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In inglese il
termine "free" significa sia "libero", per esempio nel senso
della libertà di parola, sia "gratuito", per esempio nel senso
di un pranzo gratis. Una democrazia che conviva con una economia
fondata sulla proprietà privata può promuovere la libertà di
parola e, nello stesso tempo, rifiutare la gratuità dei pranzi.
Ma che cosa succederebbe se questa stessa democrazia assimilasse
la libertà nel suo significato politico e morale alla gratuità,
e prendesse a combattere ogni libertà come una lesione alla
proprietà privata? Potrebbe una democrazia sostenersi sul
principio che la libertà è un furto?
L'autore di The Future of Ideas, Lawrence Lessig, non è un
filosofo politico, bensì uno studioso di diritto. Il suo testo
si occupa di un problema "tecnico": l'impatto sulla libertà,
nella rete e sulla rete, dell'inasprimento del regime della
proprietà intellettuale e delle sanzioni destinate a
proteggerla. Chi si è rassegnato a vivere in una "gabbia
d'acciaio" e a subire le decisioni tecniche come incontrollabili
ed estranee, o a scagliarsi genericamente contro "la tecnica",
può non essere consapevole del fatto che scelte tecniche
determinate condizionano il modo di condivisione e trasmissione
del pensiero, e dunque il mondo stesso della conoscenza. E',
d'altra parte, difficilmente comprensibile come una filosofia
che non intenda più se stessa in quanto sapere in un orizzonte
universale ed eterno, bensì come presentazione di ciò che è
attuale o alla moda, possa essere indifferente a questioni
tecniche - giuridiche e informatiche - la cui soluzione può
influenzare fortemente il futuro delle nostre idee e delle
nostre comunità politiche.
The Future of Ideas affronta quattro temi:
la nozione di commons (bene collettivo) e la sua ratio entro un
sistema che contiene forme di proprietà privata;
la possibilità di intendere il mondo delle idee come soggetto a
un regime di commons e la giustificabilità, entro tale
prospettiva, della proprietà intellettuale;
il carattere di commons dell'Internet originaria e
l'architettura di rete che l'ha resa possibile come tale
il processo di privatizzazione di questo commons a causa di un
inasprimento senza precedenti del regime proprietario
dell'informazione.
1.
Commons
Per commons si intende un bene detenuto in comune, per il
godimento da parte di una quantità di persone: è dunque
liberamente accessibile (free) per queste persone, nel senso che
ciascuna ne ha titolo senza dover chiedere il permesso ad altri.
Esempi di commons possono essere le strade pubbliche, le idee e
le teorie scientifiche nonché i testi che sono diventati di
pubblico dominio dopo la scadenza dei diritti d'autore. In tutti
questi casi non c'è nessun soggetto che abbia titolo ad
esercitare una componente fondamentale del diritto di proprietà,
cioè stabilire se e come rendere la risorsa disponibile ad
altri.
La tradizione ha riconosciuto come commons sia risorse il cui
uso non è competitivo, sia risorse soggette a un uso
competitivo. Una teoria scientifica è un commons non
competitivo, perché chiunque può apprenderla senza che nessun
altro sia depauperato nel suo patrimonio di conoscenze. Una
strada o un pascolo sono commons competitivi, perché un loro uso
incontrollato li deteriora e li impoverisce: la strada può
essere congestionata da ingorghi, il pascolo può esaurirsi se
ciascun pastore persegue la strategia, razionale rispetto
all'utilità individuale, di aumentare il più possibile il numero
di capi del suo gregge, che si nutre sul terreno comune.
Tuttavia, il carattere competitivo dell'uso di una risorsa non è
di per sé un motivo sufficiente ad escluderla dal novero delle
cose che possono entrare in un regime di commons , dal momento
che le comunità possono adottare regole che governino l'uso di
un bene collettivo. La competitività o no dell'uso di un bene,
invece, fa sì che siano diversi i problemi derivanti, per la
società, dal suo carattere collettivo:
se il bene non è competitivo, si pone solo il problema di come
incentivarne la produzione
se il bene è competitivo, si aggiunge a questo il problema di
regolare la distribuzione del suo consumo (pp. 19-23).
