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Rifugiati e lavoratori

di Chris Tomesani

 
 

Tra le immagini possibili per raccontare questi anni di immigrazione in Italia, ci sarà di certo uno sbarco. Forse uno di quelli degli anni 90 con vecchie navi provenienti dall’Albania, o magari uno di quelli del nuovo secolo: uno sbarco di cadaveri e superstiti in arrivo dalla Libia assetati e assiderati.
Tra le suggestioni di queste immagini vi è senz’altro quella della massa indistinta di persone provenienti chissà da dove, ognuno con una storia che non riusciamo a immaginare, ma che intuiamo affascinante e terribile. Terribile è aver rischiato la vita, terribile è anche vederli arrivare tutti insieme e provare a pensare cosa fare: aiutare, ignorare, respingere, accogliere.
Le autorità italiane sono chiamate a discernere nella massa dei volti esotici privi di documenti quei pochi che avrebbero motivi speciali per aver affrontato il viaggio. Persone che secondo la normativa internazionale possono ottenere lo status di rifugiato in Italia. La procedura per la richiesta d’asilo è lunga e concede il soggiorno in Italia, pur senza diritto al lavoro, per chiunque la segua. Gli altri viaggiatori verranno respinti o espulsi. Per venire lavorare in Italia bisogna seguire un’altra strada, dice la legge. Una via quasi impossibile. La polizia cerca pertanto di evitare domande d’asilo strumentali, finalizzate ad aggirare il divieto d’accesso.
La procedura per l’asilo si concluderà dopo un anno e mezzo con la decisione della Commissione centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Negli ultimi due anni più del 90% delle richieste esaminate hanno avuto esito negativo. I dinieghi vengono spesso motivati sostenendo che nel progetto migratorio del richiedente vi sono motivazioni di natura economica piuttosto che una ricerca di protezione.
L’ossessiva distinzione tra migrante economico e rifugiato praticata ormai dalle amministrazioni di tutta l’Europa, mostra come la politica principale sia finalizzata al controllo dei flussi migratori irregolari, piuttosto che alla tutela del diritto d’asilo.
La chiusura delle frontiere praticata di paesi europei fin dagli anni 70 ha avuto l’esito di consolidare il canale clandestino come via d’accesso principale ai territori dell’Unione. Questa strada, controllata da trafficanti organizzati, è utilizzata indistintamente da chiunque: lavoratori, famiglie, profughi, criminali,… Di qui l’esigenza di distinguere. E’ tuttavia poco sensato pensare che un richiedente asilo non possa essere a sua volta un lavoratore o un famigliare al seguito.
L’idea stessa di rifugiato che domina nel senso comune e persino negli organi chiamati a distinguere tra i rifugiati e gli altri non sembra corrispondere più alla storia attuale. Fino al 1990 poteva chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato in Italia solo chi proveniva dai territori controllati dall’Urss. L’equazione rifugiato = dissidente politico utile per ospitare i disertori della guerra fredda, non sempre funziona con i richiedenti asilo di oggi.
I percorsi dell’esilio di oggi assomigliano più a delle interminabili fughe piuttosto che a delle scelte di campo. Ci sono i profughi delle guerre umanitarie in Afghanistan e in Iraq. Persone che oggi non rischiano persecuzioni individuali ad opera di regimi sconfitti, ma sicuramente rischierebbero la vita tornando in paesi distrutti esposti a poteri armati incontrollabili. Ci sono i Kurdi e gli Iraniani: persone in fuga da regimi che violano la libertà di parola e di pensiero, che impongono abbigliamenti e comportamenti. Ci sono le popolazioni delle ex repubbliche dell’Urss che scappano dai nazionalismi in lotta per il potere. Ci sono i fuggiaschi dell’Africa: Liberia, Sierra Leone, Congo, Sudan,...; uomini, donne e bambini sopravvissuti all’attacco diretto alla popolazione: nuova strategia delle guerre civili.
