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Storie di rifugiati a Roma Tiburtina

di Marco Zerbino
 

 
  Nel suo paese Abdullah faceva l’imbianchino. Più o meno nel ’97, racconta, si era trasferito con tutta la famiglia in una cittadina non distante da Khartoum, la capitale del Sudan. Per loro non era stato facile abbandonare la terra che coltivavano da una vita, ma era stata una scelta obbligata dalla necessità di sfuggire alle persecuzioni subite nella loro regione d’origine, il Darfur. Situata nell’area nordoccidentale del paese, questa zona ha conosciuto nell’ultimo anno un inasprimento senza precedenti delle storiche tensioni esistenti fra la popolazione nera, dedita prevalentemente all’allevamento e al lavoro nei campi, e le tribù nomadi arabe. Queste ultime hanno da tempo messo in piedi un vero e proprio corpo paramilitare (i cosiddetti Janjaweed) specializzato in rapine, saccheggi, uccisioni e stupri di massa. Un conflitto, quello del Darfur, di natura etnica e socioeconomica, più che religiosa: entrambi i gruppi sono infatti di religione musulmana.
La posta in gioco reale sembra essere piuttosto quella del controllo delle risorse, a partire dalla terra, con i suoi prodotti, e dal preziosissimo bestiame. Contro le sistematiche violenze dei Janjaweed – spalleggiati dal governo “arabo” di Khartoum, quello stesso che da anni opprime la popolazione del sud del paese – hanno preso le armi nel febbraio dello scorso anno due gruppi, il Sudan Liberation Movement, e il Justice and Equality Movement. Negli ultimi mesi il numero di sfollati interni ed esterni (verso il confinante Ciad) è andato aumentando in maniera esponenziale, con alcuni picchi di particolare intensità sul finire del 2003 e all’inizio del 2004. Il caso di Abdullah e della sua famiglia, ad ogni modo, mostra che il problema è ben più antico.
In Sudan, il governo utilizza spesso i giovani di leva come carne da cannone nei numerosi fronti interni. Capita così che ragazzi appena maggiorenni siano costretti ad usare le armi contro la propria gente. Alcuni di loro – è il caso di Abdullah – si rifiutano di farlo, e da quel momento possono star certi che non avranno più una vita normale. “Quando mi hanno chiamato per fare il servizio militare ho pensato: il militare sì, ma la guerra no…”. È per questo che Abdullah è dovuto fuggire. Mentre era via, la polizia ha fatto visita al padre, il quale ha detto di non avere idea di dove fosse il figlio. Tornato a casa dai genitori, Abdullah ha parlato con loro e, conscio del pericolo che avrebbe corso rimanendo in Sudan, si è messo in viaggio: prima alla volta di Fasher, sempre in Darfur, poi da lì su un camion che lo ha portato attraverso il deserto fino in Libia, e infine dalle coste libiche verso la Sicilia.
Il primo contatto con Roma è avvenuto scendendo dal treno, a Termini. Racconta di essere rimasto impressionato dalla quantità di persone che ha visto dormire per strada: “In Sudan non ce ne sono così tante… Dopo un po’ che ero arrivato ho pensato: ma questa è veramente l’Europa?”. Alla stazione ha conosciuto un suo connazionale. “Ci siamo messi a parlare e lui mi ha detto che, se non avevo dove dormire, c’era un posto lì nelle vicinanze dove si erano sistemate tante altre persone che come me erano venute dal Sudan o dall’Eritrea, e dove avrei potuto riposare un po’ e mangiare qualcosa…”.

