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Tra le
immagini possibili per raccontare questi anni di immigrazione in
Italia, ci sarà di certo uno sbarco. Forse uno di quelli degli
anni 90 con vecchie navi provenienti dall’Albania, o magari uno
di quelli del nuovo secolo: uno sbarco di cadaveri e superstiti
in arrivo dalla Libia assetati e assiderati.
Tra le suggestioni di queste immagini vi è senz’altro quella
della massa indistinta di persone provenienti chissà da dove,
ognuno con una storia che non riusciamo a immaginare, ma che
intuiamo affascinante e terribile. Terribile è aver rischiato la
vita, terribile è anche vederli arrivare tutti insieme e provare
a pensare cosa fare: aiutare, ignorare, respingere, accogliere.
Le autorità italiane sono chiamate a discernere nella massa dei
volti esotici privi di documenti quei pochi che avrebbero motivi
speciali per aver affrontato il viaggio. Persone che secondo la
normativa internazionale possono ottenere lo status di rifugiato
in Italia. La procedura per la richiesta d’asilo è lunga e
concede il soggiorno in Italia, pur senza diritto al lavoro, per
chiunque la segua. Gli altri viaggiatori verranno respinti o
espulsi. Per venire lavorare in Italia bisogna seguire un’altra
strada, dice la legge. Una via quasi impossibile. La polizia
cerca pertanto di evitare domande d’asilo strumentali,
finalizzate ad aggirare il divieto d’accesso.
La procedura per l’asilo si concluderà dopo un anno e mezzo con
la decisione della Commissione centrale per il riconoscimento
dello status di rifugiato. Negli ultimi due anni più del 90%
delle richieste esaminate hanno avuto esito negativo. I dinieghi
vengono spesso motivati sostenendo che nel progetto migratorio
del richiedente vi sono motivazioni di natura economica
piuttosto che una ricerca di protezione.
L’ossessiva distinzione tra migrante economico e rifugiato
praticata ormai dalle amministrazioni di tutta l’Europa, mostra
come la politica principale sia finalizzata al controllo dei
flussi migratori irregolari, piuttosto che alla tutela del
diritto d’asilo.
La chiusura delle frontiere praticata di paesi europei fin dagli
anni 70 ha avuto l’esito di consolidare il canale clandestino
come via d’accesso principale ai territori dell’Unione. Questa
strada, controllata da trafficanti organizzati, è utilizzata
indistintamente da chiunque: lavoratori, famiglie, profughi,
criminali,… Di qui l’esigenza di distinguere. E’ tuttavia poco
sensato pensare che un richiedente asilo non possa essere a sua
volta un lavoratore o un famigliare al seguito.
L’idea stessa di rifugiato che domina nel senso comune e persino
negli organi chiamati a distinguere tra i rifugiati e gli altri
non sembra corrispondere più alla storia attuale. Fino al 1990
poteva chiedere il riconoscimento dello status di rifugiato in
Italia solo chi proveniva dai territori controllati dall’Urss.
L’equazione rifugiato = dissidente politico utile per ospitare i
disertori della guerra fredda, non sempre funziona con i
richiedenti asilo di oggi.
I percorsi dell’esilio di oggi assomigliano più a delle
interminabili fughe piuttosto che a delle scelte di campo. Ci
sono i profughi delle guerre umanitarie in Afghanistan e in
Iraq. Persone che oggi non rischiano persecuzioni individuali ad
opera di regimi sconfitti, ma sicuramente rischierebbero la vita
tornando in paesi distrutti esposti a poteri armati
incontrollabili. Ci sono i Kurdi e gli Iraniani: persone in fuga
da regimi che violano la libertà di parola e di pensiero, che
impongono abbigliamenti e comportamenti. Ci sono le popolazioni
delle ex repubbliche dell’Urss che scappano dai nazionalismi in
lotta per il potere. Ci sono i fuggiaschi dell’Africa: Liberia,
Sierra Leone, Congo, Sudan,...; uomini, donne e bambini
sopravvissuti all’attacco diretto alla popolazione: nuova
strategia delle guerre civili.
