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New York – Da
ragazzino adoravo la bandiera americana. Organizzavo parate
patriottiche e costringevo le mie sorelle minori a marciare con
me su e giù per il marciapiede sventolando la bandiera,
soffiando in un fischietto e recitando il Pledge of Allegiance
[giuramento di fedeltà alla bandiera, N.d.T.] fino al punto che
le mie sorelle, sfinite, mi scongiuravano di lasciarle tornare a
giocare coi loro tegamini.
Adoravo cantare l’inno nazionale. Vinsi anche un premio in un
contesto letterario dal titolo “cosa significa per me la
bandiera americana”. Decoravo la mia bicicletta con piccole
bandiere americane in occasione della parata del 4 luglio e una
volta anche per quelle decorazioni vinsi un premio. Diventai un
Eagle Scout [il brevetto Eagle Scout dei Boy Scouts of America
viene firmato dal Presidente degli Stati uniti d'America, N.d.T.]
e con orgoglio promisi di fare il mio dovere e onorare Dio e il
mio Paese. Ogni anno chiedevo di poter essere io a portare e
piantare la bandiera sulla tomba di mio zio, paracadutista
caduto durante la seconda guerra mondiale. Mi fu insegnato ad
ammirare il suo sacrificio e crescendo speravo di poter fare
anche io la mia parte, così come aveva fatto lui, affinché il
mio Paese potesse restare libero.
Al liceo, però, le cose cambiarono. Nove ragazzi della mia
scuola tornarono in bara dal Vietnam. Sopra ad ogni bara c’era
la bandiera americana. Sapevo che anche loro si erano
sacrificati, ma non si trattava di un sacrificio per il Paese:
erano stati mandati a morire da uomini che avevano loro mentito.
Anche quegli uomini – presidenti, senatori, funzionari
governativi – si erano avvolti nella bandiera americana nella
speranza che li avrebbe protetti e che nessuno avrebbe mai posto
loro domande in merito alle loro menzogne. Utilizzarono la
stessa bandiera che aveva coperto le bare di tanti miei amici e
vicini di casa.
Smisi di cantare l’inno nazionale alle partite di football e
smisi di esporre la bandiera americana. Mi rendo conto soltanto
ora che non avrei dovuto smettere.
Da troppo tempo abbiamo lasciato la nostra bandiera in mano a
coloro che la vedono come un simbolo di guerra e dominio, come
un modo per mettere a tacere i dissidi interni. Vediamo bandiere
sventolare sul retro dei SUV [Sport Utility Vehicles, meglio
noti in Italia come gipponi, N.d.T.], sugli edifici delle
concessionarie di automobili, sulle finestre delle aziende di
ogni genere e le troviamo stampate come decorazioni sulla carta
dei fast-food e dei ristoranti. Queste bandiere recano messaggi:
“siete con noi o contro di noi!”, “forza, avanti!”, “attenzione
a ciò che dici, attenzione a ciò che fai”.
Coloro che fuggivano con la bandiera ora la usano come arma
contro coloro che si interrogano sulla strada intrapresa
dall’America. Questo mi fa venire in mente quella famosa foto
del 1976 di un tizio che a Boston protestava contro il trasporto
di ragazzi in scuole pubbliche di altri quartieri per favorire
l’integrazione razziale, il quale voleva conficcare nel petto
del primo uomo nero che incontrava l’asta che teneva in mano
sulla quale sventolava una bandiera americana. Questi cosiddetti
patrioti tenevano la bandiera ben stretta nelle loro mani e, in
posa minacciosa, pretendevano che non venissero loro fatte
domande. Coloro che parlavano chiaro a scuola venivano evitati o
presi di mira e agli Oscar venivano fischiati.
La bandiera è diventata una museruola, un pezzo di stoffa
ficcato in bocca a coloro che osano fare domande.
Credo che sia giunta l’ora che coloro che amano questo Paese – e
tutto ciò che dovrebbe rappresentare – si riapproprino della
propria bandiera e la tolgano a chi la usa unicamente allo scopo
di calpestare i diritti e le libertà della gente, sia qui che
nel resto del mondo. Dobbiamo riappropriarci del vero
significato che ha l’essere un americano orgoglioso.
Se siete fra quelli che sono d’accordo con ciò che il Presidente
Bush ha fatto per questo Paese e ritenete di dover seguire il
Presidente in tutto ciò che fa per meritare la vostra bandiera,
dovreste porvi alcune domande difficili su quanto davvero siete
fieri e orgogliosi dell’America nella quale viviamo ora:
- siete fieri del fatto che uno ogni sei bambini in America vive
in povertà?
- Siete fieri del fatto che 40 milioni di adulti americani sono
analfabeti?
- Siete fieri del fatto che la maggior parte dei posti di lavoro
creati oggigiorno sono pagati al minimo e persino al di sotto
del minimo salariale?
- Siete fieri di chiedere ad altri americani come voi di vivere
con 5,15 dollari all’ora?
- Siete fieri del fatto che secondo un rapporto della National
Geographic Society l’85% degli adulti americani non è in grado
di trovare l’Iraq su una carta geografica e che l’11% non riesce
a trovare neanche gli Stati Uniti d’America?
- Siete fieri del fatto che il resto del mondo, che tanto ci ha
aiutato dopo l’11 settembre, ora ci guarda con sdegno e
disgusto?
- Siete fieri del fatto che circa 3 miliardi di persone di
questo pianeta non ha accesso all’acqua potabile nonostante
esistano le risorse e la tecnologia necessarie per rimediare a
questo immediatamente?
- Siete fieri del fatto che il nostro Presidente ha mandato i
nostri soldati a combattere una guerra che nulla ha a che fare
con la difesa del Paese?
Se queste cose rappresentano cosa vuol dire essere americani
oggi – e io sono americano – è forse necessario ch’io nasconda
il viso per la vergogna? No. Al contrario, è mia intenzione fare
ciò che ritengo mio dovere come patriota. Non mi viene in mente
nient’altro di più americano che porre domande – e pretendere
risposte vere – quando il nostro leader vuole mandare i nostri
figli a morire in guerra.
Se non lo facciamo – ed è il minimo – per coloro che si offrono
di proteggere il nostro Paese, allora tradiamo loro e noi
stessi. Loro sono disposti a morire per noi, se necessario,
affinché noi si possa essere liberi. Tutto ciò che chiedono in
cambio è che non li mandiamo a combattere a meno che non sia
assolutamente necessario. E con questa guerra abbiamo tradito la
fiducia delle nostre truppe mandandole a morire per ragioni
sbagliate ed immorali.
Questo è lo stato di vera disgrazia nel quale viviamo
attualmente. Spero che un giorno sapremo ricompensare questi
ragazzi coraggiosi (e i riservisti e la Guardia Nazionale).
Meritano delle scuse, meritano il nostro grazie – e un aumento –
e meritano una grande parata con tante bandiere.
Vorrei condurla io quella parata, vorrei poter portare la
bandiera più grande. E vorrei che il Paese dichiarasse che mai
più ricorrerà alla guerra a meno che non sia l’unica e sola cosa
da fare.
Creiamo un mondo nel quale quando la gente vede le stelle e le
strisce pensi a noi come al popolo che ha portato la pace nel
mondo, che ha creato posti di lavoro giustamente retribuito per
tutti i cittadini, che ha fatto sì che tutto il mondo abbia a
disposizione acqua potabile.
Nell’attesa di quel giorno, oggi espongo la mia bandiera, con
orgoglio e speranza.
(Fonte:
Los Angeles Times, 4 luglio 2004)
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