VITE DA RIFUGIATI
Non è facile la vita a Tiburtina. I disagi non mancano. I magazzini ferroviari dismessi in cui vivono qualche centinaio di sudanesi, etiopi ed eritrei erano stati pensati per ospitare merci e materiali, non persone. Gasim, anche lui del Darfur, mi racconta che i primi ad occupare questi edifici, circa quattro o cinque anni fa, sono stati alcuni maghrebini. Poi sono arrivati i sudanesi e tutti gli altri. I capannoni attualmente abitati, situati in una vasta area nei pressi del secondo snodo ferroviario della capitale, sono due: uno quasi esclusivamente di rifugiati e richiedenti asilo provenienti dal Sudan, l’altro, molto più grande, ospita in maggioranza eritrei ed etiopi, oltre a una decina di sudanesi. Questo è tutto ciò che rimane dei quattro magazzini occupati fino al novembre dello scorso anno, quando si è verificato un primo parziale sgombero dell’area in vista dei lavori che dovranno fare di Tiburtina la principale stazione di transito di Roma.
L’amministrazione comunale entrerà in possesso di questa porzione di territorio verso marzo e ha rimandato alla primavera del 2004 l’ultima fase dello sgombero, che dovrebbe contemplare anche la demolizione degli ultimi due capannoni rimasti in piedi, quelli, appunto, dove vivono Gasim e Abdullah. Sin dallo scorso autunno è cominciata comunque una trattativa fra l’assessore alle Politiche Sociali del comune di Roma e le diverse associazioni e organizzazioni che lavorano a Tiburtina. Nello stesso periodo sono cominciati a fioccare i servizi giornalistici su questa nicchia di marginalità nel cuore della metropoli, la maggior parte dei quali impegnati a denunciare l’emergenza umanitaria e abitativa di cui Tiburtina è diventata un po’ emblema. Qui sono arrivate persino le telecamere della Bbc, a fotografare la realtà di una città che fatica, da un punto di vista operativo e culturale, a sentirsi cosmopolita ed “europea”.
A ben guardare, però, Roma rappresenta la regola più che l’eccezione, in un paese che in cinquant’anni non è riuscito a dotarsi di una legislazione organica e specifica in materia di diritto d’asilo, e in cui la condizione di rifugiato è spesso confusa con quella più generica di migrante. Unica differenza: i numeri, che qui richiederebbero un più tangibile impegno da parte delle amministrazioni locali.

È PUR SEMPRE UNA CASA
Ma Tiburtina, per quelli che ci vivono, è diventata anche una casa. Un’abitazione che loro hanno voluto, in mancanza di altre soluzioni, costruirsi e abbellire. Dopo avermi offerto un tè nella sua stanza, Hajoub insiste per accompagnarmi alla fermata dell’autobus. Uscendo, si tira dietro la porta e la chiude a chiave. Gli chiedo se lo fa perché ha paura che qualcuno degli altri occupanti entri dentro, magari per rubare… Mi assicura di no. Forse Hajoub chiude la porta semplicemente per delimitare il suo spazio. Continua dicendo che nel suo piano è amico di tutti, anche se lo fa arrabbiare il fatto che lui si dà tanto da fare per tenere pulite le scale che dalla sua stanza portano al corridoio centrale e la mattina ci trova cartacce, cicche e pacchetti di sigarette. Qualcuno poi sembra averle scelte come latrina. “Comunque, la mia casa è aperta a tutti: se uno non ha dove stare, lo faccio dormire da me, senza problemi. L’ho già fatto tante volte”.
Qui nel “magazzino grande”, l’uso di termini come “stanza” e “scale” non è poi così improprio. Entrando dal grande spiazzo antistante il capannone, si ha inizialmente l’impressione di entrare in un carcere, di quelli che si vedono nei film d’azione americani: ai lati del grande corridoio dove camminiamo, corrono parallele sei file (tre per lato) di piccoli vani che si succedono per tutta la lunghezza di quest’edificio rettangolare. Da tali aperture sono state ricavate alcune camere, che ospitano a seconda dei casi una, due o anche tre persone. Per renderle più funzionali è stato necessario creare pareti che le isolassero, all’interno dell’edificio stesso, dallo spazio comune.
Hajoub è riuscito nell’impresa utilizzando alcune tavole di compensato, ridipinte di bianco, e lasciando giusto un’apertura sufficientemente grande per la porta. Di fronte alla stanza è riuscito anche a ricavare un po’ di spazio per una veranda. Lì c’è un tavolino con alcune sedie e una cucinetta, sempre di compensato e sempre accessibile tramite una porticina provvista di serratura. Non credo comunque che Hajoub la utilizzi molto spesso: a Tiburtina, entrambi i magazzini (il grande e il piccolo, quello dei sudanesi) sono provvisti di un ristorante dove si può mangiare con pochi euro. Un modo per assaporare tutti i giorni il cibo di casa – caldo e gustoso – per stare insieme e per creare qui dentro quel po’ di circolazione di moneta che per alcuni costituisce anche l’opportunità di un reddito, per quanto contenuto.