Perché una società che non mette in discussione la proprietà
privata dovrebbe permettere che alcune risorse rimangano in un
regime di commons? In un'epoca in cui si tende a dare per
scontato che il mondo sia amministrato nel modo migliore se
viene suddiviso fra proprietari privati, una sorta di cecità
culturale fa dimenticare che la tradizione giuridica
statunitense giustifica i commons quando le risorse sono
fisicamente esposte ad essere monopolizzate e quando l'essere
usate da un numero indefinito e illimitato di persone non
diminuisce, bensì aumenta il loro valore. Per esempio una strada
su cui si possono affacciare negozi e affiggere manifesti con la
certezza che saranno visti da moltissimi passanti, è valorizzata
dal fatto di essere pubblica (pp. 86-87). Se la strada
appartenesse a un privato il quale limitasse la circolazione a
suo arbitrio, l'accessibilità a negozi e manifesti verrebbe meno
e si perderebbe, così, gran parte del suo valore - che dipende,
in questo caso, dal semplice fatto di essere frequentata e
liberamente percorribile.
Da questo argomento, Lessig desume un principio generale: quando
l'uso di un bene è poco chiaro, nel senso che non è connesso
univocamente a un fine, allora, da una prospettiva sociale, può
essere preferibile trattarlo come collettivo, perché sia esposto
alla sperimentazione di un gran numero di ingegni. In questo
caso, infatti, un proprietario vincolerebbe il bene, con tutte
le sue potenzialità ignote, al suo limitato intendimento e al
suo interesse privato. Se invece l'uso di una risorsa è chiaro,
il nostro obiettivo è semplicemente assicurarne la disponibilità
per l'uso maggiore e migliore: in questo caso, conviene
affidarla a un proprietario, interessato a massimizzare il
reddito che ne ricava (pp. 88-89).
Lessig, in virtù della sua nazionalità e della professione,
presenta questo argomento in un ambito particolare, quello della
rete: in questo caso è chiaro che la sua pubblicità l'ha resa
aperta ad usi imprevedibili ai suoi progettisti originari, come
la pubblicazione distribuita del World Wide Web. Ma, da un punto
di vista filosofico, il principio di Lessig può indurre a
chiedere se esistano davvero beni che "hanno" un uso "chiaro",
come se la loro finalità fosse scritta, per così dire, nella
loro carta di identità - se non diamo indebitamente per scontato
un orizzonte di valori e di tecnologie condivise. Per esempio,
l'uso industriale del codice genetico e dunque il suo carattere
proprietario è "chiaro" per le multinazionali statunitensi, ma
assai meno per chi lo contesta - tanto che la soluzione del
problema della sua destinazione richiederebbe una più profonda
riflessione filosofica e politica. Se è solo lo stato dell'arte
e la sua percezione sociale a giustificare la proprietà privata
di un bene, allora ogni forma di proprietà privata va intesa
come provvisoria e, potenzialmente, residuale.
Giustificare la proprietà privata come caso residuale e
provvisorio, in relazione allo stato dell'arte e alle scelte
politiche, significa spostarsi da una prospettiva lockeana a una
prospettiva platonica. Locke legittima la proprietà privata
sulla base dell'acquisizione con il lavoro, il quale dunque dà
titolo a fare scelte sovrane anche sull'uso della risorsa.
Platone, nella Repubblica, la tratta come qualcosa di
circoscritto a un solo gruppo, quello degli "artigiani" e la
giustifica sulla base della specializzazione tecnica e della
funzionalità sociale, tenendola fuori da tutto ciò che ha a che
vedere con la politica e con la conoscenza. Passare dalla
tradizione liberale di Locke all'egemonia filosofica di Platone
sarebbe una rivoluzione di non piccolo momento - se la nostra
tradizione fosse esclusivamente liberale, e non anche
democratica.
La tradizione democratica è il terreno più solido per opporsi al
sistema del controllo proprietario:
Perché non vendiamo semplicemente il diritto di governare al
miglior offerente? (I cinici diranno che in effetti lo abbiamo
sempre fatto. Forse, ma sto parlando formalmente) Perché non
abbiamo un sistema in cui mettiamo all'asta il diritto di
controllare il governo come diritto di proprietà permanente? (p.
