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Quando il medico è anche il boia
 

di Adam Liptak

libera traduzione di Arianna Ballotta

 
  ATLANTA (Georgia – USA)
Inizialmente il compito del dottor Sanjeeva Rao era quello di prendersi cura dei detenuti presso il carcere di Stato di Jackson (Georgia), di controllare la loro pressione sanguigna e gli altri loro problemi di salute. Quando, nel 2000, lo Stato iniziò ad utilizzare l’iniezione letale come metodo di esecuzione al suo compito iniziale se ne aggiunse un altro: quello di giustiziare i prigionieri. Rao non pratica personalmente le iniezioni, ma è colui che monitora l’intero procedimento e a volte, come dichiarato da lui stesso, dà una mano. Se il cuore del condannato continua a battere dopo l’iniezione, il dottor Rao ordina che venga somministrato dell’altro veleno. Nel 2001 dopo che un’infermiera impiegò invano 39 minuti nel tentativo di trovare una vena idonea nel corpo di Jose High, un ex tossicodipendente, fu Rao ad inserire l’ago in una vena del collo del condannato affinché il cocktail di sostanze chimiche letali potesse essere somministrato. Sia che si tratti di somministrare cure che dar loro la morte, il dottor Rao si riferisce ai prigionieri sempre in termini medici. “Li chiamo sempre pazienti, è un’abitudine”, dichiarò Rao nel 2002 nel corso di un processo intentato da un condannato a morte che senza successo cercò di far dichiarare disumana l’iniezione letale.
Secondo alcuni critici i medici che prendono parte alle esecuzioni violano i principi fondamentali dell’etica medica, mentre altri difendono questi medici sostenendo che l’iniezione letale, ormai il metodo più usato negli Stati Uniti d’America, può essere eseguita in modo umano soltanto da medici professionisti.
Secondo il dottor Sidney Wolfe, direttore dell’organizzazione “Public Citizen” che effettua ricerche nell’ambito della salute a difesa dei consumatori, il dottor Rao e gli altri come lui dovrebbero essere puniti. “L’Ordine dei Medici dovrebbe togliere la licenza a queste persone”, ha dichiarato Wolfe.
Il dottor Kenneth Baum, autore di un articolo sulla questione pubblicato da una rivista legale, non è d’accordo e sostiene che i medici possono giocare un ruolo importante nelle esecuzioni. “L’alternativa”, dice Baum, “è che sia il personale carcerario ad eseguire le esecuzioni con quanto ne deriva dalla mancanza di un adeguato addestramento”. Secondo Baum “in assenza di personale medico specializzato molte esecuzioni possono diventare dolorose [per il condannato] e ciò non deve accadere. Poiché giustiziamo queste persone, non c’è ragione di farlo procurando dolore”.
Sono circa 25 gli Stati che richiedono la presenza di medici durante le esecuzioni, ma le informazioni relative al numero di medici che partecipano direttamente è difficile da determinare, in quanto gli Stati generalmente non rivelano i nomi di chi vi prende parte adducendo motivi di sicurezza e privacy. Secondo il Dipartimento Correzionale della Georgia, ad esempio, i file relativi alle esecuzioni sono “segreti di Stato riservati”.
Il nome di Rao saltò fuori nel 2002 nel corso di una causa svoltasi in Georgia sull’uso dell’iniezione letale. Il dottor Rao non ha risposto ai [nostri] numerosi messaggi lasciati al suo ufficio e a casa sua pregandolo di farci avere i suoi commenti. Molti degli Stati che incoraggiano i medici a prendere parte alle esecuzioni hanno leggi apparentemente contraddittorie che permettono che i medici vengano puniti dall’Ordine dei Medici per aver violato i principi dell’etica medica, secondo cui in quasi tutto il mondo è proibito ad un medico di prendere parte ad una esecuzione. Il Codice Etico dell’Associazione dei Medici degli USA, ad esempio, cita: “[…] Un medico, in quanto tenuto a preservare la vita laddove c’è speranza di farlo, non deve partecipare ad un’esecuzione autorizzata legalmente. […]”. Il Codice proibisce ai medici una serie di cose legate all’esecuzione, fra cui la prescrizione di farmaci, la supervisione del personale carcerario, l’individuazione delle vene per l’inserimento degli aghi, la somministrazione delle sostanze letali e il pronunciamento della sopravvenuta morte. “I medici non possono dichiarare che l’esecuzione non ha avuto successo affinché venga ripetuta”, dice il dottor Stephen Miles, docente presso l’Università del Minnesota ed autore del libro “Il Giuramento di Ippocrate e i principi della Medicina”. Ma nonostante ciò, secondo un sondaggio svolto fra i medici americani nel 2001, almeno il 40% farebbe almeno una delle cose proibite citate sopra.
