita:”la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e tutela
il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”;
Si lascia alla discrezione degli uomini delle diverse soprintendenze,
che hanno competenze su territori vastissimi, la facoltà di decidere
quale Opera o Monumento tutelare, lasciando allo Stato (attraverso la
società costituita per l’occasione,“Patrimonio S.p.A.”) il compito di
vendere tutto ciò che per chissà quali motivi potrà essere considerato
indegno della denominazione di “Bene Culturale”.
Come ha scritto un po’ romanticamente, su “La Repubblica” del 11 marzo
2004, Francesco Erbani; “…un drappello di poco meno di duemila fra
architetti, storici dell’arte e archeologi che lavorano nelle
soprintendenze, oberati da una media di nove pratiche al giorno
ciascuno, costretti a compiere sopralluoghi con la propria macchina in
strade di campagna…
Su di loro, armati di buonissima cultura e di una dedizione al limite
del volontarismo, si abbatte come un maglio, un articolo della legge
Finanziaria, ora accolto nel codice dei Beni Culturali: se un ente
pubblico-lo Stato ma anche una Regione o una ASL vuole vendere un
palazzo di sua proprietà, l’architetto o lo storico dell’arte della
soprintendenza ha 120 giorni di tempo per stabilire se quel palazzo ha
un rilievo storico-culturale o non ce l’ha.”
A commento al Nuovo Codice, Lo Storico dell'arte, Gerardo Pecci,
Responsabile del Settore Arti Visive del Centro Culturale Studi Storici
di Eboli,già cultore di Storia dell'Arte Moderna presso l'Università
degli Studi di Salerno, chiamato ad esprimere un parere sulla bozza
ministeriale del Nuovo Codice dei Beni Culturalino dichiara: Emerge,
purtroppo prepotentemente, solo il volto alquanto mesto
e squallido di una concezione economicista e privatistica dei beni
culturali, non più considerati nella loro specifica natura di prodotti
storici, culturali, ma nel loro valore meramente venale…
Ora, con questo genialissimo testo, si va a mettere in crisi un
patrimonio di studi e di esperienze giuridiche legate ai beni culturali
che si credeva fosse ormai graniticamente acquisito e consolidato,
almeno nei principi fondamentali.
Ma la logica del profitto evidentemente non la pensa allo stesso modo e
nell'ideologia politica neoliberista, che è lo spirito-guida del testo
della bozza, perché proprio di ideologia si tratta e nessuno lo potrà
negare, i beni culturali sono solo un mero prodotto economico da
spremere e far fruttare a vantaggio dei privati che, così, potrebbero
entrare direttamente nella gestione di tale patrimonio, sostituendosi ai
funzionari statali a cui, per legge, è demandata qualsiasi decisione per
la tutela, la conservazione e la valorizzazione del nostro patrimonio di
storia, arte e civiltà.
Si elude, dunque, in questo modo quanto espressamente previsto dalla
Costituzione della Repubblica Italiana.
La prevista alienazione, sdemanializzazione e la permuta di beni
culturali e ambientali sono tre modi diversi per dire addio a quanto di
più caro noi abbiamo in termini di coscienza collettiva e culturale.
Tutto nella logica più perversa e insensata che fa dei beni culturali
soltanto degli "oggetti" da poter barattare con altri "oggetti", con
logiche "politiche" che ben poco hanno a che fare con la vera e corretta
politica di salvaguardia, valorizzazione e fruizione dei medesimi beni
culturali”. |
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