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Giustizia e riconciliazione
di Valerio Onida
Vice Presidente della Corte Costituzionale Italiana
 

 
  Il diritto incontra un limite intrinseco nell’affrontare il tema che stiamo trattando, in quanto esso si rivolge sempre all’aspetto “esterno” delle relazioni sociali. Quello “interno” sfugge al suo intervento. Quindi, quando parliamo di riconciliazione, prendiamo in considerazione aspetti della vita delle persone che necessariamente esulano dal campo specifico del diritto. Lo stesso termine giustizia, che è intrinsecamente legato al diritto, solo in parte può cadere sotto le sue competenze. Quando parliamo di giustizia, lo facciamo intendendo con tale termine la ricerca della creazione di nuovi assetti dei rapporti sociali conformi ad un modello, o ad un ideale. O, piuttosto, da un punto di vista giudiziario, prendendo in considerazione chi l’amministra, chi rende giustizia per far cessare conflitti e ristabilire equilibri violati. Le misure della giustizia sono tese, cioè, a ricostituire una situazione così come avrebbe dovuto essere; oppure possono essere azioni compensative (risarcimento dei danni, sanzioni penali, ecc.), quando non è possibile rimettere le cose come erano prima che il reato fosse compiuto.

La nostra idea di giustizia
Nella nostra esperienza giuridica quotidiana, siamo portati a pensare che rispetto ai conflitti ed alle vicende che coinvolgono i cittadini, lo stato svolga funzioni di giustizia, cioè amministri la giustizia e renda giustizia attraverso i suoi organi in funzione del mantenimento della pace sociale, del ripristino dell’ordine violato. Normalmente lo Stato, quando amministra la giustizia, si limita a individuare la soluzione giusta che dovrà essere rispettata dalle parti in conflitto, ma si disinteressa dell’atteggiamento profondo, interiore, dei protagonisti del conflitto stesso, quindi della riconciliazione.
Parlare di riconciliazione, rispetto alla giustizia, in termini giuridici è scarsamente afferrabile; non che nei testi legislativi non si parli di conciliazione, ma essa è normalmente vista come qualcosa di alternativo al fare giustizia, che rende cioè superflua la giustizia autoritativa. Se la pace sociale si raggiunge attraverso la conciliazione delle parti in conflitto, non c’è più bisogno di rendere giustizia. E quindi, in materia civile, se le due parti, in attuale o potenziale conflitto, si mettono d’accordo, non c’è ragione per un intervento di giustizia.

Nel diritto penale
In campo penale, poi, c’è un qualche spazio di disponibilità verso la parte offesa; in questo caso ci sono reati di tipo minore che sono punibili soltanto se la parte offesa si attiva. C’è tutta una legislazione, anche recente, ad esempio la legge sulla competenza penale dei giudici di pace, che per i reati minori esprime questo favore per la conciliazione, intesa sempre come alternativa alla giustizia. Cioè, se le parti si mettono d’accordo, non c’è più bisogno dell’intervento tradizionale del giudice; si tratta di una sorta di funzione deflattiva della giustizia che lo Stato assolve.
Nel diritto penale questo è possibile per i reati minori per i quali si considera giustificata la punizione solo se la persona offesa prende direttamente l’iniziativa. Là dove è invece in gioco una violazione di diritti essenziali della persona o della collettività, il diritto penale prevede una iniziativa d’ufficio. In questo caso l’applicazione delle sanzioni (il rendere giustizia), così come il ristabilimento dell’ordine, sono del tutto indipendenti dalla volontà delle parti in conflitto.
Potremmo allora dire che il nostro diritto, in particolare quello penale, è fondamentalmente orientato nel senso di considerare la pena applicata al reato come il frutto dell’esercizio della potestà dello Stato; in questo caso, si parla di potestà punitiva dello Stato. L’esecuzione della pena è un “affare” che riguarda esclusivamente, da una parte, l’autorità, e, dall’altra, l’individuo imputato ed eventualmente condannato. Già questo è significativo, perché la vittima del reato compare soltanto lateralmente; può partecipare all’iniziativa penale, ma solo come parte collaterale, fondamentalmente estranea. E quando c’è l’accertamento, l’applicazione della pena, la condanna, diventa del tutto irrilevante: per il nostro diritto, la vittima del reato non c’è più.
Certo, se il reo risarcisce il danno, questo normalmente gli è computato come un’attenuante e quindi potrà ricevere una condanna minore. Però, al fine della condanna, la vittima del reato, la parte offesa, diventa irrilevante; la pena riguarda il singolo condannato e l’autorità che la esegue.