82)
Lessig risponde prendendo ispirazione da Spheres of Justice, di
Michael Walzer: nella "nostra" società i contanti non sono
l'unico valore, ma ne esistono anche altri diversi e
indipendenti - come l'autogoverno democratico. Questo, per il
momento, può essere un argomento politicamente convincente. il
suo solo limite, dal punto di vista speculativo, è la sua
provvisorietà: Walzer, in Spheres of Justice, sceglie
esplicitamente di "restare nella caverna ", interpretando i
significati che tutti hanno in comune. Ma lo ombre - cioè le
intuizioni condivise - sono molto mutevoli, soprattutto se a
controllare le proiezioni ci sono le grandi concentrazioni
mediatiche e i potentissimi sostenitori di una destinazione
proprietaria dell'informazione di cui lo stesso Lessig parla con
grande preoccupazione (pp. 117-119).
2.
Il mondo delle idee
Secondo Lessig, ci sono buone ragioni per mantenere alcuni tipi
di beni in un regime di commons . Il carattere collettivo si
addice in modo paradigmatico alle entità del mondo delle idee.
Lo scrisse molto chiaramente Jefferson, in armonia con la
tradizione dell'Illuminismo, in una lettera a Isaac MacPherson
del 13 agosto 1813 : le idee sono di proprietà esclusiva di chi
le ha pensate solo finché non le rivela in pubblico. Ma, una
volta rese pubbliche, possono essere possedute da tutti, senza
privare di nulla il loro primo autore. "Chi riceve un'idea da
me, riceve egli stesso istruzione senza diminuire la mia; come
chi accende il suo lume al mio riceve luce senza oscurare me."
Per questo, le idee devono diffondersi liberamente nel mondo,
per istruire e migliorare gli uomini, e le invenzioni non
possono essere soggette a proprietà privata (pp. 94-95).
In questo spirito, la costituzione americana permette solo una
forma limitata di proprietà intellettuale "To promote the
progress of science and useful arts, by securing for limited
times to authors and inventors the exclusive right to their
respective writings and discoveries" (a1.Section 8). Il periodo
di validità della proprietà intellettuale è limitato, perché le
idee appartengono, per loro natura, al pubblico: diritti
esclusivi temporanei possono essere giustificati solo
limitatamente al fine di incentivare gli autori alla produzione
creativa (p. 97).
La prima legge americana sul copyright lo attribuiva agli autori
di "mappe, carte e libri", ma solo a condizione che facessero
una registrazione presso un ufficio apposito. Il copyright
durava originariamente quattordici anni, ed era rinnovabile ad
altri quattordici solo se l'autore, ancora vivo, ne avesse fatto
esplicita richiesta. Traduzioni e opere derivate erano libere e
l'onere della registrazione faceva sì che molte opere fossero
fuori copyright semplicemente perché l'autore aveva preferito
non sottoporvisi. Oggi il copyright , negli Stati Uniti, è
automatico, dura per settanta anni dalla morte dell'autore, e si
estende su ogni atto creativo prodotto su un medium tangibile e
anche su traduzioni ed opere derivate (pp. 105-107). Sono fuori
dalla sua portata solo i fatti storici e il cosiddetto fair use,
che comporta la possibilità di citare piccole parti del lavoro a
fini didattici e scientifici (pp. 104-109). Il controllo
proprietario sull'informazione non è mai stato così aspro e
intenso.
Lessig ritiene che l'attuale legislazione sul copyright sia
incostituzionale: la ratio costituzionale del copyright è
incentivare economicamente gli autori alla produttività. Ma è
ridicolo pensare che qualcuno scriva un libro, oggi, solo perché
e se ha la garanzia che qualche sconosciuto del XXII secolo ne
potrà trarre guadagno (p. 252). Il vero, ancorché
incostituzionale, motivo dell'estensione è l'interesse al
controllo e allo sfruttamento industriale dell'informazione (p.
107).
Il controllo dell'informazione per il suo sfruttamento
industriale è un incentivo alla creatività? Se consideriamo che
ogni nuova idea si fonda sul confronto con le idee altrui e che
per questo nessuna idea è veramente e completamente nuova (p.
204), possiamo sospettare che il controllo proprietario, in
quanto limita l'accesso, la distribuzione e l'uso di
informazione, impoverisca il mondo delle idee, pur arricchendo
una piccola minoranza. Le idee non si consumano ad essere
pensate e divulgate; si esauriscono, piuttosto, se vengono
tenute nascoste e censurate - per motivi politici o anche
economici.
3.
