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Questa frase,
pronunciata da Lenin tanto tempo fa, appare superata ai nostri giorni,
ma… Ne siamo davvero sicuri?
Nel passato è risultata indubbiamente vera: le donne si trovavano in una
condizione di sottomissione e di sfruttamento nei confronti degli
uomini; erano escluse dalle principali attività lavorative, relegate tra
le mura domestiche, intente a far prole, a lavare, cucinare, prive di
indipendenza economica, strumento di piacere, modello di pazienza e
rassegnazione.
Certo, oggi le donne sono inserite in ogni campo della vita
politico-sociale e qualche uomo ne denuncia addirittura l’aggressività,
l’intraprendenza, cadendo in ansie da prestazione e gelosie
carrieristiche. Ma le cose, a ben vedere, non sono molto cambiate, prima
di tutto a livello geografico-culturale: la donna emancipata la troviamo
soltanto nella parte più piccola del pianeta, quella tecnologicamente
avanzata, nell’occidente ricco e indifferente, che, almeno a parole, ha
superato pregiudizi e discriminazioni; nel resto del mondo le donne
soggiacciono a condizioni spaventose di arretratezza, lavoro,
sfruttamento, mutilazioni, in nome spesso di imposizioni religiose e
tribali, difficili da estirpare. Ma anche nella nostra società, le
differenze di genere condizionano ancora mentalità, accesso alle
professioni, educazione. Quest’ultimo aspetto mi sta particolarmente a
cuore: checché se ne dica, in Italia soprattutto, vige ancora il detto “Auguri
e figli maschi”, per augurare prosperità, prestigio e continuità del
nome ad una famiglia. In molti contesti le bambine ricevono ancora
un’educazione diversa dai maschietti, non perché presentano
semplicemente attitudini diverse, ma proprio in quanto femmine, legate
al loro ruolo sessuale. Elena Gianini Belotti, nel fortunato e
secondo me ancora attuale libro “Dalla parte delle bambine”
scrive: “Nessuno può dire quante energie, quante qualità vadano
distrutte nel processo di immissione forzata dei bambini di ambo i sessi
negli schemi maschile-femminile così come sono concepiti nella nostra
cultura, nessuno ci saprà mai dire che cosa sarebbe potuta diventare una
bambina se non avesse trovato sul cammino del suo sviluppo tanti
insormontabili ostacoli posti lì esclusivamente a causa del suo sesso.”
Qualcuno dice che gli ostacoli non ci sono più, eppure io vedo che è
molto più frequente che sia la donna a rinunciare allo sviluppo delle
sue potenzialità, piuttosto che l’uomo, il cui “primo” pensiero non è
quello di conciliare lavoro e paternità, carriera ed esigenze familiari.
Ci sono le eccezioni, uomini disponibili, altri che si limitano a
concedere qualcosina del loro prezioso tempo alle cure domestiche, ma di
norma il problema della conciliazione lavoro – figli grava ancora tutto
sulla donna, creandole stress e disagi a livello fisico e soprattutto
psicologico: la persona di sesso femminile tende a vivere “con senso
di colpa ogni suo tentativo di inserirsi nel mondo produttivo, a
sentirsi fallita come donna se vi aderisce e a sentirsi fallita come
individuo se invece sceglie di realizzarsi come donna”. Credo che
solo un’altra donna possa comprendere i sensi di colpa che attanagliano
le mamme, costrette a lasciare a destra e sinistra i loro figli, solo
per poter lavorare… La società non aiuta. Attualmente si preferisce la
carità demagogica e fascistoide dei mille euro una tantum al secondo
figlio, piuttosto che una stabile e duratura politica di investimenti in
infrastrutture e servizi per la maternità e l’infanzia.
Perché oggi l’educazione non venga più impartita in base alle differenze
sessuali, spetta, paradossalmente, proprio alle donne, perché ad esse è
affidata per lo più l'educazione dei bambini sia nella famiglia che
nella scuola: l’operazione da compiere "non è quella di tentare di
formare le bambine ad immagine e somiglianza dei maschi, ma di
restituire ad ogni individuo che nasce la possibilità di svilupparsi nel
modo che gli è più congeniale, indipendentemente dal sesso cui
appartiene".
Non so se ridere o piangere a commento della notizia, secondo la quale
l'amministrazione Bush avrebbe rivisitato i regolamenti
scolastici capovolgendo tre decenni di consolidate politiche
sull´istruzione e aprendo la strada alla creazione di istituti di
istruzione pubblici solo per maschi o solo per ragazze a spese del
contribuente…
Si potrebbe cominciare a pensare fin da ora non all'abolizione della,
per molti versi dicutibile e discussa, festa della donna, ma ad un suo
cambiamento di nome, che sarebbe anche di sostanza. Preferirei che si
parlasse semplicemente di "giornata della donna", vissuta come occasione
per definire strategie e obiettivi, in vista non dell’uguaglianza
assoluta, che non esiste, ma di una reale uguaglianza nelle prospettive,
nella libertà, nelle tanto decantate opportunità.
Pubblicato in
La
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