Dalla giustizia punitiva a quella riparativa
La pena dovrebbe poi rispettare la funzione che il nostro sistema costituzionale contempla: quella di rieducazione. Si parla infatti di un “percorso rieducativo” di chi è in carcere: tale percorso dovrebbe essere segnato dal tentativo di risocializzare l’individuo che ha commesso un reato per il quale è stato condannato, accompagnandolo via via dalla concessione di benefici, di parziali restrizioni, alle misure detentive.
Nei fatti, non esiste alcun mezzo per poter dire che chi ha commesso un reato e ha scontato una pena, si è riabilitato, ravveduto. Si fanno delle valutazioni, ma sono tutte molto approssimative. E ciò è un bene, perché non è pensabile un sistema penale che si proponga di continuare l’esecuzione della pena sin quando non si sia accertato il ravvedimento del reo. In tal caso avremmo un sistema penale del tutto illiberale, perché il condannato resterebbe sottoposto alla potestà punitiva a tempo indeterminato, fino a quando qualcuno dirà che si è ravveduto.
Poi c’è il provvedimento di grazia, che condona la pena ad un singolo individuo. Anche in questo caso, è l’autorità che compie una valutazione a suo modo discrezionale. Certo, nell’istruttoria per la domanda di grazia si accerta se c’è stato un risarcimento del danno, si chiede il parere della persona offesa, ma tutto ciò non è determinante al fine della concessione della grazia. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un “affare” che corre tra lo Stato - titolare della potestà punitiva - e il singolo condannato. Queste, in sostanza, sono le caratteristiche fondamentali del nostro diritto penale che, vale ricordarlo, ha connotati preziosi. Il fatto che esso sia ispirato a stretti principi di legalità, per cui una persona deve sapere prima quali pene conseguono al reato che commette, e non ci sono valutazioni soggettive, discrezionali, è indubbiamente una garanzia importante.

Elementi nuovi
Però, alla fine, si tratta pur sempre di un diritto penale, di un tipo di giustizia che, come è stato detto da p. Lapsley nella sua relazione/testimonianza, è ispirato all’idea retributiva, presente anche nell’eventuale processo rieducativo del reo. Rimangono del tutto esterne le vittime, e soprattutto la comunità rappresentata esclusivamente dall’autorità dello Stato che interviene a restaurare l’ordine e ad applicare le pene. E altrettanto vero, però, che oggi, e non solo in Italia, anche sulla spinta di raccomandazioni di organismi internazionali, come la commissione del Consiglio economico sociale dell’Onu e dello stesso Consiglio d’Europa, si è incominciato a parlare della possibilità di introdurre nel sistema penale elementi nuovi che vengono chiamati di “giustizia riparativa”. Il documento delle Nazioni Unite la indica come “una risposta evolutiva al crimine, che rispetta la dignità e l’eguaglianza di ogni persona, costruisce comprensione, promuove armonia sociale attraverso la cura delle vittime, degli autori dei reati e delle comunità”.
Questi documenti incoraggiano gli Stati ad attuare processi di giustizia di questo tipo, a cui prendono parte vittime e autori del reato e, nel caso, anche altri membri della comunità coinvolti. Ma questi soggetti vi partecipano per libera scelta ed insieme, tutti alla ricerca di possibili soluzioni rispetto alle conseguenze del reato, eventualmente anche con l’aiuto di mediatori o facilitatori. Si noti che in questi documenti sulla giustizia riparativa si dice espressamente che queste idee traggono ispirazione da forme tradizionali, indigene di giustizia, le quali considerano il crimine, prima che una sfida alle leggi dello Stato, un danno per la comunità.

Sistemi sanzionatori diversi
È da sottolineare, in questo caso, il coinvolgimento delle vittime dei reati e della comunità, quindi il superamento dell’idea che la repressione penale riguardi esclusivamente lo Stato e l’autore del reato. Per altro verso, si può dire anche che la ricerca di sistemi sanzionatori penali diversi, alternativi alla pena carceraria, è un po’ sulla stessa linea, in quanto si tratta di una soluzione - seppur ancora con un aspetto punitivo - che va al di là della mera afflizione retributiva. Per esempio, quando le leggi introducono come pena il lavoro sostitutivo o di pubblica utilità, già per lo meno accennano a una diversa concezione della pena, più costruttiva della classica risposta meramente retributiva. Nel nostro Paese però, ci sono istituti che stanno sulla carta delle leggi, ma vengono attuati pochissimo. Quanto detto riguarda l’ispirazione del nostro diritto penale come risposta ordinaria, quotidiana ai reati, ai fatti individuali commessi da singole persone che vanno contro l’ordine costituito, legale, giuridico.
Quando le situazioni di conflitto, di violazione di diritti riguardano invece intere collettività, come nelle situazioni di guerra civile, di conflitti interetnici, di regimi oppressivi, di guerre di liberazione, è chiaro che il problema del fare giustizia si pone in termini diversi. Ciò che abbiamo ascoltato nella relazione di p. Lapsley era un chiaro esempio di una risposta data non ad una serie di crimini individuali, occasionalmente commessi in un Paese ed in un certo periodo di tempo, ma ad vicenda complessiva che ha coinvolto intere collettività anche tra loro in conflitto.

