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Voi, miei coetanei, che avete visto le nostre città distrutte da
una guerra ormai lontana nel tempo (ma come vicina, in certi
sogni, all'improvviso), e cono-scete l'odore acre delle macerie,
l'atroce insensatezza di un muro su cui stava ancora appesa una
fotografia in cornice, lassù dove non potevate più salire; e
voi, anziani e meno anziani, che avete lavorato e lavorato per
avere una casa vostra e, per comprarla, avete detto di no, a
molti piaceri, sembrandovi che soltanto una casa vostra potesse
dare a voi e ai vostri figli sicurezza e serenità; e voi,
giovani che sognate di avere la vostra casa e qualcuno di voi va
persino a visitare un cantiere dove tutto gli sembra muoversi
troppo lentamente per la sua fretta; tutti voi che sentite che
un'abitazione è fatta di mattoni e di calce ma anche di sogni e
di passato, di parole e risate e baci e di futuro, arrestatevi
un istante, vi prego, davanti alla Philadelphia Road di Rafah,
Gaza Strip, tre ore di volo da noi. Questa nuova strada, dal bel
nome che significa "amor di fratelli" la stanno creando i
bulldozers di Sharon per spianare una "zona militare" verso il
confine egiziano. I filmati che la RAI avaramente ci trasmette,
assieme ai gelidi commenti di un giornalista scelto, con ogni
evidenza, per il suo tetro odio per i palestinesi, mostrano
povera gente che fugge da quelle povere case in pericolo,
portando con sé un materasso, un televisore, talvolta - ancor
più pateticamente - un armadietto a specchio, un grande animale
di pelouche. Così carica dei suoi poveri tesori, la gente della
Philadelphia Road va a cercarsi, per la quarta o quinta volta
nel corso di una generazione, un precario rifugio. Le hanno dato
dieci minuti di tempo per andarsene per sempre dalla sua casa.
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Conosco le abitazioni che gli israeliani stanno demolendo. Sono
case povere ma non misere. c'è sempre un divano, un tappeto, una
mensola con un servizio da the dalle tazzine variopinte. Se
nella famiglia c'è un ragazzo, alle pareti sono attaccati i
poster di qualche squadra di calcio, di qualche cantante - e,
sempre, c'è un panorama di Gerusalemme la Santa Sono case in
tutto simili agli appartamentini dei nostri meridionali saliti
al Nord negli anni '50 e che nelle nuove città ricevevano il
cronista in un salottino dai mobili avvolti nel cellophane. Se
gli avessero detto che quel salottino, pagato ancora a fameliche
rate, o le pareti adorne di quadretti di pittori della domenica
avrebbero dovuto essere distrutti, che loro avrebbero dovuto
andarsene entro dieci minuti, quegli uomini avrebbero impugnato
un coltello o una pistola Io penso che sarei stato con loro.
La storia dei palestinesi, dal 1948 sino ad oggi, è storia di
case da cui se ne sono dovuti andare. Nei campi-profughi
libanesi, ogni tanto, celebrandosi una Giornata della Memoria,.
le famiglie appendevano a una parete di qualche centro sociale
le chiavi portate con sé nell'esilio: quelle chiavi, che un
tempo avevano aperto spazi di fresco o di tepore, di piantine in
piccoli vasi o di ombrosi giardini, di sorrisi di donne e di
chiasso di bambini, erano adesso segni di diritti crudelmente
violati, di rapine di Stato, di destini personali e comunitari
massacrati, in nome di governi che si considerano eletti da Dio
e dunque legittimi prevaricatori di sotto-uomini.
Migliaia di case palestinesi dovettero essere abbandonate negli
anni '40: alcune furono dinamitate dai terroristi sionisti per
ampliare lo spazio del dominio israeliano, altre semplicemente
(che vuol dire: con minacce e paure) passarono di proprietà, da
un palestinese a un eletto. Poi, man mano che le rovinose,
stoltissime guerre tentate dagli arabi venivano vinte dagli
arsenali americani e dal valore militare dei discendenti
dell'inerme popolo della Shoah, altre migliaia di case furono
abbandonate da palestinesi, costretti da una nuova povertà a
emigrare nei paesi arabi o in America Latina. Infine vennero le
due intifada, e la repressione israeliana, feroce nel suo
estendersi non solo agli uomini ma anche ai rifugi degli uomini.