Secondo studiosi che hanno esaminato la questione non si è a conoscenza di nessuna azione intrapresa dall’Ordine dei Medici nei confronti di dottori che hanno partecipato, in un modo o nell’altro, ad una esecuzione. Il professor Arthur Zitrin, ex docente di psichiatria presso la New York University ed ex direttore di psichiatria presso il Bellevue Hospital, ha intenzione di cambiare le cose. “Ho intenzione di identificare i medici che hanno preso parte a delle esecuzioni in un modo o nell’altro al fine di far accusare queste medici di cattiva condotta professionale e di violazione dell’etica medica”, ha dichiarato Zitrin, il quale ha cercato di far espellere Rao dall’American College [una associazione di medici], sforzo rivelatosi inutile in quanto si scoprì che Rao non era più considerato membro del gruppo non essendo in regola col pagamento delle quote. Zitrin ha dichiarato che lui e i suoi due avvocati, Michael Mears e Matthew Rubenstein, denunceranno Rao presso le autorità mediche della Georgia questo mese. “Sono anche sulle tracce di un medico della Virginia e di uno dell’Illinois”, ha detto Zitrin.
Secondo esperti in materia la questione se i medici debbano o non debbano prendere parte alle esecuzioni è molto più complessa ora che il metodo più utilizzato negli USA è l’iniezione letale. Le esecuzioni tramite plotone e sedia elettrica non prevedono l’utilizzo di medici nello stesso modo. “Ciò che è unico nell’utilizzo dell’iniezione letale è che si imita in modo straordinario la procedura medica”, dice il dottor Jonathan Groner, chirurgo presso la Ohio State University e direttore medico presso il Columbus Children Hospital.
Il 24 maggio in una decisione unanime che ha concesso il permesso ad un condannato a morte di mettere in discussione l’iniezione letale come pena crudele ed insolita, la Corte Suprema degli Stati Uniti sembra aver suggerito la presenza di un medico per almeno alcune delle procedure previste. Il condannato in questione, David Nelson, che aveva le vene gravemente danneggiate da anni di uso di droghe, aveva deciso di sfidare le autorità carcerarie dell’Alabama che volevano praticargli un taglio nelle braccia o nelle gambe al fine di procedere con l’esecuzione. “Non c’era alcuna certezza”, secondo quanto scritto nella decisione dal Giudice Sandra Day O’Connor, “in merito alla presenza di un medico durante le procedure”.
Almeno 8 Stati, fra cui la Georgia, cercano di far scudo attorno ai medici in relazione ad eventuali azioni legali nei loro confronti sostenendo che dare una mano nel corso di un’esecuzione non abbia a che fare con la pratica medica.
Baum, che è a favore della partecipazione dei medici alle esecuzioni, sostiene che le leggi [che puniscono i medici] non siano oneste. “Cosa nella procedura non ha a che fare con la pratica medica? Si tratta di inserire cateteri venosi, di somministrare farmaci, di monitorare segni vitali, di dichiarare la morte. Si tratta senza dubbio di pratiche mediche”, sostiene Baum.
Alcuni di coloro che si oppongono alla partecipazione dei medici alle esecuzioni ammettono che in verità il loro scopo è quello di far abolire la pena capitale. “Ammetto che è il mio modo di far sì che venga abolito un procedimento orrendo”, ha dichiarato Wolfe della Public Citizen.
Altri sostengono che sia possibile opporsi alla pena capitale pur approvando che i medici prendano parte alle esecuzioni. “Il ruolo del medico è curare quando possibile e dare conforto quando non sipuò fare altro”, sostiene Baum. “Non vedo alcun conflitto nel lasciare che un medico che prende parte alle esecuzioni si dichiari contro la pena capitale. A mio modo di vedere non esiste alcun conflitto etico, né morale o politico”.

Fonte: The New York Times, 10 giugno 2004
 
 
 
 
 
 

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