Reati individuali e colpe collettive
In questi casi si pongono nuovi problemi, perché nei conflitti collettivi le violazioni riguardano e tendono a coinvolgere, al di là dei singoli individui autori o vittime, l’intera comunità. Anche chi non è direttamente né autore né vittima, si sente spesso partecipe e “responsabile” delle ragioni del conflitto. Le violazioni che si possono constatare non sono semplici deviazioni, isolate, di un ordine costituito, ma esse, nel loro insieme, mettono in discussione le stesse premesse della possibilità di una convivenza. In questo caso lo Stato e la sua giustizia non possono assicurare efficacemente il mantenimento della pace e dell’ordine giuridico, anche perché spesso non c’è un ordine costituito accettato dalla collettività, in quanto si tratta di un ordine ingiusto: pensiamo all’apartheid in Sudafrica.
In questo caso accade che una parte in conflitto si identifichi con lo Stato, col regime che lo regge. Quindi l’apparato giudiziario, che normalmente è chiamato a rendere giustizia, in realtà viene vissuto, e talvolta lo è, come lo strumento di una parte contro le altre. Abbastanza frequentemente le violazioni ed i torti riguardano persone non appartenenti ad una sola, ma a tutte le parti in conflitto. Per cui le diverse collettività che si scontrano, appaiono di volta in volta vittime e colpevoli. Di fronte a conflitti di questo tipo, la risposta penale tradizionale è del tutto insufficiente; quindi la prima esigenza è di superare le situazioni di violenza e di ingiustizia andando ad individuare ed affrontare le cause profonde del conflitto per costruire le basi per questa convivenza che non c’è o è venuta meno. Tuttavia, se l’esigenza fondamentale è quella che guarda al futuro, cioè quella di costruire un nuovo stato di convivenza, sia quando il conflitto violento si esaurisce con la definitiva sconfitta di una parte (pensiamo alle guerre tradizionali), sia quando invece esso finisce attraverso negoziati, come nel caso sudafricano, con accordi tra le parti, resta sempre il problema di curare le ferite del passato e dare risposta alla violazione dei diritti.
I periodi sono spesso lunghi; ad esempio, in Sudafrica, la fase presa legalmente in considerazione è quella che va dal 1960 al 1994: 34 anni di conflitti e sistematica violazione dei diritti umani. Aggiungiamo anche che quando un conflitto è violento, esso si autoalimenta: nelle situazioni di guerra civile, di rivoluzione armata, non si usa la forza solo per resistere o prevalere, ma è molto facile che si scatenino violenze cosiddette “gratuite”, cioè, quelle violenze che vanno a danno di persone non combattenti e si diffondono senza un’immediata strumentalità rispetto alla ragione stessa del conflitto.

Uscire dal vortice della violenza
È sconcertante osservare come talvolta lo scatenamento della cosiddetta violenza “gratuita”, ad esempio su persone oramai inoffensive, è del tutto indipendente dalle ragioni del conflitto in atto e persino dalla bontà della causa per la quale si combatte. Sembra imporsi una logica di rivalsa, di vendetta: i carnefici si trasformano in vittime e le vittime in carnefici. È vero che, come insegna l’esperienza, il costituirsi di posizioni di potere assoluto di una persona su altre rischia sempre di favorire l’uso di questo tipo di violenza. Non a caso, nella nostra Costituzione, l’art. 27 afferma che è punita ogni violenza fisica e morale a carico di persone comunque sottoposte a restrizione di libertà – per l’appunto la violenza “gratuita” – su una persona ormai resa inoffensiva, dove non c’è più la giustificazione o l’alibi di dover resistere o impedire qualcosa di negativo.
Le situazioni di conflitto violento allentano il senso della legalità, acuendo i sentimenti collettivi di odio e di contrapposizione, favorendo e offrendo alibi al manifestarsi di questo fenomeno. Il conflitto violento tende a disumanizzare tutti i suoi protagonisti. Anche per tale ragione, queste fasi di conflitto violento costringono a fare i conti con un numero particolarmente elevato e crudele di violazioni di diritti umani. Ogni conflitto che termina ha alle spalle una quantità di torti e violenze anche “gratuite” tali che pongono alla società la necessità di affrontare questo delicato e complesso passaggio.

