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“-Come si fa per
partire?-
Beilinson lo squadrò con insofferenza, bisognava essere russi e aver
visto i pogrom per dedicarsi a quell’impresa…:
-Prima di partire-disse-bisogna imparare l’ebraico, altrimenti con i
compagni di lavoro non c’è neanche la lingua comune con cui capirsi…
-Parlo correntemente l’inglese, il francese e il tedesco- lo interruppe
il giovane, per niente intimidito.
-…e poi bisogna allenarsi in campi di lavoro-continuò Beilinson…-imparare
almeno i rudimenti dell’agricoltura…
…Beilinson prese fra le sue le mani del giovane, le rivoltò perché le
palme fossero visibili: qualche traccia d’inchiostro, pelle liscia e
tenera come quella di un neonato.
-Con mani così non si sopravvive quindici giorni, in Palestina-disse…
-Avrò calli alle mani- promise -quando m’imbarcherò per la Palestina…Io
partirò. È deciso.”
Moshè Beilinson era un ebreo-russo, che negli anni 20, assieme a Dante
Lattes, aveva fondato in Italia un movimento sionista ‘Avodà’, cioè
lavoro, che auspicava la rinascita del popolo ebraico in una nuova
Israele ( Erez Iszrael) dove sarebbe stata realizzata, finalmente, una
società più giusta per un popolo che da millenni aveva conosciuto
umiliazioni e persecuzioni.
Il ragazzo che lo avvicina nel brano riportato sopra è un giovanissimo
Enzo Sereni, non ancora ventenne. Così viene immaginato, o ricostruito,
il primo incontro fra i due nel bellissimo romanzo ‘Il gioco dei regni’
di Clara Sereni, figlia di Emilio, fratello di Enzo.
Nato a Roma nel 1905, questi veniva da una importante famiglia dell’alta
borghesia ebraica. Quella borghesia che, dopo l’unificazione e la
proclamazione del regno d’Italia, si sentiva pienamente inserita nella
nuova realtà politica e sociale, e viveva l’illusione di una completa
assimilazione, che praticava un ebraismo tutto formale e che aveva fatto
propria l’identità italiana. Un altro fratello di Enzo, Enrico, era
partito volontario, giovanissimo, nella Prima guerra mondiale. Suo padre
Samuele era medico di casa Savoia.
Enzo si laurea in Filosofia con Ernesto Buonaiuti, scrive articoli su
riviste specializzate, gli si apre la possibilità della carriera
universitaria. Ma i suoi progetti sono diversi.
Instancabile attivista e animatore di ‘Avodà’, all’inizio del 1927,
assieme alla moglie Ada, che condivideva i suoi ideali, e a alla figlia
di pochi mesi, emigrò in Palestina, dove lo attendevano un paese arido e
arretrato e la vita durissima del kaluzim (pioniere).
Lui e la moglie avevano ventidue anni, e i ventotto ragazzi che li
avevano seguiti, ancora meno.
Su un colle circondato da villaggi arabi, costruirono una baracca di
legno e vi piantarono attorno cinque tende. Un fazzoletto di sassi e
pietre che solo col tempo si trasformerà in un centro fiorente di
produzione di conserve alimentari.
Alla nuova comunità viene dato il nome di ‘Chivat Brenner’, collina
Brenner.
“Enzo si alza in piedi: è il segretario del kibbutz, dichiara aperta
l’assemblea generale. Si parla dell’unico punto all’ordine del giorno.
Una discussione breve…poi il voto…Enzo è in piedi, ben diritto, come
Alfonsa gli ha insegnato da bambino. Anche tutti gli altri si alzano…:
-Il nome che il nostro kibbutz si è dato è Chivat Brenner- proclama Enzo
e nella voce c’è una incrinatura di commozione. In tante lingue diverse,
prima sommesso e poi via via più forte si alza un canto,
l’Internazionale: ci si abbraccia e le lacrime a molti inumidiscono gli
occhi. Enzo, per la felicità, non riesce a star fermo…È il 15 febbraio
1930: e il mondo tutto gli sembra a portata di mano.” (da “Il gioco dei
regni”.)
All’inizio il lavoro è duro e i mezzi scarsi, l’esistenza quotidiana
piena di disagi. Solo dopo cinque anni si iniziò a passare dalle tende
alle baracche, poi successivamente alle case.
“Dalla Palestina Enzo scrive lettere entusiaste, disordinate perché
strappate al sonno: malgrado la preparazione e la volontà, la vita del
manovale è dura per la sua schiena e per le mani….Per tutti quelli che
sanno di lui è già ‘l’emissario’, colui che porterà in Palestina le
caratteristiche…degli ebrei italiani.”(Ibid.)