La rete come commons
Secondo il giurista e teorico della comunicazione Y. Benkler, un
sistema di comunicazione può essere pensato come suddiviso in
tre strati o layers:
lo strato fisico: il mezzo fisico su cui la comunicazione
viaggia (nel caso della rete, i cavi e i calcolatori)
lo strato logico o del codice: il codice che fa funzionare gli
strumenti fisici (nel caso della rete, i protocolli e i
programmi che ci permettono di usarli)
lo strato del contenuto
Ciascuno di questi tre strati può essere libero o controllato.
Si va così dallo Speakers' Corner , ove tutti gli strati sono
liberi, fino alla TV via cavo, ove sono tutti controllati,
passando per il modello dell'auditorium, ove è soggetto a
controllo solo l'accesso fisico, e per quello del telefono, ove
solo i contenuti sono liberi (pp. 23-24). L'Internet, come
l'abbiamo conosciuta finora, è controllata nello strato fisico
e, per lo più, nello strato del contenuto, ma il suo codice è
libero.
Negli anni '60 dello scorso secolo ci si rese conto che il
sistema telefonico stutunitense non avrebbe potuto resistere a
un attacco nucleare, perché era centralizzato e privo di metodi
di ridondanza efficaci. Si cominciò allora a pensare a un tipo
di interconnessione diversa, a pacchetti anziché a circuito. Il
circuito comporta una connessione univoca fra un punto e un
altro, dalla quale dipende interamente la possibilità della
comunicazione. I pacchetti permettono di dividere ciò che deve
essere trasmesso in una serie di frammenti, ciascuno dei quali
fluisce indipendentemente attraverso percorsi in una rete, per
ricongiungersi agli altri solo al punto di arrivo (p. 31).
Ma l'aspetto decisivo è il luogo in cui, nella rete, si colloca
l'"intelligenza", ovvero l'elaborazione dell'informazione.
Pensiamo, per chiarezza, a un arcaico sistema telefonico a
commutazione meccanica manuale. In questo sistema, se voglio
raggiungere, da Pisa, un apparecchio di Livorno, devo chiamare
il centralino, ove la telefonista mi mette in contatto coll'abbonato
richiesto. L'intelligenza - ciò che è in grado di indirizzare il
mio messaggio proprio dove desidero che vada - è nella mente e
nella mano della telefonista, che decifra la mia richiesta e mi
connette correttamente, è, cioè, "nella" rete telefonica, al suo
centro. Per mettere fuori uso un simile sistema, è sufficiente
bloccare la telefonista.
In Internet le cose non stanno così: la sua struttura end-to-end
fa sì che l'elaborazione dell'informazione non sia posta nel
cuore della rete, ma alle sue periferie. Se la rete è "stupida"
ma ogni terminale è in grado di fare da "telefonista" di se
stesso, la comunicazione diventerà difficile o impossibile solo
quando una parte rilevante dei cavi e dei terminali sarà stata
messa fuori uso. I nodi intermedi nella rete, in questo caso,
svolgono solo funzioni semplici, con protocolli semplici e di
pubblico dominio, mentre le operazioni conplesse sono riservate
ai terminali (p. 34).
Fra le architetture dei due sistemi c'è una differenza non solo
tecnica, ma anche politica, se è vero, come dice Mitch Kapor,
cofondatore della Electronic Frontier Foundation, che
"l'architettura è politica " (p. 35): la telefonista del nostro
esempio - o, più realisticamente, una concentrazione mediatica
che occupa una analoga posizione strategica -, ha il pregio di
essere "intelligente". Ma potrebbe anche essere, proprio in
virtù di questo suo pregio e della sua funzione, avida,
invadente, pettegola, censoria. Potrebbe per esempio raccontare
tutte le nostre telefonate alla polizia, oppure intercalarle con
slogan pubblicitari, oppure proibirci di leggere al telefono un
brano sotto copyright, o rifiutarsi di collegare numeri pisani a
numeri livornesi per sue personali questioni di campanile. Di
contro, in Internet, tutti possono usare il protocollo della
rete, che è di pubblico dominio, tutti, dunque, essendo
telefonisti di se stessi, possono elaborare l'informazione come
vogliono, spedirla dove e come vogliono, e, soprattutto, far
interagire con la rete i programmi che preferiscono. Come spiega
molto chiaramente la RFC 1958: "the goal is connectivity, the
tool is the Internet Protocol, and the intelligence is end to
end rather than hidden in the network".
