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“Nella vita di ogni
giorno conservavamo ancora le abitudini e le usanze di un tempo – come
spogliarci per andare a letto, consumare insieme i pasti a tavola –
limitandoci ad aggiungere ad esse quelle nuove…Per fare l’esempio più
semplice, si rinunciava ai saluti convenzionali…: come stai? Che mi dici
di bello?...e ci servivamo invece di locuzioni del tipo: a T. c’è stata
un’azione, in città è tranquillo? Oppure: nel campo di Reckmann hanno
ammazzato due ragazzi. Dopodichè offrivamo agli ospiti tè fatto coi
petali delle rose del giardino…”
Siamo nella Polonia occupata dai nazisti, in quel tempo che “gli ingenui
erano soliti chiamare tempo di guerra”, ma che è qualcosa di più e di
diverso: un progetto di distruzione e ricostruzione dell’umanità su basi
del tutto nuove. Il progetto del trionfo di un popolo e di un’ideologia,
ritenuti salvifici, su tutti gli altri, come mai si era cercato di
realizzare nella storia, almeno in questi termini e con tale scientifica
sistemacità. Producendo un evento così traumatico, la Shoà, che spezzerà
per sempre il Tempo in un prima e un dopo. Fra un mondo che può ancora
vantare una seppur relativa innocenza e uno che quella ha perduto
irrimediabilmente.
Ingenui coloro che pensano la Shoà come un affare degli ebrei, affare
oltretutto sepolto di cui si tiene in vita artificialmente una memoria
abusata.
La Shoà ha spezzato la coscienza di tutti, rendendo ciascuno di noi
l’oggetto ingombrante, e quindi eliminabile, di una nuova risistemazione
mondiale, o l’artefice, più o meno consapevole, di tale operazione.
Ruoli entrambi estremamente difficili e ingombranti e proprio la storia
dell’Olocausto ci ha insegnato che a volte è del tutto casuale trovarsi
a interpretare l’uno o l’altro ruolo e quanto sia stata esigua la
schiera di coloro che a tale recita si sono sottratti. Tanto è che la
foresta ad essi dedicata occupa solo un piccolo lembo di quel
piccolissimo paese che si chiama Israele.
Shoà è un evento difficile da sistemare in una visione compiuta, cui
poter dare il respiro vasto e conchiuso del romanzo. Ha cercato di farlo
Primo Levi, ed in quel tentativo forse ha smarrito sé stesso. La
maggiore approssimazione possibile all’orrore ci è fornito, oggi, dai
diari di coloro che facevano parte dei sonderkommando, cioè di quei
prigionieri addetti alla preparazione delle vittime e poi allo
smaltimento dei cadaveri che ingombravano le camere a gas. Pezzi di
carta strappati chissà da dove e sepolti dentro scatole di latta e
vetro, trovati spesso nelle vicinanze dei forni crematori. Autentica
forma di epica contemporanea, dove il respiro delle vittime sembra
ancora alitare e lo stupore angoscioso, di fronte ad una morte
inimmaginabile, diffondersi dalle pagine. Questi Diari, editi dalla
Marsilio, sono a disposizione dei lettori nella Biblioteca Comunale di
Lugo.
Ida Fink, scrittrice israeliana di lingua polacca, con il libro di
racconti “Tracce”, scritto nel 1996, ma uscito in Italia solo nel 2003,
ha scelto invece il frammento, l’accenno, l’incompiuto, per raccontare
un evento cui ci si può accostare, ma non comprendere e possedere, senza
esserne inghiottiti.
Tracce della Tragedia che lei rintraccia appunto nei piccoli mutamenti
quotidiani, nelle abitudini che si trasformano, nel linguaggio che ha
bisogno d’inventare parole nuove, nelle biografie che procedono
attraverso percorsi inaspettati.
Dopo una retata, per esempio, la gente si interroga sulla destinazione
di quei vecchi e di quei malati che non si capisce a cosa possano
servire: “L’indomani filtrarono le prime notizie. Venivano dai
ferrovieri polacchi, parlavano di un treno di vagoni merci imbiancati di
calce spenta, e dissero il nome di una località: Belzec. Non l’avevamo
mai sentita nominare. Faceva venire in mente una popolare canzone che
cominciava con le parole: “Mia amata Belz,…”, ma risultò che si trattava
di due posti diversi”.
Anche la vita della gente diventa cosa del tutto diversa, imprevista,
anche se subito ci si adatta ad una sorte di orrore quotidiano. Perchè
tutto deve pure essere ricondotto ad una qualche ‘normalità’, se si
vuole garantire una almeno provvisoria sopravvivenza.
Così Sabina, donna sola che ha cresciuto la figlia nella casa dei
genitori, in una piccola cittadina polacca, cui improvvisamente viene a
mancare la vecchia madre: “Le sorelle di Vienna non vennero al funerale
della madre. A quel tempo pulivano, sotto il controllo della Gestapo, i
marciapiedi e le latrine della città dei teatri e dell’opera… Nelle
lettere scrivevano:<<Scappa, vai in Palestina. Ci ritroveremo
là>>…Quando scoppiò la guerra…entrarono i tedeschi e Sabine fu presa dal
panico e da un terrore impotente. Lei e la figlia sopravvissero alla
prima e alla seconda Aktion in un nascondiglio. Alla terza non
sopravvissero”.
O Julia, “andatura leggera, belle gambe” che nella persecuzione perde
entrambi i figli, poi il marito e una bambina sola che ha preso con sé:
“David morì due mesi dopo l’entrata dei tedeschi, fucilato in un bosco
dei paraggi. Julia andò nel bosco dopo la guerra…ritrovò il luogo
dell’esecuzione…I contadini le avevano fatto notare l’eccezionale
bellezza dell’erba in quel punto.
Qualche mese più tardi portarono via Tulek…rimasero due biglietti, che
riuscì a far uscire dal lager di Janow. Nel primo chiedeva un maglione
caldo, nel secondo del veleno”.
Unica sopravvissuta fra tutti coloro che ha amato, Julia imprime sul suo
passato il sigillo del silenzio. Approda in Israele alla vigilia della
Guerra dei sei giorni e allora, le minacce di ieri e quelle del presente
si fondono in un unico insostenibile dramma: “Carriarmati sulla sabbia
del Negev. Difficili giorni di attesa. Julia sgobbava sull’atlante,
respirava pesantemente. –Il ghetto- diceva –il ghetto prima dell’Aktion.
Salvate i bambini…
Voleva che sintonizzassero la radio sul Cairo e le traducessero i
comunicati emessi in lingua ebraica.
-Come fai a sapere che sono balle- si arrabbiava. –Anche allora nessuno
ci credeva…Guarda,- apriva l’atlante – da’ un’occhiata alla cartina.
Siamo una goccia, un puntino.."
In un’intervista rilasciata presso l’Istituto polacco a Roma, nel
novembre del 2002, Ida Fink spiega che le si rimprovera di scrivere
sottovoce, come se schiudesse una finestra e guardasse con un occhio
solo.
Ma è possibile accostarsi diversamente a quell’inesprimibile disastro
che ha macchiato indelebilmente il secolo appena concluso, disvelando il
vero volto delle ideologie: quello sanguinario, antiumano, che pur di
ridurre l’esistenza ad un ordine ritenuto ‘sacro’ è capace di
annullarla?
Ida Fink -
Tracce
- Giuntina
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