Ma ha senso pensare che la fuga di questa gente in cerca di territori liberi e sicuri nella ricca Europa dei diritti umani, non sia al tempo stesso una ricerca disperata di fortuna?
Ognuna delle persone elencate ha l’esperienza di aver rischiato la vita nel proprio paese, prima ancora di mettersi in viaggio, ma al tempo stesso ha anche la caratteristica di appartenere ai poveri della terra. In questo quadro ha davvero poco senso chiedersi se arrivano per chiedere asilo o lavorare. La distinzione oppositiva tra migranti economici ed esuli non è più verosimile: la maggior parte delle persone in cerca di asilo oggi è anche un migrante economico.
Una politica più rispettosa del diritto d’asilo dovrebbe abbandonare questo criterio selettivo e sceglierne altri, magari più semplici. Un criterio più equo come, per esempio, la protezione umanitaria concessa a tutte le persone che provengono dalle zone del mondo dove si combattono le guerre, dove non c’è libertà di parola, dove si viene discriminati in base all’etnia.
I servizi e le associazioni che si occupano di richiedenti asilo non sono immuni dal rischio di distinzioni rigide tra migranti economici ed esuli. Gran parte del rischio deriva dalla traduzione in termini amministrativi delle diverse categorie di migranti. I diritti, i doveri e i bisogni di chi è in possesso di un permesso di soggiorno per richiesta d’asilo, per riconoscimento dello status di rifugiato o per motivi umanitari sono diversi da quelli degli stranieri con altri permessi di soggiorno. Lavorando principalmente sul qui ed ora, anche il Servizio Immigrazione del Comune di Venezia ha creato due Unità Operative Complesse che si dividono gli utenti principalmente in base al permesso di soggiorno.
La UOC Gestione Accoglienze che si occupa di asilo, lavora tuttavia nell’ottica di una rappresentazione più complessiva di richiedenti asilo e rifugiati. Lavorando a stretto contatto con gli ospiti delle strutture d’accoglienza, la relazione di aiuto interviene su esigenze di vita che travalicano i confini delle definizioni amministrative. La conoscenza delle storie dei richiedenti asilo, prima e dopo l’arrivo in Italia, consente un’osservazione più articolata delle persone e dei loro molteplici percorsi anche al di là della richiesta d’asilo.
La storia che segue è tratta da una video intervista (a cura di Ivan Carlot e Giorgio Bombieri) svolta con un cittadino della Sierra Leone ospite del Progetto Fontego. La narrazione in prima persona corrisponde in parte alla richiesta d’asilo rivolta alla Commissione centrale. La richiesta si è conclusa con un diniego.

La storia
Volevo fare il poliziotto ma mio padre non voleva. Avevo molti amici poliziotti. Per tre anni ho girato con loro. Fare il poliziotto ti consente di sapere tutto subito. Nessuno vestiva la divisa e così la gente pensava che anch’io fossi un poliziotto.
A volte andavamo a fermare la gente che aveva sigarette di importazione, che per questo dovevano pagare delle grosse multe. Gli chiedevamo un po’ di soldi e li lasciavamo andare.
Facevo anche un altro lavoro: avevo un negozio nel mio villaggio dove vendevo piccole cose e in più cambiavo dollari per gli amici libanesi che commerciavano diamanti.
Io non sono cresciuto vicino a mia madre e mio padre. Loro mi hanno lasciato al villaggio a leggere il Corano. Quando ho potuto sono scappato e subito ho cercato di guadagnare dei soldi. Quando ho avuto abbastanza soldi per fare una casa sono andato a visitare la mia famiglia. Mio padre mi ha chiesto “dove hai trovato i soldi?” gli ho risposto “papà non chiedermi questo. Lo sai che non ho né rubato, né ucciso per averli”. Non gli ho raccontato che andavo in giro con la Polizia. Allora mio padre mi ha detto “se non vuoi leggere il Corano devi sposarti!” e così mi sono sposato con una ragazza di tredici anni. Dopo due giorni hanno ucciso mio padre. Gli hanno sparato mentre era in macchina e andava a vendere al villaggio.