Questo fa sì che Internet sia un ambiente molto favorevole
all'innovazione:
poiché i programmi girano su calcolatori alla periferia della
rete, innovatori con nuovi programmi non devono far altro che
connettere i computer alla rete per farli funzionare, senza aver
bisogno di mutamenti - e dei relativi permessi - entro la
struttura della rete;
poiché l'architettura non è ottimizzata per nessuna applicazione
particolare, la rete è aperta a innovazioni per le quali non era
stata originariamente pensata;
per il suo carattere di piattaforma neutrale, la rete non può
discriminare i progetti innovativi (pp. 36-37).
Il codice che in rete assicura la connettività, il TCP/IP, è
libero: ciò significa che questo ambito può essere inteso come
un commons aperto, il quale aumenta il valore dello spazio
controllato che si interfaccia con essa (p.48): un computer,
oggetto di proprietà privata, una volta connesso in rete,
diventa uno strumento molto più interessante e ricco di
possibilità. E, contrariamente a quando si tende a credere, il
carattere di commons non fa della rete un ambiente sregolato,
esposto all'abuso e dunque all'impoverimento: ci sono regole
consuetudinarie, come quelle che proibiscono lo spamming su
Usenet e altrove, ma, soprattutto, e tipicamente, la tecnologia
è in grado di governare l'uso delle risorse comuni in modo tale
da non esaurirle (p. 96) e, anzi, da incentivarne
l'accrescimento. Per esempio, un libro cartaceo in una
biblioteca pubblica deve essere letto a turno ed è esposto
all'usura, mentre un documento digitalizzato e messo in rete è
indefinitamente copiabile.
Un chiaro esempio di bene valorizzato dal suo statuto di commons
è il software libero protetto da licenza GNU-GPL . Questo tipo
di licenza garantisce la libertà del software in questi quattro
sensi:
il software è liberamente eseguibile
il software può essere liberamente studiato e rielaborato per le
proprie esigenze, e dunque il codice sorgente deve essere
liberamente disponibile
il software può essere liberamente copiato e distribuito
il programma può essere migliorato e i suoi miglioramenti sono
liberamente distribuibili
(v. http://www.pluto.linux.it/ildp/AppuntiLinux/a211.html#title45)
La conservazione di questa libertà richiede che venga impedita
la "privatizzazione" del codice, che avrebbe luogo se qualcuno
si impadronisse di un programma, lo compilasse e lo distribuisse
come software proprietario, sottraendolo alla pubblicità. Questo
sarebbe inevitabile se il software libero non fosse un bene
collettivo, ma una res nullius , esposta alla acquisizione da
parte di chiunque. La licenza GNU-GPL si vale di una
combinazione fra diritto d'autore e diritto contrattuale, per
obbligare chi ridistribuisce il software protetto, originale o
modificato, a passarlo ad altri con le medesime garanzie di
libertà con cui l'ha ricevuto. Il software libero protetto dalla
GPL rimane nell'ambito della pubblicità, che è vantaggiosa sia
per chi lo scrive, sia per chi lo usa. Chi lo scrive può contare
sulla cooperazione di una comunità non concorrenziale di
sviluppatori, che fa immediatamente circolare ogni scoperta di
difetti e di possibili miglioramenti; chi lo usa, proprio per
questo motivo, non rimane ostaggio degli errori di
programmazione e del codice strategico eventualmente inserito a
servizio degli interessi del produttore. Se la Microsoft non
avesse controllato il suo codice, non avrebbe potuto attuare la
strategia di incorporare Internet Explorer in Windows: sarebbero
subito fiorite altre versioni del sistema prive dell'ingombrante
browser (pp. 54-67) e niente avrebbe potuto obbligare gli utenti
ad accettare sul proprio computer un programma non desiderato.
Chi, infine, vende hardware trae vantaggio dal carattere di
commons del codice, perché può rendere più appetibili e meno
costose le sue macchine con del software meno costoso,
autonomamente innovabile, e sostanzialmente migliore, perché
sviluppato e discusso in maniera trasparente. La discussione si
svolge nell'ambito che Kant avrebbe detto dell'uso pubblico
della ragione, le cui dimensioni, grazie all'interconnessione,
sono divenute virtualmente cosmopolitiche. Il software,
esattamente come la filosofia, è conoscenza e informazione.
