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Le
centinaia di immagini relative alle torture in Iraq dovrebbero
stimolare la nostra coscienza ad una profonda riflessione sul
valore della vita umana e su quanto la sua misura riesca a
costituire un elemento di condivisione culturale planetario.
Le centinaia di immagini relative alle torture, di cui militari
americani ed inglesi in Iraq, in tutta la catena gerarchica,
sono stati convinti protagonisti, dovrebbero stimolare la
nostra coscienza ad una profonda riflessione sul valore della
vita umana e su quanto la sua misura riesca a costituire un
elemento di condivisione culturale planetario, che trascenda
idee, ideologismi, religioni, ordodossie, integralismi o peggio
fanatismi.
L'immagine di una soldatessa che sorride in segno di vittoria,
accanto al volto di un cadavere, la cui morte è stata per di più
provocata dai bestiali pestaggi suoi e dei suoi commilitoni,
segna un solco difficilmente colmabile tra la cultura della
dignità umana e la cultura della morte.
Se da un lato ci risultava difficile credere che rappresentanze
militari potessero essere
latrici di messaggi di pace e fratellanza, tanto più in una
situazione convulsa e critica come quella irachena, dall'altro
riteniamo che scandalizzarsi oltre il dovuto, per questo
narcisistico edonismo militare da tortura, nasconda una buona
dose di ipocrisia.
Negli Stati Uniti, paese maggiormente coinvolto nel caso
torture, esiste ancora il triste rito della pena di morte,
puntualmente celebrato, in occasione di ogni esecuzione, da
gruppi di festanti cittadini nei pressi della camera della
morte. Lungi da noi l’idea di rozze generalizzazioni, è
innegabile che con quella pena di morte c’è chi ha solidificato
la propria carriera politica, confidando sul consenso da essa
suscitato e contrapponendosi senza esitazione a qualsiasi
appello della società civile, finanche a quelli del Papa.
Non stiamo parlando di pseudo-stati africani o del sud America,
per i cui cittadini, abbandonati al proprio destino, la
sopravvivenza si basa spesso sulla reciproca sopraffazione
dell’uomo sull’uomo né parliamo di regimi totalitari, la cui
sussistenza si fonda su un sapiente miscuglio di rigore e
terrore.
Stiamo parlando di cosiddette "democrazie compiute".
Su questa latente micro-cultura della morte, sapientemente
gestita alimentando, come
nel caso sopra citato, il meschino istinto della vendetta, si
sorregge, a nostro avviso, la macro-cultura di certe teorie
neo-conservatrici e guerrafondaie. Tali teorie non si curano del
particolare (la vita umana), ma mirano dritte all'obiettivo, con
la delicatezza di un elefante in un negozio di cristalli.
Parliamo della cultura della cinica convenienza, per la quale un
dittatore sanguinario un giorno è un fedele alleato, anche
quando elimina fisicamente milioni di cittadini, un altro
diventa un perfido criminale. E' nello specifico quella cultura
da far-west, per la quale le convenzioni di Ginevra sul diritto
umanitario rappresentano un superfluo barocchismo da ignorare,
per chi ritiene di esser l'unico a possedere il divino potere e
dovere di muovere i pezzi sulla scacchiera del mondo.
Sulla base dello stesso atteggiamento culturale, la resistenza
civile di intere popolazioni viene spesso romanzescamente
definita "terrorismo internazionale", senza
voler tener conto che il terrorismo rappresenta il più delle
volte l’estrema folle degenerazione di situazioni incancrenite
su sofferenze e prevaricazioni, per le quali non si è voluta
cercare, con un minimo di determinazione, alcuna soluzione
tramite la
via politica.
Con l’arma di persuasione della "lotta al terrorismo", si
giustificano dunque più facilmente le peggiori nefandezze:
bombardamenti (possibilmente all’uranio impoverito) di civili
inermi, uccisioni mirate, stragi e violenze, utilizzo di scudi
umani,
torture "preventive". Questa storia dell’anti-terrorismo è il
meschino filo conduttore che lega i morti di Sabra e Chatila a
quelli della guerra irachena, i morti della Cecenia a quelli
della striscia di Gaza.
Ci ferisce ancor più l’animo assistere impotenti
all'inarrestabile e sprezzante perseguimento della politica
della morte, perfino da parte di un popolo, anch’esso
rappresentato da una democrazia compiuta, che ha nei propri
padri la testimonianza di uno dei più orrendi genocidi che la
storia ricordi: è nel rispetto di quei padri e di quella
tragedia, che si dovrebbe trovare il coraggio e la fierezza di
seguire nuove strade, condotte dalla ragione e lastricate dal
verbo del dialogo.
Non c’è dubbio che, per far fronte a questa terribile cultura
della morte-che-chiama-morte, l’unica via oggi possibile è
continuare a sostenere un’Europa più unita e più pacifista, che
possa rappresentare un tentativo di ragione, pace e dialogo; un
argine a certe preoccupanti degenerazioni che tanto accomunano
gli uomini a bestie dissennate; una mano tesa a chi, in quelle
democrazie della morte, invoca da tempo il cambiamento.
Le elezioni del prossimo Giugno sono un’occasione irrinunciabile
per far sentire la propria voce.
Editoriale
dell'Associazione
Peacelink, 23 maggio 2004
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