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Per il
sociologo francese Pierre Bourdieu, non esiste una società a sé
stante nel senso di Durkheim, esiste, al suo posto, uno spazio
caratterizzato da più campi che hanno similitudini e differenze
tra loro. Non esiste, quindi, una società come entità unitaria.
Possiamo quindi affermare che ogni individuo, inserito in uno
spazio sociale, occupa un certo campo in base al capitale
(economico, culturale, sociale, simbolico ecc…) posseduto.
All’interno di ogni campo possiamo avere forme di relazione che
vanno dall’alleanza al conflitto, anche se le diverse posizioni
occupate hanno sempre un’alleanza tra loro riconosciuta, poiché
istituzionalizzata, quindi accettata e legittimata da tutti.
Si hanno quindi, a seconda delle lotte – e quindi
dell’imposizione di un capitale su di un altro – campi dominanti
e campi dominati.
A loro volta, i campi si dividono in sotto-campi. Anche
all’interno di essi i contendenti “lottano” per il monopolio del
capitale legittimo. Legittimo in quanto ritenuto tale –
legittimato – dalla società.
Prendiamo il caso del campo artistico.
Come tutte le manifestazioni culturali, la legittimazione di un
campo artistico su un altro nasce dalla lotta tra essi per
l’imposizione di un monopolio.
Questi campi sono il legame della coesistenza antagonista di due
modi di produzione e di circolazione obbedienti a logiche
diverse; l’economia anti-economica dell’arte pura che rifiuta i
profitti (economici) a breve termine ed è orientata verso
l’accumulazione del capitale simbolico (riconoscimento artistico
ecc…) e la logica delle “industrie artistiche”, che conferiscono
priorità al successo (economico) immediato.
Nel primo caso troviamo quegli artisti per i quali l’arte è –
appunto – arte per l’arte, arte che non vuole rappresentarsi per
quello che è, creata dal nulla e scritta sul nulla, essa
rappresenta il disinteressamento per l’arte stessa, racchiude il
disinteressamento delle classi dominanti nei confronti di tutti
i beni simbolici e non.
E’ chiaro che questo disinteresse che si manifesta in tutte le
pratiche sociali (gusti alimentari, letterari, cinematografici,
predilezione per la forma a scapito della sostanza) è dovuto al
fatto di avere il dominio di queste pratiche.
Prendiamo il caso di un campo artistico come il cinema.
Estrapoliamone un regista; Lars von Trier e aggiungiamo alla
premessa il fatto che, come afferma Bourdieu, l’individualità di
un artista dipende non solo dal campo di appartenenza, ma anche
dai fattori storici e sociali che determinano la “costruzione
dell’artista”.
Il campo dell’arte cinematografica, come qualsiasi campo
artistico è “…uno di quei legami incerti dello spazio sociale
che offre dei posti mal definiti, […] e, per questo,
estremamente elastici e poco esigenti”. Il campo
cinematografico, attira quindi, data la sua incerta morfologia
“…quelli che posseggono tutte le proprietà dei dominanti meno
una, parenti poveri delle dinastie borghesi, in declino ecc… che
la loro identità sociale male assicurata predispone in qualche
modo ad occupare la posizione contraddittoria dei dominati tra i
dominanti”. (L’amour de l’art. Ed. Seuil, Paris, 1994. pp.
314-316).
Lo stesso Lars von Trier appartiene a questo campo.
Come si evince chiaramente nel film-documentario “Le cinque
variazioni”.
Nei dialoghi con il documentarista danese Jrgen Leth, il Lars
von Trier regista, fa mostrare ad un Lars von Trier attore, il
Lars von Trier uomo; attento alle forme artistiche del cinema,
alla psicologia al punto di vista e soprattutto all’etica e alla
morale del regista (fino a che punto può spingersi una macchina
da presa), attento anche alla forme di arte culinaria (il
caviale va toccato rigorosamente con cucchiai d’osso e
accompagnato da vodka secca), ma mostra anche le sue debolezze
(le paranoie per gli spostamenti, la sua “predisposizione”
all’alcool ecc…).
Ma ciò che il film “Le cinque variazioni” mostra più chiaramente
– ed è, del resto, ciò che più mi interessa sottolineare – è il
legame tra una certa espressione artistica, l’artista e il
periodo-storico sociale nel quale è inserito; così come nel
periodo storico che va dalla fine dell’Ottocento al primo
ventennio del Novecento, la nuova percezione che manifesta la
società del tempo e dello spazio con la tecnologia
(l’introduzione del telegrafo, dell’ora legale ecc…) si estende
a tutti gli ambiti culturali, come in letteratura (un esempio
tra i tanti può essere la discordanza tra il tempo “corporeo” e
il tempo “pubblico” del protagonista ne “Il ritratto di Dorian
Gray” di O. Wilde), nella pittura con De Chirico, Dalì e in
seguito Picasso e i futuristi come Balla e Martinetti, in
sociologia con la credenza di Durkheim nella relatività sociale
del tempo o addirittura nelle scienze fisiche con la teoria
della relatività di Einstein, anche oggi la percezione della
perdita di identità, della svalutazione dei valori causati da
una tecnologia che si ritorce sul suo creatore, si manifesta in
tutti gli ambiti culturali; con “Le cinque variazioni” il cinema
di Lars von Trier si fa arte dell’anti-arte, espressione
artistica che nega se stessa; le cinque variazioni del tema
centrale (il cortometraggio “L’uomo perfetto” di Jrgen Leth),
hanno lo scopo principaledi “variare” – appunto – il tema
centrale, fino ad allontanarsi completamente da esso,
distruggerlo (arte che nega se stessa); e non è forse così in
altri campi artistici contemporanei, come la pittura di P.
Manzoni, la musica dei berlinesi Einstuerzende Neubauten che
utilizzando dapprincipio strumenti messi in disuso dall’ “era
post-industial” hanno finito per dedicare un album al silenzio,
o addirittura nella genetica moderna che nata dall’uomo finisce,
con la clonazione, per essere una scienza che ha la pretesa di
creare l’uomo sostituendosi alla natura?
A parte la bellezza o le critiche controverse al film, con “Le
cinque variazioni”, Lars von Trier ha il merito, a mio giudizio,
di mostrare (non so se coscientemente) le contraddizione
(perdita di identità, commercializzazione dei valori) della
società contemporanea. |
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