Ho vissuto così fino al 94 quando è scoppiata la ribellione. Abbiamo fermato quella ribellione, l’abbiamo fermata con le barricate. Dopo due mesi sono arrivati i militari nigeriani, liberiani, della Guinea.
Continuavo a fare il mio lavoro, continuavo a vendere. Avevo anche una piccola macchina: la gente mi portava la roba da vendere e io trasportavo cose e persone.
Un giorno arriva un capitano dei militari e porta una lettera che dice che quel giorno stesso in città sarebbero arrivati i ribelli. Ho passato tutto il giorno a portare fuori dalla città tanta gente con la macchina, senza farmi pagare, finché non ho finito la benzina.
Dopo tre mesi sul giornale esce una lista di nomi di persone che devono presentarsi al comando militare. Tra questi nomi c’era anche il mio. Ho visto tante persone che sono andate e non sono più tornate, così sono scappato nel mio piccolo villaggio che si chiama Matroux. Un giorno sono tornato per vedere la mia famiglia, ma non l’ ho più trovata perché erano passati i ribelli.
Allora mi sono messa a cercarla. Giravo il paese di villaggio in villaggio. Quando chiedevo ai militari mi dicevano: qui non c’è vai via. Quando qualcuno voleva farmi del male gli offrivo delle cose che portavo con me in cambio delle informazioni.
Finché un giorno un avvocato, era l’avvocato di mio padre, mi ha detto “devi scappare!. Il Governo mi ha offerto cinque milioni se dico dove ti ho visto”.
Io so che se ti prendono, ti mettono dentro un sacco e dicono che portano il sacco in lavanderia. Vuol dire che ti buttano in mare. Questo vuol dire andare in lavanderia. E allora sono scappato.
Sono andato in Liberia. Sono stato otto o nove mesi. Poi è scoppiata la guerra anche lì. Prima fuori dalla capitale, poi anche in città. Ho visto molta gente che fuggiva con la barca. E allora sono andato anch’io.
Il viaggio in barca non lo voglio ricordare. Era duro.
C’era molta gente con molti bagagli. A un certo punto nella notte il pilota ha detto “ci fermiamo perché non so dove andare e rischiamo di morire”. Quando è salito il sole si vedeva solo acqua intorno a noi e la benzina non era sufficiente per arrivare in Guinea Bissau. Io non avevo pagato soldi. Per pagarmi il viaggio dovevo svuotare continuamente la barca dall’acqua che entrava. E sapevo che se non ce l’avessimo fatta il primo che avrebbero buttato in mare sarei stato io.
Grazie a Dio dei pescatori ci hanno indicato la via e siamo arrivati a terra.
Così sono arrivato in Guinea Bissau. Lì ho sentito dire che bisognava chiedere asilo per mettersi in regola. Allora sono stato alle nazioni unite dove mi hanno dato una carta di identità basata sulle generalità del mio documento originale.
Anche lì c’era la guerra. Noi ci muovevamo in varie zone del paese dove non c’era la guerra. Per un periodo siamo stati vicino ai militari del Senegal. Ma non ce la facevo più. Allora ho chiesto a delle persone di portarmi via con una nave. E sono arrivato in Italia. Non sapevo che sarei arrivato qui. L’unico documento che avevo era la carta di identità di rifugiato rilasciata in Guinea. Tutto il resto l’avevo perduto durante il bombardamento della mia casa in Guinea.
Quando sono arrivato in Italia non sapevo neanche cosa dovevo fare.
Quando sono arrivato in Italia nessuno mi capiva.
Quando sono arrivato in Italia ho dormito due sere in stazione. Poi una notte mi hanno rubato tutti i soldi. Così sono andato in Questura, ma mi hanno mandato via perché non mi capivano. Poi ho incontrato un Africano che mi ha detto: “Vai a Napoli se vuoi lavorare”. Sono andato e ho lavorato in campagna per 50 mila lire al giorno.