Come scrive Alan Cox, difendendo Linux ed il valore del software
libero contro un attacco della Microsoft:
I grandi salti dell'età del computer hanno avuto luogo, in
maggioranza, a dispetto piuttosto che in virtù dei diritti di
proprietà intellettuale . Prima dell'Internet i protocolli di
rete proprietari dividevano i clienti, li rinchiudevano negli
spazi dei loro fornitori, e li costringevano a scambiare la
maggior parte dei dati su nastro. Il potere della rete non fu
sprigionato dai diritti di proprietà intellettuale. Fu
sprigionato dalla libera e aperta innovazione condivisa fra
tutti (p. 57).
4.
I padroni del discorso
Internet è cresciuta grazie alla libertà dell'informazione nello
strato del codice, che l'ha trasformata in un ambito aperto a un
uso pubblico della ragione virtualmente cosmopolitico. Abbiamo a
che fare con un commons di nuovo genere, in controtendenza
rispetto allo spirito dei tempi e al loro intendere le persone e
i diritti sulla base del paradigma della proprietà privata. Per
questo, lo scontro con le concentrazioni mediatiche che traggono
lucro dalla proprietà intellettuale appare inevitabile.
Prima e fuori dalla rete, si potevano registrare dischi,
prestare libri, esporre poster senza preoccuparsi del copyright
, sia perché alcune di queste attività sono perfettamente
lecite, sia perché le eventuali violazioni sono difficilmente
controllabili, in quanto richiederebbero una sorveglianza
capillare nella sfera privata di un gran numero di persone. Ma
se trasformo la musica di un CD che ho comprato in MP3, o
digitalizzo un libro che mi è piaciuto, o riproduco un articolo
che ho letto e che vorrei sottoporre a discussione, e li metto
su una pagina web per condividerli con i miei amici, la
situazione sembra diversa, anche se non sto facendo nulla di
diverso: io divento una violatrice del diritto d'autore. E' vero
- dice Lessig - che alla mia pagina potrebbero accedere milioni
di persone, ma la pubblicazione sul web è talmente polverizzata
che la possibilità reale che questo avvenga è molto scarsa.
Probabilmente, le persone che visitano la mia pagina non sono di
più di quelli che prendono in prestito i miei libri cartacei. Ma
la pagina web è molto più controllabile, tramite bots e
programmi che scansionano la rete alla ricerca di materiale
sotto copyright: il cyberspazio non diminuisce, bensì aumenta il
potere dei detentori dei diritti (pp. 181-182).
Lessig racconta il caso di OLGA , un archivio di spartiti di
musica per chitarra messo insieme con i contributi degli
appassionati, senza fine di lucro, e ripetutamente costretto a
chiudere a causa delle minacce di grandi case discografiche, che
accampavano generiche accuse di violazione del diritto d'autore.
I provider sono di solito molto veloci a cancellare i siti che
vengono fatti oggetto di accuse di questo genere - e quasi
sempre i contendenti sono un singolo, da una parte, e una
multinazionale, dalll'altra -. "Il controllo del copyright [è]
fuori controllo" (p. 183). Questo ha delle conseguenze politiche
e culturali efficacemente illustrate dalla casistica presentata
da Lessig.
CPHack: Cyber Patrol è un programma della famiglia dei
cosiddetti censorware , che bloccano selettivamente l'accesso a
siti web il cui contenuto è ritenuto non adatto a minori.
Spesso, la selezione operata da questi programmi è stata
considerata discutibile, perché è capitato che fra i siti
bloccati ci fossero pagine del tutto innocenti, o ree solo di
opporsi alla tecnologia del censorware, o connesse ad opinioni
politiche sgradite ai produttori dei programmi stessi. Nel 1999
uno svedese e un canadese produssero CPHack , un programma posto
originariamente sotto licenza GPL, che permetteva di disattivare
Cyber Patrol e di identificare l'elenco dei siti che bloccava.
Questo avrebbe esposto la Mattel, che distribuiva Cyber Patrol,
a critiche e proteste da parte di coloro che si fossero sentiti
arbitrariamente censurati. Ne seguì una controversia legale che
si concluse solo grazie a una mossa extragiudiziale: la Mattel
indusse gli autori a venderle il diritti di CPHack e a negare
che il codice fosse sotto GPL, e riuscì conseguentemente a
ottenere dal giudice una ingiunzione a non pubblicare il codice
e a non linkare siti che lo pubblicassero - neanche allo scopo
di criticare le scelte dell'azienda. Il copyright è "divenuto
uno strumento per rendere impossibile la critica ad una azienda.
