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Lars von Trier e l’anti-arte.

di Massimo Tanzillo

 
 

Per il sociologo francese Pierre Bourdieu, non esiste una società a sé stante nel senso di Durkheim, esiste, al suo posto, uno spazio caratterizzato da più campi che hanno similitudini e differenze tra loro. Non esiste, quindi, una società come entità unitaria.
Possiamo quindi affermare che ogni individuo, inserito in uno spazio sociale, occupa un certo campo in base al capitale (economico, culturale, sociale, simbolico ecc…) posseduto. All’interno di ogni campo possiamo avere forme di relazione che vanno dall’alleanza al conflitto, anche se le diverse posizioni occupate hanno sempre un’alleanza tra loro riconosciuta, poiché istituzionalizzata, quindi accettata e legittimata da tutti.
Si hanno quindi, a seconda delle lotte – e quindi dell’imposizione di un capitale su di un altro – campi dominanti e campi dominati.
A loro volta, i campi si dividono in sotto-campi. Anche all’interno di essi i contendenti “lottano” per il monopolio del capitale legittimo. Legittimo in quanto ritenuto tale – legittimato – dalla società.
Prendiamo il caso del campo artistico.
Come tutte le manifestazioni culturali, la legittimazione di un campo artistico su un altro nasce dalla lotta tra essi per l’imposizione di un monopolio.
Questi campi sono il legame della coesistenza antagonista di due modi di produzione e di circolazione obbedienti a logiche diverse; l’economia anti-economica dell’arte pura che rifiuta i profitti (economici) a breve termine ed è orientata verso l’accumulazione del capitale simbolico (riconoscimento artistico ecc…) e la logica delle “industrie artistiche”, che conferiscono priorità al successo (economico) immediato.
Nel primo caso troviamo quegli artisti per i quali l’arte è – appunto – arte per l’arte, arte che non vuole rappresentarsi per quello che è, creata dal nulla e scritta sul nulla, essa rappresenta il disinteressamento per l’arte stessa, racchiude il disinteressamento delle classi dominanti nei confronti di tutti i beni simbolici e non.
E’ chiaro che questo disinteresse che si manifesta in tutte le pratiche sociali (gusti alimentari, letterari, cinematografici, predilezione per la forma a scapito della sostanza) è dovuto al fatto di avere il dominio di queste pratiche.
Prendiamo il caso di un campo artistico come il cinema. Estrapoliamone un regista; Lars von Trier e aggiungiamo alla premessa il fatto che, come afferma Bourdieu, l’individualità di un artista dipende non solo dal campo di appartenenza, ma anche dai fattori storici e sociali che determinano la “costruzione dell’artista”.
Il campo dell’arte cinematografica, come qualsiasi campo artistico è “…uno di quei legami incerti dello spazio sociale che offre dei posti mal definiti, […] e, per questo, estremamente elastici e poco esigenti”. Il campo cinematografico, attira quindi, data la sua incerta morfologia “…quelli che posseggono tutte le proprietà dei dominanti meno una, parenti poveri delle dinastie borghesi, in declino ecc… che la loro identità sociale male assicurata predispone in qualche modo ad occupare la posizione contraddittoria dei dominati tra i dominanti”. (L’amour de l’art. Ed. Seuil, Paris, 1994. pp. 314-316).
Lo stesso Lars von Trier appartiene a questo campo.
Come si evince chiaramente nel film-documentario “Le cinque variazioni”.
Nei dialoghi con il documentarista danese Jrgen Leth, il Lars von Trier regista, fa mostrare ad un Lars von Trier attore, il Lars von Trier uomo; attento alle forme artistiche del cinema, alla psicologia al punto di vista e soprattutto all’etica e alla morale del regista (fino a che punto può spingersi una macchina da presa), attento anche alla forme di arte culinaria (il caviale va toccato rigorosamente con cucchiai d’osso e accompagnato da vodka secca), ma mostra anche le sue debolezze (le paranoie per gli spostamenti, la sua “predisposizione” all’alcool ecc…).
Ma ciò che il film “Le cinque variazioni” mostra più chiaramente – ed è, del resto, ciò che più mi interessa sottolineare – è il legame tra una certa espressione artistica, l’artista e il periodo-storico sociale nel quale è inserito; così come nel periodo storico che va dalla fine dell’Ottocento al primo ventennio del Novecento, la nuova percezione che manifesta la società del tempo e dello spazio con la tecnologia (l’introduzione del telegrafo, dell’ora legale ecc…) si estende a tutti gli ambiti culturali, come in letteratura (un esempio tra i tanti può essere la discordanza tra il tempo “corporeo” e il tempo “pubblico” del protagonista ne “Il ritratto di Dorian Gray” di O. Wilde), nella pittura con De Chirico, Dalì e in seguito Picasso e i futuristi come Balla e Martinetti, in sociologia con la credenza di Durkheim nella relatività sociale del tempo o addirittura nelle scienze fisiche con la teoria della relatività di Einstein, anche oggi la percezione della perdita di identità, della svalutazione dei valori causati da una tecnologia che si ritorce sul suo creatore, si manifesta in tutti gli ambiti culturali; con “Le cinque variazioni” il cinema di Lars von Trier si fa arte dell’anti-arte, espressione artistica che nega se stessa; le cinque variazioni del tema centrale (il cortometraggio “L’uomo perfetto” di Jrgen Leth), hanno lo scopo principaledi “variare” – appunto – il tema centrale, fino ad allontanarsi completamente da esso, distruggerlo (arte che nega se stessa); e non è forse così in altri campi artistici contemporanei, come la pittura di P. Manzoni, la musica dei berlinesi Einstuerzende Neubauten che utilizzando dapprincipio strumenti messi in disuso dall’ “era post-industial” hanno finito per dedicare un album al silenzio, o addirittura nella genetica moderna che nata dall’uomo finisce, con la clonazione, per essere una scienza che ha la pretesa di creare l’uomo sostituendosi alla natura?
A parte la bellezza o le critiche controverse al film, con “Le cinque variazioni”, Lars von Trier ha il merito, a mio giudizio, di mostrare (non so se coscientemente) le contraddizione (perdita di identità, commercializzazione dei valori) della società contemporanea.

 
 
 
 
 

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