Secondo una spietata legge militare, bastava che un ragazzo
tirasse una pietra contro un soldato e che qualcuno credesse di
averlo identificato perché gli occupanti sequestrassero una o
più stanze dell'abitazione del supposto reo. Sbarrata la porta
di quella stanza con una lamiera, i soldati la dichiaravano
"zona militare" e di quando in quando venivano a controllarne i
sigilli. Le casalinghe nascondevano quelle lamiere con qualche
tenda: ma vi erano talvolta giovani che glielo impedivano,
bisognava vedere ogni giorno quella cicatrice di metallo, per
non dimenticare.
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Tuttavia nei casi più gravi (quelli che "loro" consideravano più
gravi) la sanzione era ben più terribile: un bull-dozer D-9
veniva chiamato a risolvere ogni problema giuridico e militare:
in pochi istanti, il tetto di cemento della casa palestinese
crollava, trascinando con sé i muri. Non si sentiva un grande
rumore, le case palestinesi non sono le villette-bunker dei
"coloni" sionisti, hanno poveri muri, sottili; e il ruggito
della macchina veniva coperto dal pianto dei bambini e dalle
urla delle donne. Dalla prima intifada ad oggi più di 4mila case
sono state demolite dall'esercito israeliano, per punizione o
per "motivi militari" In questi giorni, nella Strisica, 1500
persone hanno visto distruggere la propria dimora; secondo
alcuni dovrebbero, nei prossimi giorni, diventare dieci volte
tanto - e forse più. Grande è l'indignazione dei sionisti quando
si dice loro che operazioni del genere sono di stampo nazista.
Gridano che questo significa calpestare la memoria dei martiri
della Shoah. Quanti orrori nascondono da cinquant'anni i
governanti israeliani dietro quelle povere, sacre ombre,
indimenticabili.
Quando la nuvola di polvere del crollo si dilegua si vedono le
lastre di cemento del tetto inclinate sui ruderi come grandi
vele bianche che non si gonfiano più di vento. I campi profughi
della Palestina sono fitti di questi monumenti alla vergogna
della repressione. Subito gli abitanti della casa che non c'è
più cominciano a frugare fra le macerie, alla ricerca di qualche
oggetto che non hanno fatto in tempo a salvare. Talvolta la
ricerca è più affannosa: accade che un ufficiale (o il
trattorista) abbia fretta o sia troppo nervoso e allora il
crollo travolge qualche anziano o paralitico che non ha udito
l'ordine di sgombero o non è riuscito a muoversi abbastanza
velocemente. E' anche accaduto che il manovratore della ruspa,
affaticato da tanto lavoro, si sia distratto, non abbia sentito
gridare e le ganasce del suo mostro di metallo abbiano divorato
una giovane donna. Si chiamava Rachel Corrie, aveva 23 anni, era
americana, cercava di opporsi alla demolizione di una casa.
Molti palestinesi la conoscevano. Sognava di poter convincere i
bambini che vi erano regioni del mondo in cui certe cose non
accadevano. Sarebbe stato così anche nella vostra terra, ve lo
prometto. I bambini stavano a sentirla, poi voltavano il capo,
non volendo dirle che era una bugiarda. "Lo vedi? Lo vedi?"
chiesero silenziosamente quel giorno al suo cadavere dilaniato.
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La Striscia di Gaza misura 374 chilometri quadrati. Su un quarto
di questa superficie sono installati 21 insediamenti
israeliani,(8 mila persone). Sul resto si accalcano più di un
milione e mezzo di palestinesi. La densità della popolazione
palestinese, nella Striscia, è superiore a quella di Hong Kong,
ma la diversità con la metropoli cinese sta in alcune
semplicissime realtà, dirette conseguenze dell'occupazione : il
75% dei palestinesi vive sotto la soglia della povertà; l'acqua
per loro è razionata mentre i coloni ne fanno libero uso; a Gaza
non si può arrivare dal mare, non in aereo; per giungervi in
auto da Israele o dai territori occupati essendo palestinesi (e
dunque non potendo usufruire delle strade apartheid dei
colo-ni)bisogna superare (quando si può: raramente) una serie
quasi infinita di posti di blocco. La Striscia è un grande
carcere di disperati.