Ho lavorato così per qualche mese, poi ho cominciato a sentirmi stanco. Non ero abituato a fare lavori di fatica nel mio paese. Vivevo di commerci. Mio padre aveva l’azienda, ma io non avevo mai lavorato nella sua azienda.
Così mi hanno detto che si potevano trovare altri lavori per la stessa paga. E alla fine mi sono trovato a Treviso. Lì dormivamo in tanti in una casa abbandonata. La Polizia ci ha fermati tutti e ci ha portato in Questura. A Treviso abbiamo conosciuto un italiano. Lui ha visto il mio documento dell’ACNUR e mi ha chiesto come mai non avevo chiesto asilo in Italia. Diceva che con quel documento potevo farlo.
Non so quanto tempo era già passato da che ero entrato in Italia; forse 8 o 9 mesi. Non so bene perché l’ultima guerra, quella in Guinea, mi ha rotto i ricordi. Non ricordavo niente. Adesso comincio a ricordare qualcosa, ma non tutto. Ma nemmeno voglio ricordare tutto
Ricordo in particolare un giorno che eravamo in Liberia e i ribelli avevano già ucciso tanta gente. Noi facevamo il ramadan. Sono venuti ed hanno detto: Dovete mettere i morti sotto terra! Una persona ogni dieci cadaveri. E c’hanno fatto stare là fino a che non abbiamo finito.
Questi giorni sono stati duri.
Come il giorno che doveva venire il presidente della Guinea e loro buttavano bombe come se piovesse. Mi ricordo che stavamo tutti mangiando insieme. Cadevano le granate . Tutti eravamo finiti a terra. Io non so come mai sono ancora vivo. Se qualcuno adesso mi dice che sono ancora vivo io non ci credo.
Un’altra volta in Liberia cercavano le persone di una particolare etnia. Ti chiedevano: di che etnia sei? Sei eri di quell’etnia ti uccidevano; se eri di un’altra etnia ti lasciavano andare. C’erano delle persone che parlavano molte lingue e ti facevano delle domande del tipo: “come si chiama quella corda che mettono intorno al collo alle mucche quando partoriscono?” Se sapevi rispondere bene; se no ti tagliavano la gola.
Io non so come mai sono ancora vivo
Ciò che mi ha aiutato è solo Dio. Per qualunque cosa ti può aiutare solo Dio o una persona che ti sta vicino.
L’italiano che ho conosciuto a Treviso mi ha portato a Venezia all’Ufficio Rifugiati per chiedere asilo. Lì ho raccontato la mia storia.
In Questura a Venezia mi hanno fatto solo alcune domande: Perché sei venuto qui? Hai la madre e il papà? Perché sei scappato? E basta.
Dopo 6/7 mesi che ho chiesto asilo mi hanno chiamato a Roma. Mi hanno fatto parlare. Avevo molte cose da raccontare, ma a un certo punto mi hanno detto “va bene firma qui, tra due mesi ti comunicheremo la nostra decisione”. Invece mi hanno risposto dopo un anno e mi hanno riconvocato a Roma. Mi hanno detto “tu non sei della Sierra Leone”. Io ho detto “sì, certo!” Loro hanno scritto qualcosa e mi hanno detto “firma!” Ho risposto che non potevo firmare se non capivo cosa c’era scritto. Mi hanno risposto che c’era tanta gente fuori che aspettava e a loro non interessava se io firmavo o no. Così ho dovuto firmare e mi hanno dato il diniego.
Adesso non ho un posto dove andare. Sono sette anni che ho lasciato il mio paese e mia moglie. L’unica cosa che posso fare è avere dei documenti e lavorare e portare qua mia moglie. Della mia famiglia sono rimasti mia moglie e i miei fratelli più piccoli, ma non so dove sono. Se non ho documenti l’unica soluzione è morire.

21 aprile 2004 - Documento a cura del Progetto Melting Pot Europa
Promotori: TeleradioCity - Radio Sherwood e Comune di Venezia

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