Ma ha senso pensare che la fuga di questa gente in cerca di
territori liberi e sicuri nella ricca Europa dei diritti umani,
non sia al tempo stesso una ricerca disperata di fortuna?
Ognuna delle persone elencate ha l’esperienza di aver rischiato
la vita nel proprio paese, prima ancora di mettersi in viaggio,
ma al tempo stesso ha anche la caratteristica di appartenere ai
poveri della terra. In questo quadro ha davvero poco senso
chiedersi se arrivano per chiedere asilo o lavorare. La
distinzione oppositiva tra migranti economici ed esuli non è più
verosimile: la maggior parte delle persone in cerca di asilo
oggi è anche un migrante economico.
Una politica più rispettosa del diritto d’asilo dovrebbe
abbandonare questo criterio selettivo e sceglierne altri, magari
più semplici. Un criterio più equo come, per esempio, la
protezione umanitaria concessa a tutte le persone che provengono
dalle zone del mondo dove si combattono le guerre, dove non c’è
libertà di parola, dove si viene discriminati in base all’etnia.
I servizi e le associazioni che si occupano di richiedenti asilo
non sono immuni dal rischio di distinzioni rigide tra migranti
economici ed esuli. Gran parte del rischio deriva dalla
traduzione in termini amministrativi delle diverse categorie di
migranti. I diritti, i doveri e i bisogni di chi è in possesso
di un permesso di soggiorno per richiesta d’asilo, per
riconoscimento dello status di rifugiato o per motivi umanitari
sono diversi da quelli degli stranieri con altri permessi di
soggiorno. Lavorando principalmente sul qui ed ora, anche il
Servizio Immigrazione del Comune di Venezia ha creato due Unità
Operative Complesse che si dividono gli utenti principalmente in
base al permesso di soggiorno.
La UOC Gestione Accoglienze che si occupa di asilo, lavora
tuttavia nell’ottica di una rappresentazione più complessiva di
richiedenti asilo e rifugiati. Lavorando a stretto contatto con
gli ospiti delle strutture d’accoglienza, la relazione di aiuto
interviene su esigenze di vita che travalicano i confini delle
definizioni amministrative. La conoscenza delle storie dei
richiedenti asilo, prima e dopo l’arrivo in Italia, consente
un’osservazione più articolata delle persone e dei loro
molteplici percorsi anche al di là della richiesta d’asilo.
La storia che segue è tratta da una video intervista (a cura di
Ivan Carlot e Giorgio Bombieri) svolta con un cittadino della
Sierra Leone ospite del Progetto Fontego. La narrazione in prima
persona corrisponde in parte alla richiesta d’asilo rivolta alla
Commissione centrale. La richiesta si è conclusa con un diniego.
La
storia
Volevo fare il poliziotto ma mio padre non voleva. Avevo molti
amici poliziotti. Per tre anni ho girato con loro. Fare il
poliziotto ti consente di sapere tutto subito. Nessuno vestiva
la divisa e così la gente pensava che anch’io fossi un
poliziotto.
A volte andavamo a fermare la gente che aveva sigarette di
importazione, che per questo dovevano pagare delle grosse multe.
Gli chiedevamo un po’ di soldi e li lasciavamo andare.
Facevo anche un altro lavoro: avevo un negozio nel mio villaggio
dove vendevo piccole cose e in più cambiavo dollari per gli
amici libanesi che commerciavano diamanti.
Io non sono cresciuto vicino a mia madre e mio padre. Loro mi
hanno lasciato al villaggio a leggere il Corano. Quando ho
potuto sono scappato e subito ho cercato di guadagnare dei
soldi. Quando ho avuto abbastanza soldi per fare una casa sono
andato a visitare la mia famiglia. Mio padre mi ha chiesto “dove
hai trovato i soldi?” gli ho risposto “papà non chiedermi
questo. Lo sai che non ho né rubato, né ucciso per averli”. Non
gli ho raccontato che andavo in giro con la Polizia. Allora mio
padre mi ha detto “se non vuoi leggere il Corano devi sposarti!”
e così mi sono sposato con una ragazza di tredici anni. Dopo due
giorni hanno ucciso mio padre. Gli hanno sparato mentre era in
macchina e andava a vendere al villaggio.