Sparare cannonate in una zona in cui la densità della
popolazione è così alta è certamente un crimine di guerra: lo ha
detto il Consiglio di Sicurezza, l'altro giorno. Gli Stati
Uniti, questa volta, non hanno esercitato il loro diritto di
veto. Tanto si sa bene cosa facciano i governanti israeliani dei
documenti dell'ONU; li gettano - ha detto un loro portavoce
ufficiale - nella "pattumiera della storia". Questa volta
gettano con quella spazzatura più di 40 morti e un'ottantina di
feriti.
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Ha scritto l'israeliana Nurid Peled, Premio Sackarov del
parlamento europeo per la libertà di pensiero: "In questo
inferno non restiamo che noi, le vittime delle due parti che
cercano di arrestare questa follia. Noi siamo i soli che cercano
di salvare questi bambini dalla loro terribile sorte di
carnefici e vittime, che cercano di spiegare ai giovani
israeliani idealisti che servire il loro Paese non vuol dire
obbedire come dei robot agli ordini mortiferi, che cercano di
convincere i bambini palestinesi che il loro popolo ha bisogno
di loro vivi e non morti. Noi siamo i soli a gridare alle
orecchie del mondo intero che per i nostri bambini morti non c’è
differenza tra ciò che il mondo chiama terrorismo e ciò che
chiama guerra contro il terrorismo. Per la mia piccola figlia
che è morta a Gerusalemme perché era israeliana e per i piccoli
bambini che muoiono a Gaza e a Jenine e a Ramallah perché sono
palestinesi, questa differenza non esiste più. Perché l’uno e
l’altro, il terrore e il contro-terrore, significano la morte
impietosa dii innocenti. Perché, in realtà, non esistono delle
uccisioni civilizzate di innocenti e delle uccisioni barbare di
innocenti. Non esiste che l’uccisione criminale degli innocenti"
Ha scritto ancora Nurid Peled: "Io invito tutti i genitori del
mondo a riunirsi in questa collettività le cui fondamenta sono
la paternità e la maternità, ad alzare la loro voce sino a
coprire le altre voci che dominano il mondo: quelle dei politici
corrotti e megalomani, dei generali crudeli, dei businessmen
senza scrupoli che conducono il mondo intero alla sua perdita".
Dopo sessant'anni di martirio del popolo palestinese io credo
(spero) che le parole di questa madre ci stanino dal nostro
senso di impotenza, dalla nostra paralisi etica che paralizza la
storia.
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Non è vero, infatti, che non possiamo far niente. Ci sono almeno
due cose che possiamo fare - e dunque dobbiamo. La prima è una
solidarietà operante nei confronti delle vittime. Molti,
moltissimi mass-media sono nelle mani di filo-israeliani, a
cominciare dalla RAI. Dobbiamo essere capaci di perforarne il
muro di silenzi, di raggiungere e - non solo con le nostre
orecchie ma anche con la generosità di aiuti a chi viene gettato
in miseria - le voci delle vittime e quelle dei costruttori di
pace. I compiacenti reportages filosionisti nascondono
invariabilmente le sofferenze dei palestinesi ma nascondono
anche lo straordinario coraggio dei refuznik, i soldati
israeliani e le soldatesse israeliane che pongono, a costo del
carcere o addirittura dell'esilio, l'obiezione di coscienza agli
ordini criminali di Sharon e della sua tribù militare. Sono
ormai centinaia e aumentano di numero. E aumentano di numero i
pacifisti israeliani: duecentomila persone hanno gridato, dieci
giorni fa, a Tel Aviv la loro volontà di pace. Pochi secondi nei
telegiornali italiani, ma è stata la maggiore mani-festazione
degli ultimi dieci anni. La gente innalzava grandi cartelli con
scritte che rivelavano un dibattito politico approfondito. Ne
ricordo due (che naturalmente la televisione di Berlusconi e di
Mimum non ha mostrato) particolarmente significativi. Il primo
diceva. "Gli insediamenti dei coloni uccidono i nostri bambini",
identificando chiaramente le responsabilità del fondamentalismo
sionista, il secondo proclamava: "L'occupazione sta distruggendo
la fibra morale di Israele".
Raccogliere queste voci, trasmetterle alle persone di buona
volontà che ci vivono accanto ma credono di non doversi occupare
di politica, svelare la grandezza di chi si rifiuta di cedere
alla logica della violenza, rendere, con la nostra generosità,
un po' meno tragica la miseria in cui l'esercito israeliano sta
gettando la popolazione palestinese, questo è il primo aiuto che
noi possiamo dare alla pace nel Medio Oriente.
