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Vendesi Italia S.p.A.

di Luigi Impieri

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Piazza d'Italia - G. de Chirico

 

La polvere che si è alzata a causa dei “venti” di guerra e di terrore, che spirano ormai da tempo nel mondo, a ritmi sempre incisivi, ha fatto da coperta ad alcune questioni che avrebbero avuto bisogno di maggior trasparenza, pubblicità e discussione.
In Italia ad esempio è passato per l’appunto, un po’ troppo in sordina, il nuovo codice di regolamento dei Beni Culturali, che entrerà in vigore dal primo maggio 2004.
Molti i punti particolarmente delicati della riforma che di certo come detto, avrebbero avuto bisogno di una più ampia discussione, non solo tra gli esperti ma anche fra i cittadini al fine di poter riflettere in maniera sufficientemente chiara su quel che si vuole intendere col termine di “bene culturale”.
L’aspetto più ambiguo e pericoloso, di questa riforma, consiste nella decisione di voler alienare e dunque in buona sostanza “vendere per fare cassa” entro tempi davvero troppo stretti, quei beni appartenenti al patrimonio pubblico dello Stato, ritenuti dalle soprintendenze, di scarso pregio artistico.
Per correttezza di informazione la riforma prende spunto da quella già presentata nella precedente legislatura (anche su questa ci sarebbe da discutere!) ed in cui sostanzialmente venivano individuate tre categorie di beni:
1) quelli assolutamente inalienabili (patrimonio archeologico, monumenti);
2) quelli alienabili ma il cui passaggio di proprietà era condizionato dalla realizzazione da parte del privato acquirente di un piano di restauro del bene e di godimento pubblico;
3) quelli ritenuti non di pregio e quindi liberamente alienabili.
Come ha sottolineato la Presidente dell’Associazione Nazionale dei Tecnici per la Tutela dei Beni Culturali e Ambientali, Irene Berlingò,”la normativa contenuta nel collegato alla Finanziaria appena approvato e il nuovo Codice, azzerano completamente la grande tradizione di tutela esistente nella Penisola fin da prima degli Stati preunitari, culminata nelle leggi Bottai del 1939, un modello insuperabile di chiarezza e completezza.
Con le nuove procedure si ammette la vendibilità di ogni bene immobile di proprietà di enti pubblici, eccezion fatta per quelli per i quali le Soprintendenze territoriali riescano a dimostrarne, in 30 giorni (120 giorni previsti per il procedimento globale con il meccanismo del silenzio-assenso), il valore e l'interesse culturale ed artistico.”
Quest’ultimo aspetto dovrebbe davvero preoccuparci: riusciranno entro tale termine, le Sovrintendenze a “stabilire” il patrimonio da tutelare?
Siamo in un paese (quello dei condoni) riconosciamolo,che non si è sempre distinto per efficienza anzi, a volte, abbiamo anche assistito ad episodi di lassismo e corruzione che ha coinvolto le stesse istituzioni preposte a tutelare il patrimonio pubblico dello Stato.
In questo anello debole della riforma vi è la possibilità di innescare meccanismi finalizzati a facili profitti e ad interessi non solo e non sempre a vantaggio dello Stato.
Si smonta così il principio della tutela tout court di cui parla l’articolo 9 della costituzione che questa riforma vuole modificare, che così recita:”la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”;
Si lascia alla discrezione degli uomini delle diverse soprintendenze, che hanno competenze su territori vastissimi, la facoltà di decidere quale Opera o Monumento tutelare, lasciando allo Stato (attraverso la società costituita per l’occasione,“Patrimonio S.p.A.”) il compito di vendere tutto ciò che per chissà quali motivi potrà essere considerato indegno della denominazione di “Bene Culturale”.
Come ha scritto un po’ romanticamente, su “La Repubblica” del 11 marzo 2004, Francesco Erbani; “…un drappello di poco meno di duemila fra architetti, storici dell’arte e archeologi che lavorano nelle soprintendenze, oberati da una media di nove pratiche al giorno ciascuno, costretti a compiere sopralluoghi con la propria macchina in strade di campagna…
Su di loro, armati di buonissima cultura e di una dedizione al limite del volontarismo, si abbatte come un maglio, un articolo della legge Finanziaria, ora accolto nel codice dei Beni Culturali: se un ente pubblico-lo Stato ma anche una Regione o una ASL vuole vendere un palazzo di sua proprietà, l’architetto o lo storico dell’arte della soprintendenza ha 120 giorni di tempo per stabilire se quel palazzo ha un rilievo storico-culturale o non ce l’ha.”
A commento al Nuovo Codice, Lo Storico dell'arte, Gerardo Pecci, Responsabile del Settore Arti Visive del Centro Culturale Studi Storici di Eboli,già cultore di Storia dell'Arte Moderna presso l'Università degli Studi di Salerno, chiamato ad esprimere un parere sulla bozza ministeriale del Nuovo Codice dei Beni Culturalino dichiara: Emerge, purtroppo prepotentemente, solo il volto alquanto mesto
e squallido di una concezione economicista e privatistica dei beni culturali, non più considerati nella loro specifica natura di prodotti storici, culturali, ma nel loro valore meramente venale…
Ora, con questo genialissimo testo, si va a mettere in crisi un patrimonio di studi e di esperienze giuridiche legate ai beni culturali che si credeva fosse ormai graniticamente acquisito e consolidato, almeno nei principi fondamentali.
Ma la logica del profitto evidentemente non la pensa allo stesso modo e nell'ideologia politica neoliberista, che è lo spirito-guida del testo della bozza, perché proprio di ideologia si tratta e nessuno lo potrà negare, i beni culturali sono solo un mero prodotto economico da spremere e far fruttare a vantaggio dei privati che, così, potrebbero entrare direttamente nella gestione di tale patrimonio, sostituendosi ai funzionari statali a cui, per legge, è demandata qualsiasi decisione per la tutela, la conservazione e la valorizzazione del nostro patrimonio di storia, arte e civiltà.
Si elude, dunque, in questo modo quanto espressamente previsto dalla Costituzione della Repubblica Italiana.
La prevista alienazione, sdemanializzazione e la permuta di beni culturali e ambientali sono tre modi diversi per dire addio a quanto di più caro noi abbiamo in termini di coscienza collettiva e culturale.
Tutto nella logica più perversa e insensata che fa dei beni culturali soltanto degli "oggetti" da poter barattare con altri "oggetti", con logiche "politiche" che ben poco hanno a che fare con la vera e corretta politica di salvaguardia, valorizzazione e fruizione dei medesimi beni culturali”.

 
 
Barchetta Luigi Impieri
 

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