Dei programmatori possono distribuire codice che censura la
rete, e i tentativi di distribuire la lista dei censori sono
censurati dalla legge." (pp. 184-187)
DeCSS: nel 1998 Il Congresso degli Stati Uniti approvò il
Digital Millennium Copyright Act, che reca, fra vari
inasprimenti del diritto d'autore, una disposizione antielusione
(anticircumvention). Questa disposizione probisce sia di
decriptare (crack) il codice che protegge materiale sotto
copyright, sia di produrre programmi destinati a decriptare
detto codice. Se trattiamo il materiale sotto copyright sulla
base di una stretta analogia con un oggetto fisico di proprietà
privata, questa disposizione può assere assimilata ad un divieto
sia di disattivare direttamente gli antifurto, sia,
indirettamente, di produrre strumenti che li disattivino. Ma
questa analogia, osserva Lessig, non si può applicare
meccanicamente all'informazione, che per la Costituzione
americana è essenzialmente libera e di pubblico dominio, tanto
che il tempo di durata del copyright è inteso come limitato ed è
riconosciuta la possibilità del fair use . Quindi la legge non
può tutelare strumenti finalizzati a sottrarre per sempre
l'informazione al dominio pubblico, o a negare il fair use (pp.
187-188). Al di là dei tecnicismi giuridici locali, il cuore
dell'argomento di Lessig è questo: possiamo trattare il
copyright come identico alla proprietà privata solo se decidiamo
di trattare le idee come oggetti fisici. Questo ci autorizza a
considerare ogni uso non esplicitamente permesso dal detentore
del copyright come un furto, ma ci proibisce anche,
conseguentemente, di "usare" le idee per discuterle, insegnarle
o criticarle senza l'autorizzazione del loro "proprietario".
Nel 1994 le case cinematografiche di Hollywood cominciarono a
distribuire film su dischi DVD. Questi DVD furono protetti con
un metodo di cifratura detto Content Scramble System (CSS), che
rende difficile all'utente vedere il film, a meno che non usi un
dispositivo in grado di decodificare le routine CSS. Furono
messi sul mercato dei riproduttori DVD, i cui produttori avevano
ricevuto la licenza per decodificare i DVD protetti da CSS. Ma
questa licenza fu inizialmente data solo a macchine compatibili
con i sistemi Windows e Macintosh.
Il CSS, d'altra parte, non impediva la copia fisica del disco
DVD, ma limitava solo il novero dei computer su cui era
possibile vedere i film. Per rendere accessibili i DVD a un
altro diffuso sistema operativo, Linux, si escogitò un codice
open source detto DeCSS , che disabilita il sistema di cifratura
CSS e rende possibile riprodurli su macchine prive di licenza.
Il DeCSS non rende la copia più facile: mostra semplicemente
l'inadeguatezza del sistema di cifratura adottato e permette di
riprodurre DVD, presumibilmente acquistati in modo legittimo, su
macchine con sistemi diversi da Windows e Macintosh.
Ma Hollywood scatenò i suoi avvocati, e mise addirittura in
questione il diritto di fare link diretti ed indiretti a pagine
col DeCSS, per quanto non sia stato esibito nessun caso in cui
il DeCSS sia stato usato per produrre copie pirata di film. La
corte di New York, in primo grado, gli diede ragione: il DeCSS e
i link a siti con il DeCSS non vanno trattati come informazione
e conoscenza la cui libertà deve essere tutelata, ma come meri
espedienti tecnici per "derubare" il detentore dei diritti (pp.
189-190).
iCraveTV era un sito canadese che ritrasmetteva in rete
programmi televisivi. In Canada una simile operazione non è
illecita, a condizione che il programma ritrasmesso rimanga
inalterato; negli Stati Uniti, invece, è richiesto il permesso
del trasmettitore originale. iCraveTV si trovava fisicamente in
Canada, ma era visibile, essendo in rete, anche ai cittadini
americani. Questo espose iCraveTV ad una azione legale: le fu
chiesto di impedire l'accesso ai cittadini americani o di
chiudere. iCraveTV preferì ubbidire, invece di rilevare che la
legge americana non era vincolante in Canada. Se il governo
cinese - o anche un tribunale francese, come è effettivamente
avvenuto - pretendesse il blocco di China Online per tutti i
cittadini cinesi, perché i suoi contenuti sono censurabili per
la legge cinese, questa pretesa verrebbe trattata come una
posizione autoritaria, giuridicamente infondata, e contraria
alla stessa dimensione cosmopolitica della rete. Ma, osserva
Lessig, quando si tratta di copyright, noi diventiamo come i
cinesi. E chiediamo tecnologie che facilitino il controllo
locale, tracciando confini nel mondo delle idee (pp. 190-192).