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C'è un secondo aiuto, di straordinaria importanza e, se
vogliamo, possiamo fornirlo proprio nei prossimi giorni. Le
difficoltà elettorali di Bush accrescono le difficoltà di Sharon
non meno della bocciatura del suo piano da parte del Likud e
dello scandalo finanziario in cui è coinvolto. A Sharon, e a
qualunque suo successore, non basta più il patrocinio della Casa
Bianca L'Europa assume per loro una nuova importanza: non
possono più limitarsi a inon-darla di pompelmi e di insulti per
"antisemitismo".
Sembra a me (ma, come so, a moltissimi altri) che nel bene e nel
male l'Europa sia stata negli ultimi anni straordinariamente
debole nei confronti dei governi israeliani, abbia troppo spesso
abbassato gli occhi davanti allo spettacolo della proterva
negazione di tutte e convenzioni internazionali e del suo
incrudelirsi sulle masse palestinesi. L'Europa può essere, al
contrario, una travolgente forza di pace nella giustizia per due
popoli coinvolti. in una tragedia che corrode e corrompe la
nostra storia.
Perché ciò avvenga è necessario mandare al Parlamento europeo
deputati che sentano profondamente la necessità di un forte
impegno politico. Sì, lo so bene: vi sono questioni italiane da
tenere presenti anche votando per Strasburgo. Tuttavia io
ricordo che Bonhoeffer diceva che non si poteva cantare il
gregoriano se non si gridava per gli ebrei; e mi vien fatto di
pensare che oggi quelle parole si possano leggere così: che non
si può compiere il rito delle scelte democratiche senza
occuparsi di un popolo mediterraneo al quale queste scelte sono
radicalmente negate. Che pensano della Palestina gli uomini e le
donne che xi propongono di rappresentarci? Sarà il loro
comportamento nei confronti della pace con giustizia a definire,
al di là delle parole, la vera e unica costituzione europea.
Presentiamo, dunque, la domanda, preoccupiamoci della risposta.
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Sono dieci anni, care amiche e amici che vi scrivo questa
LETTERA, aggredendovi (ma spero che non sia la parola esatta)
con le mie idee e i miei sentimenti. Permettetemi allora, questa
volta, di fare una dichiarazione di voto, nella speranza che voi
la condividiate. Voterò, nella lista di Rifondazione, Luisa
Morgantini, candidata per il Centro Italia (Tosca-na, Lazio,
Marche, Umbria e Isole). So con certezza che nessuno dei
parlamentari uscenti ha fatto tanto per la Palestina e per tutti
gli altri Paesi travolti dalle tragedie della storia, dal
Nicaragua all'Afghanistan; nessuno ha con tanta accuratezza
informato elettrici ed elettori del suo lavoro e delle
situazioni da lei studiate e viste con i suoi occhi, con
coraggio e lucidità, capacità e sensibilità politiche.
Ha scritto Nurid Peled: "Luisa è il nome più amato nei Territori
Occupati Palestinesi e dagli israeliani che cercano di vivere in
pace e alla ricerca di un aiuto dal mondo esterno per attuarlo.
L'abbraccio di Luisa ai pacifisti israeliani, ai refusniks e
alle persone come me che si sentono traditi e schiacciati dal
proprio paese è un immenso sollievo. Luisa è l'unica figura
pubblica che conosco che usa le proprie prerogative per fare
meglio quello che avrebbe fatto comunque come privata cittadina
aiutando i poveri, gli indigenti, gli oppressi e le vittime di
tortura. (…) La sua conoscenza e il suo coinvolgimento con
qualunque cosa accada in Israele e Palestina, in Iraq e
Afghanistan è sorprendente e l’insistenza delle sue visite, a
dispetto delle minacce subite e delle espulsioni, è ammirabile".
Naturalmente se dovessi votare nel Nord Est voterei Raniero La
Valle; e poiché penso che anche gli enti locali possano fare
molto per la pace, se dovessi votare in qualche comune, voterei
a Padova il mio fraterno amico Elvio Beraldin, che si occupa di
Palestina e di pace da più di vent'anni, mentre a Bologna
sceglierei Silvia Montevecchi, coraggiosa testimone di pacifismo
militante. Sono candidati ambedue nelle liste dei Democratici di
Sinistra.
21 maggio 2004
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