Dal 1931 Enzo Sereni inizia una serie di missioni all’estero per
raccogliere fondi, convincere gli ebrei d’Europa all’emigrazione in
Palestina, poi, con l’avvento del nazismo, prestare soccorso a quanti si
disponevano alla partenza. Fu negli Stati Uniti, in Italia, molte volte
in Germania, dove, nel 1934 e nel 1936 riuscì a salvare diverse comunità
e a fare in modo che i loro beni non venissero interamente sequestrati,
come sempre accadeva a coloro che si decidevano a lasciate il paese.
La promulgazione delle leggi razziali in Italia, nel 1938, lo amareggiò
profondamente, per il caldo legame che conservava con la sua terra
d’origine. Una nuova ondata di profughi italiani fu accolta a Chivat
Brenner e nuove energie affluirono nella comunità.
Benché fosse generalmente contrario alle guerre, si arruolò volontario
per combattere, assieme agli inglesi, il pericolo nazista. Fu in
missione in Egitto a contattare i prigionieri di guerra italiani e a
fare propaganda. Arrestato dalla polizia egiziana per il doppio
passaporto, italiano e inglese, venne liberato dopo dieci giorni di
sciopero della fame.
Propose allora al comando inglese un progetto molto rischioso di cui si
dichiarò pronto ad assumere la direzione: paracadutarsi oltre le linee
nemiche per portare soccorso alla resistenza e cercare di mettere in
salvo quanti più ebrei possibile.
La risposta tardò ad arrivare e nel frattempo si portò in Irak, paese
musulmano nel quale era appena stato compiuto un pogrom antiebraico.
“…Vi creò clandestinamente, riunendo i giovani nelle cave e sui tetti,
il movimento “Hechaluz”…E andarono, attraverso il deserto, gli ebrei
dell’Irak a costruire in Erez Israel…” scrive Gina Formaggini, nel suo
saggio sugli ebrei italiani.
Finalmente arriva il consenso inglese al suo progetto e a quasi 40 anni
Enzo Serenasi ritrova, nell’Italia meridionale armai liberata, ad
addestrare un piccolo gruppo di paracadutisti. Lui stesso parte in
missione la mattina del 15 giugno 1944. La giornata non è delle
migliori, la visibilità è scarsa. Spiata? Fatalità? Succede che Sereni
cade nei pressi di una postazione tedesca. Indossa la divisa
palestinese, avendo rifiutato quella inglese o americana. Riconosciuto
come ebreo il suo destino è segnato.
Nel carcere di Verona, poi nel campo di Gries vicino a Bolzano, viene
più volte torturato. L’8 ottobre, caricato assieme ad altri prigionieri
su un carro bestiame, è deportato a Dachau. Diventa il numero 113.160.
Da Dachau passa a Muehldorf, un campo più piccolo.
Ma per lungo tempo i familiari non ne sapranno più nulla. La moglie Ada
intraprenderà a sua volta una intensissima attività a favore
dell’immigrazione clandestina di ebrei profughi in Israele, in lotta
contro il blocco operato dalle autorità inglesi. A guerra finita è
subito in Italia, per cercare notizie di Enzo. Ha contatti con uomini
politici influenti, fra cui Pietro Nenni e Giuseppe Romita, che le
offriranno piena collaborazione in operazioni di rimpatrio.
Ricostruisce nel frattempo il destino del marito: un sacerdote di Cuneo
lo aveva incontrato a Dachau e ne aveva ricevuto un libretto di poesie,
poi andato perso. Apprendendo del trasferimento a Muhldorf, per un
attimo torna qualche speranza. Che cade quando, nell’archivio di Dachau,
conservato intatto a Monaco, si ritrova una scheda con la data della sua
morte: era stato assassinato il 18 vonembre 1944.
Così la nipote Clara ne ricostruisce gli ultimi istanti:
“La notte del 17 novembre due SS entrano nella baracca, uno dei due
urla:
-Capitano Barda!
Quando gli dicono del trasferimento sta per prendere la coperta e i
minimi effetti personali. Gli dicono: -La coperta no.
Il giorno dopo, con mirabile zelo burocratico, l’impiegato dell’ufficio
matricola di Dachau prese il fascicolo del capitano Shmuel Barda e vi
inserì un’informazione brevissima: <<Verstorben 18. Nov.1944>>
Chivat Brenner è stata successivamente rinominata Sereni e a Modün, in
Israele, nel 1964, una foresta di 15.000 alberi è stata dedicata all sua
memoria.
golferasi@yahoo.it |
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