Ho vissuto così fino al 94 quando è scoppiata la ribellione.
Abbiamo fermato quella ribellione, l’abbiamo fermata con le
barricate. Dopo due mesi sono arrivati i militari nigeriani,
liberiani, della Guinea.
Continuavo a fare il mio lavoro, continuavo a vendere. Avevo
anche una piccola macchina: la gente mi portava la roba da
vendere e io trasportavo cose e persone.
Un giorno arriva un capitano dei militari e porta una lettera
che dice che quel giorno stesso in città sarebbero arrivati i
ribelli. Ho passato tutto il giorno a portare fuori dalla città
tanta gente con la macchina, senza farmi pagare, finché non ho
finito la benzina.
Dopo tre mesi sul giornale esce una lista di nomi di persone che
devono presentarsi al comando militare. Tra questi nomi c’era
anche il mio. Ho visto tante persone che sono andate e non sono
più tornate, così sono scappato nel mio piccolo villaggio che si
chiama Matroux. Un giorno sono tornato per vedere la mia
famiglia, ma non l’ ho più trovata perché erano passati i
ribelli.
Allora mi sono messa a cercarla. Giravo il paese di villaggio in
villaggio. Quando chiedevo ai militari mi dicevano: qui non c’è
vai via. Quando qualcuno voleva farmi del male gli offrivo delle
cose che portavo con me in cambio delle informazioni.
Finché un giorno un avvocato, era l’avvocato di mio padre, mi ha
detto “devi scappare!. Il Governo mi ha offerto cinque milioni
se dico dove ti ho visto”.
Io so che se ti prendono, ti mettono dentro un sacco e dicono
che portano il sacco in lavanderia. Vuol dire che ti buttano in
mare. Questo vuol dire andare in lavanderia. E allora sono
scappato.
Sono andato in Liberia. Sono stato otto o nove mesi. Poi è
scoppiata la guerra anche lì. Prima fuori dalla capitale, poi
anche in città. Ho visto molta gente che fuggiva con la barca. E
allora sono andato anch’io.
Il viaggio in barca non lo voglio ricordare. Era duro.
C’era molta gente con molti bagagli. A un certo punto nella
notte il pilota ha detto “ci fermiamo perché non so dove andare
e rischiamo di morire”. Quando è salito il sole si vedeva solo
acqua intorno a noi e la benzina non era sufficiente per
arrivare in Guinea Bissau. Io non avevo pagato soldi. Per
pagarmi il viaggio dovevo svuotare continuamente la barca
dall’acqua che entrava. E sapevo che se non ce l’avessimo fatta
il primo che avrebbero buttato in mare sarei stato io.
Grazie a Dio dei pescatori ci hanno indicato la via e siamo
arrivati a terra.
Così sono arrivato in Guinea Bissau. Lì ho sentito dire che
bisognava chiedere asilo per mettersi in regola. Allora sono
stato alle nazioni unite dove mi hanno dato una carta di
identità basata sulle generalità del mio documento originale.
Anche lì c’era la guerra. Noi ci muovevamo in varie zone del
paese dove non c’era la guerra. Per un periodo siamo stati
vicino ai militari del Senegal. Ma non ce la facevo più. Allora
ho chiesto a delle persone di portarmi via con una nave. E sono
arrivato in Italia. Non sapevo che sarei arrivato qui. L’unico
documento che avevo era la carta di identità di rifugiato
rilasciata in Guinea. Tutto il resto l’avevo perduto durante il
bombardamento della mia casa in Guinea.
Quando sono arrivato in Italia non sapevo neanche cosa dovevo
fare.
Quando sono arrivato in Italia nessuno mi capiva.
Quando sono arrivato in Italia ho dormito due sere in stazione.
Poi una notte mi hanno rubato tutti i soldi. Così sono andato in
Questura, ma mi hanno mandato via perché non mi capivano. Poi ho
incontrato un Africano che mi ha detto: “Vai a Napoli se vuoi
lavorare”. Sono andato e ho lavorato in campagna per 50 mila
lire al giorno.