In The Future of Ideas sono presentati molti altri casi in cui
il diritto d'autore e il sistema dei brevetti ha messo a
repentaglio la creatività, l'innovazione e la libertà di parola.
Sono inoltre trattate delle possibili soluzioni per ridurre la
proprietà intellettuale al suo fine originario: la tutela non
tanto degli interessi monopolistici delle aziende, quanto del
lavoro e della creatività dei singoli. Lessig suggerisce, per
esempio, la limitazione del diritto d'autore a cinque anni, con
la possibilità di rinnovarlo su richiesta, per un medesimo
periodo, solo per altre quindici volte, e discute anche la
distinzione, in relazione alla tutela, fra uso commerciale e uso
non commerciale. Propone inoltre di trasformare almeno una parte
dello spettro ora suddiviso dallo stato fra concessioni
radiofoniche e televisive in un commons aperto alla libera
sperimentazione (pp. 240-261).
Simili problemi appartengono alla quotidianità di chi lavora in
rete ed ha avuto modo di imparare che questo complesso intreccio
di questioni tecniche e giuridiche, in quanto insiste sul mondo
delle idee, produce anche una politica e una economia della
conoscenza che merita di essere oggetto di riflessione al di là
degli ambiti settoriali. Ci troviamo infatti di fronte alla
possibilità di venir messi a tacere non più dai poteri censori
di uno stato, ma dai poteri e dagli interessi privilegiati di
concentrazioni economiche. I fondamenti teorici che stanno alla
base di questa possibilità meriterebbero di venir messi in
discussione nei loro presupposti e nelle loro eventuali
incoerenze. La democrazia liberale ha insegnato a temere la
censura dello stato, in nome della libertà della sfera pubblica,
e a proteggere i poteri aziendali, in nome della libertà della
sfera privata. Ma se i poteri aziendali invadono la sfera
pubblica con le armi del copyright , dei brevetti e del
controllo della rete e dello spettro, perché dovremmo
considerare odiosi e tirannici i censori statali, e non invece,
e di più, questi nuovi e inusitati padroni del discorso? Perché
dovremmo ribellarci alla censura politica e ideologica e
accettare, invece, la censura economica - come se una simile
censura, una volta privatizzata la materia prima della
pubblicità, non fosse per ciò stesso anche politica?
Maria
Chiara Pievatolo
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Articolo pubblicato
in: Bollettino telematico di
filosofia politica, 26 aprile 2002
Riferimenti in rete
Un'altra
recensione italiana a The future of ideas
http://www.comunicazione.omnitelvodafone.it/radar/libri_arretrati/Libri_2001_11_13.asp
La situazione italiana
La legge sul diritto d'autore aggiornata con le ultime modifiche
http://www.interlex.it/testi/l41_633.htm
Legge comunitaria e diritto d'autore: Law on Demand?
(dall'Indice tematico di Interlex)
http://www.interlex.it/copyright/amonti56.htm
Riforma del diritto d'autore: chi vince e chi perde
(dall'Indice tematico di Interlex)
http://www.interlex.it/copyright/minotti3.htm
Il ruolo della SIAE
(dall'Indice tematico di Interlex)
http://www.interlex.it/copyright/coliva22.htm
L'inasprimento della tutela penale dei diritti d'autore sul
software
http://punto-informatico.it/p.asp?i=39352
Internet e stampa in Italia: il dossier di Interlex
http://www.interlex.it/stampa/indice.htm
Pirateria e copyright: l'indice di Punto Informatico
http://punto-informatico.it/canali.asp?p=0&i=Pirateria+e+Copyright
Censura in rete: l'indice di Punto Informatico
http://punto-informatico.it/canali.asp?p=0&i=Censura
Linux: appunti di informatica libera
http://www.pluto.linux.it/ildp/AppuntiLinux/a21.html
Il brevetto sulla ruota
http://punto-informatico.it/p.asp?i=36679
Google, il DMCA e la libertà di link
http://www.infoanarchy.org/story/2002/4/13/1258/31858
Quella connettività anarcoide: le possibilità del wireless
http://www.punto-informatico.it/p.asp?i=40000 |
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