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Una fune
sull'abisso
di
Vincenzo Andraous |
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Inutile
nasconderlo, la prigione non riesce a piegarsi a nessuno scopo
sociale condivisibile, essa sequestra i bisogni-desideri, e
stabilisce quando questi debbono essere soddisfatti, persino
decidendo quando e dove sarà possibile realizzarli.
E’ in questa dinamica che la mente finisce in un anfratto
remoto, in un angolo dove non è più possibile vedere niente.
Penso che fino a quando non si comprenderà che in carcere si va
perché puniti e non per essere puniti, questa non dimensione
spingerà il detenuto privato della libertà a sedersi a tavola
con la morte, decidendo di guardarla in faccia e sfidarla. Senza
però tenere in considerazione che la morte quasi sempre vince.
E’ una prova questa, che indica la paura del potere della morte,
ma ugualmente il carcere continua a rimanere un luogo non
autorizzato a fare nascere vita né speranza, non rammentando che
l’uomo privato della speranza è un uomo già morto.
Momento dopo momento, giorno dopo giorno, anno dopo anno, in
compagnia del solo passato che ricompone la sua trama, e
passato, presente e futuro sono lì, in un presente che è attimo
dove non esiste futuro, e allora riconoscere i propri errori è
un’impresa ardua.
Le analisi sistematiche a questo punto servono poco, per rendere
più umano l’inumano: dalla mia ridotta specola sono più propenso
a credere che occorre convincersi dal di dentro, della
possibilità di raggiungere dei traguardi e degli obiettivi, per
ritornare a volersi un po’ bene, per riuscire a essere persone e
non solo numeri usati per la statistica.
Finchè i ragionamenti saranno un’estensione degli atteggiamenti
negativi, le rappresentazioni mentali si trasformeranno in
eventi negativi.
Il carcere è ancora, ancora e ancora quello che ben sappiamo, ma
chi vive in quest’agglomerato umano ha il diritto-dovere di
ritrovare fiducia in se stesso e negli altri, e ci riuscirà
solamente comprendendo che l’intorno non parla, perché noi non
parliamo, e peggio non siamo capaci di aprirci.
Eppure gli altri sono i mille pezzi che a noi mancano, che a noi
sono sempre mancati, e finché noi continueremo a pensare di
sopravvivere senza il bisogno dell’altro, nel lungo tempo ci
ritornerà questo annichilimento con la stessa intensità e
precisione.
Ciò che noi diventeremo è ciò che ci siamo incisi nella mente,
l’immagine di noi stessi che ci siamo costruiti si riprodurrà
con un fatto concreto.
Ecco perché sono dell’idea che finché il carcere, ma meglio dire
tutto il consorzio sociale, non si attiverà consapevolmente con
il suo interessamento produttivo e non pietistico, e non si
predisporrà ad aiutare chi è nell’errore a ritenersi capace di
essere in costante e continuo miglioramento, ebbene, questa
indifferenza e questo disinteresse collettivo continuerà a
seppellire quei “dettagli” che invece servono per migliorarci
tutti.
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