Ho lavorato così per qualche mese, poi ho cominciato a sentirmi
stanco. Non ero abituato a fare lavori di fatica nel mio paese.
Vivevo di commerci. Mio padre aveva l’azienda, ma io non avevo
mai lavorato nella sua azienda.
Così mi hanno detto che si potevano trovare altri lavori per la
stessa paga. E alla fine mi sono trovato a Treviso. Lì dormivamo
in tanti in una casa abbandonata. La Polizia ci ha fermati tutti
e ci ha portato in Questura. A Treviso abbiamo conosciuto un
italiano. Lui ha visto il mio documento dell’ACNUR e mi ha
chiesto come mai non avevo chiesto asilo in Italia. Diceva che
con quel documento potevo farlo.
Non so quanto tempo era già passato da che ero entrato in
Italia; forse 8 o 9 mesi. Non so bene perché l’ultima guerra,
quella in Guinea, mi ha rotto i ricordi. Non ricordavo niente.
Adesso comincio a ricordare qualcosa, ma non tutto. Ma nemmeno
voglio ricordare tutto
Ricordo in particolare un giorno che eravamo in Liberia e i
ribelli avevano già ucciso tanta gente. Noi facevamo il ramadan.
Sono venuti ed hanno detto: Dovete mettere i morti sotto terra!
Una persona ogni dieci cadaveri. E c’hanno fatto stare là fino a
che non abbiamo finito.
Questi giorni sono stati duri.
Come il giorno che doveva venire il presidente della Guinea e
loro buttavano bombe come se piovesse. Mi ricordo che stavamo
tutti mangiando insieme. Cadevano le granate . Tutti eravamo
finiti a terra. Io non so come mai sono ancora vivo. Se qualcuno
adesso mi dice che sono ancora vivo io non ci credo.
Un’altra volta in Liberia cercavano le persone di una
particolare etnia. Ti chiedevano: di che etnia sei? Sei eri di
quell’etnia ti uccidevano; se eri di un’altra etnia ti
lasciavano andare. C’erano delle persone che parlavano molte
lingue e ti facevano delle domande del tipo: “come si chiama
quella corda che mettono intorno al collo alle mucche quando
partoriscono?” Se sapevi rispondere bene; se no ti tagliavano la
gola.
Io non so come mai sono ancora vivo
Ciò che mi ha aiutato è solo Dio. Per qualunque cosa ti può
aiutare solo Dio o una persona che ti sta vicino.
L’italiano che ho conosciuto a Treviso mi ha portato a Venezia
all’Ufficio Rifugiati per chiedere asilo. Lì ho raccontato la
mia storia.
In Questura a Venezia mi hanno fatto solo alcune domande: Perché
sei venuto qui? Hai la madre e il papà? Perché sei scappato? E
basta.
Dopo 6/7 mesi che ho chiesto asilo mi hanno chiamato a Roma. Mi
hanno fatto parlare. Avevo molte cose da raccontare, ma a un
certo punto mi hanno detto “va bene firma qui, tra due mesi ti
comunicheremo la nostra decisione”. Invece mi hanno risposto
dopo un anno e mi hanno riconvocato a Roma. Mi hanno detto “tu
non sei della Sierra Leone”. Io ho detto “sì, certo!” Loro hanno
scritto qualcosa e mi hanno detto “firma!” Ho risposto che non
potevo firmare se non capivo cosa c’era scritto. Mi hanno
risposto che c’era tanta gente fuori che aspettava e a loro non
interessava se io firmavo o no. Così ho dovuto firmare e mi
hanno dato il diniego.
Adesso non ho un posto dove andare. Sono sette anni che ho
lasciato il mio paese e mia moglie. L’unica cosa che posso fare
è avere dei documenti e lavorare e portare qua mia moglie. Della
mia famiglia sono rimasti mia moglie e i miei fratelli più
piccoli, ma non so dove sono. Se non ho documenti l’unica
soluzione è morire.
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aprile 2004 - Documento a cura del Progetto
Melting Pot Europa
Promotori: TeleradioCity - Radio Sherwood e Comune di Venezia
Diritto
d'asilo
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