UNA SPECIE DI FRATELLO
Abdullah, Hajoub e Mokhtar sono molto uniti: si considerano l’un l’altro come fratelli. Glielo sento ripetere più volte. Mokhtar e Hajoub hanno vissuto in Sudan per tanti anni, di fatto è il loro paese, ma sono entrambi originari del Ciad. Mokhtar, poi, è la prima persona con cui Abdullah ha fatto amicizia a Tiburtina ed è da allora che sono rimasti così uniti. “Da questo punto di vista, c’è differenza fra Italia e Sudan”, mi spiega Suleiman, ex studente di economia all’Università di Khartoum, anch’egli richiedente asilo e proveniente dal Darfur, “se io vado in un posto dove non conosco nessuno, la prima persona con cui faccio amicizia la considero in modo particolare, come se l’avessi conosciuta da sempre. Diventa una specie di fratello…”.
Al momento, però, mi sembra di capire che i tre amici non riescano più a vedersi troppo di frequente: Abdullah è andato da poco a stare fuori da Tiburtina, e attualmente divide una stanza con altri connazionali in zona Finocchio, all’estrema periferia orientale della città. Lo considera un progresso: lì almeno non fa freddo, c’è un bagno come si deve e quando piove non si allaga tutto. Abdullah non risparmia critiche a noi italiani e alle nostre istituzioni: “Tutti i sudanesi che conosco e che hanno fatto domanda di asilo in altri paesi europei, come Francia, Inghilterra, Germania, mi descrivono una situazione completamente diversa dalla nostra: una casa, un lavoro, l’assistenza sanitaria, la possibilità del ricongiungimento familiare…Solo qui in Italia per noi non c’è niente. Nessuno spende soldi per i rifugiati, e gli italiani ci trattano spesso in maniera ostile”.
Suleiman non è d’accordo: “Non si può generalizzare: come in Sudan, anche in Italia ci sono brave persone e cattive persone. Io ho conosciuto tanti bravi italiani, anche un poliziotto una volta sul treno ha chiuso un occhio quando mi ha trovato senza biglietto e senza documenti…”. Sarà, ma Abdullah non è convinto: “Appena possibile, io voglio tornare nel mio paese. Non mi passa proprio per la testa di restare qui. Non ho trovato niente di buono qui”. “E gli amici?”, interviene Gasim. “Sì, beh, gli amici, quelli sì…”. “Voi”, gli chiedo, “vi considerate tutti molto amici?”. Sì, annuiscono con decisione tutti e tre.
“Però”, insiste Abdullah, “qui fa freddo, e poi noi usciamo, lavoriamo, studiamo l’italiano, ma ci sono tante persone che non sono mai uscite da Tiburtina, che bevono troppo o se ne stanno tutto il giorno sdraiati a non fare niente”. Suleiman stavolta è d’accordo: “Sì, c’è uno nell’altro magazzino, quello piccolo, che è in Italia da cinque anni e non parla una parola di italiano. Sta tutto il giorno a pensare ai fatti suoi. Il rischio per noi è sempre quello: di pensare troppo. Io stesso mi maledico quando mi faccio prendere dalla pigrizia e rimango tutto il giorno nella mia stanza a pensare. Pensieri brutti, ricordi, che non mi fanno dormire”.

LA GUERRA NEL CUORE
Nella vasta spianata antistante il magazzino grande si sono accumulati rifiuti su rifiuti. L’Agenzia municipale ambiente del Comune di Roma ha promesso più volte di garantirne lo smaltimento, ma finora sembra siano venuti solo una volta. Analogamente è andata con i bagni chimici, che il IV Municipio della capitale dovrebbe far installare qui a Tiburtina. Finora, però, non si sono visti.
L’area in cui sorgono gli ex magazzini è cinta da un muro. Esco all’esterno attraverso la breccia che gli occupanti vi hanno aperto. Sopra c’è di nuovo la città, quella che tutti i romani conoscono, con le auto che sfrecciano lungo la circonvallazione Nomentana, lo smog, i rumori, le luci, le insegne e il 542, l’autobus che porta alla fermata della metropolitana di piazza Bologna, il cui percorso Abdullah, Hajoub, Mokhtar, Suleiman e Gasim conoscono a memoria. Sotto c’è l’enorme cantiere a cielo aperto di Tiburtina. Nell’oscurità si distinguono i vagoni e i binari scintillanti e, più in fondo, le sagome di alcuni edifici. Mentre lo guardo, mi rivengono in mente le parole che ho sentito dire ad Adam, un altro sudanese di Tiburtina: “Adesso io non posso guardare il bello e il brutto perché ancora sono dentro la guerra”.


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