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L'autore del libro "La pena di morte" replica all'articolo di Claudio Giusti


di Antonio Marchesi

 
 
UNO
Secondo Giusti, sarei responsabile di "conoscenza della materia ottenuta con informazioni di seconda mano" avendo sostenuto che la Corte Suprema degli Stati Uniti, nella sentenza Furman, avrebbe dichiarato incostituzionale la pena di morte "in quanto tale". Francamente non ho mai pensato questo né mi pare di averlo scritto nel libro. Ho scritto (p.63 e seguenti): che la questione del pregiudizio razziale, "in particolare laddove si tratti di applicare la pena di morte", è stata più volte affrontata nelle Corti degli Stati Uniti. Quindi: che "fu proprio in ragione delle discriminazioni fondate sulla razza, che inevitabilmente comportava, che la pena di morte fu dichiarata incostituzionale" con la sentenza Furman. Infine: che la pena di morte è stata reintrodotta (nel senso che, a seguito delle modifiche relative alla sua applicazione introdotte dagli stati, ha nuovamente superato il vaglio di costituzionalità) ma che, purtroppo, il pregiudizio razziale nell'applicazione della pena di morte costituisce tuttora una indiscutibile realtà.

DUE
Mi viene poi rimproverata la "scarsa coerenza interna del testo" perché avrei scritto che "i giurati devono, a maggioranza, decidere la pena", mentre altrove scrivo della rilevanza che assume secondo certi studi la presenza di un solo giurato nero in giuria. Riconosco che potrei avere illustrato meglio questo passaggio (non pretendo di avere scritto un libro perfetto), ma che la frase incriminata sia in quanto tale falsa, come scrive Giusti, non è vero. Mi risulta che nelle sentencing hearings i giurati discutano e poi, se non c'è accordo, votino. Si veda quello che è scritto nel documento di Amnesty "Death by discrimination – the continuing role of race in capital cases", dove si parla – tanto per fare un esempio – del caso di Victor Stephens nel quale "The jurors voted 10-2 to sentence Victor Stephens to life rather than death" (paragrafo intitolato "A glimpse at Alabama").

TRE
Giusti mi rimprovera di "estrema confusione" per l'uso che faccio dell'espressione "malati di mente". Lo faccio nel contesto di un discorso ampio sulle categorie di persone escluse dalla pena di morte in virtù di atti internazionali (del resto, la mia materia è il diritto internazionale e il libro è impostato sulla pena di morte nei rapporti internazionali, non sul problema della pena di morte negli Stati Uniti in sé). E lo faccio
perché questa espressione e altre del tutto equivalenti – che piacciano o meno - vengono usate in atti internazionali per individuare uno dei limiti internazionalmente imposti al ricorso alla pena di morte da parte degli stati (le ECOSOC Safeguards del 1984, per esempio, fanno riferimento a "persons who have become insane", mentre il Rapporteur speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali denuncia il fatto che certi stati continuano ad applicare la pena di morte a "the mentally ill"). Io
peraltro preciso che preferisco, delle varie espressioni usate (ripeto: con un significato che nel quadro internazionale è equivalente) per indicare coloro che non dovrebbero essere condannati a causa della loro condizione mentale, quella della risoluzione ECOSOC del 1989: a p.56 scrivo: "… i malati di mente – categoria, quest'ultima, più correttamente indicata come 'persone sofferenti di ritardo mentale o con competenze mentali assai limitate". Sarebbe stato però oltremodo pesante ripetere molte volte questa espressione.

QUATTRO
Giusti mi rimprovera di "scarso aggiornamento" per non avere citato la "terza edizione del rapporto di Roger Hood alle Nazioni Unite", del 2002. A voler essere pedanti, io cito a volte il testo dell'unico rapporto Hood alle Nazioni Unite, che mi pare sia del 1990 (quelli successivi sono libri, non rapporti commissionati dalle Nazioni Unite); altre volte un bel testo breve di Roger Hood intitolato "Capital Punishment, Deterrence and Crime Rates", del 1996; altre volte ancora la penultima edizione del libro, a cui Giusti fa riferimento. E' vero che quando ho scritto il primo capitolo del
mio libro, nell'estate del 2002, non avevo l'edizione del 2002. Non mi pare, però, in tutta sincerità, che nell'edizione successiva, che ho visto quando il mio lavoro era in bozze, ci sia nulla che invalidi i miei ragionamenti, che si rifanno – come detto - all'insieme degli studi di Hood. Del resto, il libro in questione è ormai un classico che viene giustamente aggiornato con dati nuovi ma la cui conclusione fondamentale, quella che a me interessava, circa l'impossibilità di dimostrare un "unique deterrent effect" della pena di morte, resta del tutto invariata.

CINQUE
Infine, Giusti denuncia addirittura la "inutilità del libro" perché non mi sarei accorto della "importantissima novità contenuta nella sentenza Atkins", che lui identifica nel c.d. "effetto Strasburgo" e "cioè che, per la prima volta da molto tempo, la Corte Suprema ha fatto un esplicito riferimento all'opinione del resto del mondo e in particolare a quella dei giuristi europei". In verità, conosco piuttosto bene, per varie ragioni su cui non è il caso di diffondermi, la problematica della rispettiva importanza del national consensus rispetto all'international consensus nella giurisprudenza della Corte Suprema. E' vero che la maggioranza dei giudici della Corte Suprema ha dato rilevanza anche all'international consensus nella sentenza Atkins e che questo è importante. Tuttavia, la parte preponderante di quella sentenza è dedicata agli elementi che compongono invece il national consensus. Inoltre, vi è chi autorevolmente sostiene che a essere fuori linea rispetto alla giurisprudenza della Corte Suprema sia la sentenza Stanford, mentre la sentenza Atkins, più che una novità, sarebbe invece in linea con una tradizione di maggiore apertura ai valori della comunità internazionale che risale alla Trop vs Dulles (vedi l'amicus curiae dei Premi Nobel per la pace nel caso Jones che intitola una sezione "This Court historically has considered the views of the world community to be relevant to Eighth Amendment issues"). Insomma, per farla breve, possiamo avere opinioni diverse in proposito ed è perfettamente legittimo ritenere che, nel libro, io abbia dato troppo peso a un aspetto a scapito di un altro. Ma è cosa diversa dire che la sentenza Atkins non la conosco e che per questo motivo il mio libro sarebbe "inutile".
 
 
 
 
 

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