L’amnistia
Di fronte a ciò, una delle risposte più frequenti che svolge una funzione di pacificazione, di costruzione del futuro, è quella dell’oblio legale, cioè l’amnistia. Essa è un provvedimento collettivo che, prendendo in considerazione un periodo di tempo specifico, durante il quale si sono create situazioni particolari di conflitto che hanno favorito, incentivato, consentito una commistione di torti, ingiustizie e violazione di diritti, fa in modo che quanti hanno commesso questi reati non siano puniti: la pena si cancella, come se il crimine non fosse mai accaduto. Normalmente il diritto penale si regge sull’idea che chiunque abbia adottato una certa condotta vietata è punito. C’è in questo, una sorta di automatismo. L’amnistia invece rompe questo automatismo, segna visibilmente una discontinuità: “Chiudiamo quel periodo”.

Perché il passato “passi” davvero
Ma è un modo “rozzo” di fare i conti con il passato, perché non si fa carico della sua eredità. Esiste anche il fenomeno della prescrizione dei reati; non si accertano nemmeno più quando è passato troppo tempo. Ma se non ci si fa carico delle conseguenze di ciò che è accaduto, si rischia di lasciare in vita le ragioni, le radici dell’odio e del conflitto, le quali, anche a distanza di molto tempo, in modo inatteso, possono produrre nuovi frutti avvelenati. Come ha scritto l’arcivescovo Desmond Tutu, “l’amnistia generalizzata corrisponde di fatto ad una rimozione collettiva, e invece il passato ha l’irritante, l’incoercibile proprietà di tornare a perseguitarci finché non lo si sia affrontato in maniera adeguata”. É un bellissimo modo di far capire che la soluzione della cancellazione, dell’amnistia, non può funzionare.
Una risposta possibile, alternativa, è quella di punire i colpevoli, di fare giustizia nel modo consueto, tradizionale: si accertano i fatti, si istituiscono tribunali straordinari e si puniscono i responsabili. Ma, a parte le ragioni di compromesso che storicamente ci sono e che portano ad escludere una soluzione di questo tipo, dobbiamo riconoscere che la risposta puramente giudiziaria - per ogni fatto un processo che accerti fino in fondo ciò che è accaduto e applichi le pene legalmente previste - non è adeguata di per sé ad affrontare situazioni e conseguenze che molto spesso vanno al di là delle vicende delle singole persone. Infatti, in questo tipo di processi, ci sono responsabilità collettive che non potrebbero essere mai oggetto di accertamento in sede giudiziaria. Se il conflitto si chiude con la netta prevalenza di una parte su un’altra, c’è il rischio di una giustizia a senso unico: la giustizia del vincitore.
Quindi, una risposta solo in termini di giustizia punitiva si rivela largamente insufficiente, anche rispetto alle sole esigenze di conoscenza della verità. È pur vero che di fronte alle esigenze di verità, nelle nostre società si ricorre ad altri strumenti, come, ad esempio, l’inchiesta parlamentare, che in Italia viene molto utilizzata per ricostruire vicende collettive che hanno incluso violazione di diritti, delitti, ecc., colpito non solo singoli individui ma la comunità intera. In questi casi, l’inchiesta viene varata per approfondire le cause dei fenomeni, per formulare giudizi politici o proposte di intervento. Va comunque ricordato che le commissioni di inchiesta, per il nostro ordinamento, operano con poteri simili a quelli dell’autorità giudiziaria, anche se non mirano ad accertare i singoli fatti né ad applicare sanzioni né rimedi: puntano soltanto ad arricchire la conoscenza della società, o del ceto politico. Sono strumenti poco adatti ad occuparsi delle conseguenze più profonde, che toccano i singoli individui e la società. Inoltre, dato che queste commissioni di inchiesta sono formate nell’ambito del Parlamento, nella loro attività e conclusioni sono spesso influenzate da valutazioni e dialettiche di carattere strettamente politico. Rispetto al modello giudiziario tradizionale o al tentativo di affrontare i temi con inchieste di tipo politico parlamentare, le Commissioni sulla Verità e Riconciliazione cercano di dare una risposta diversa.

L’esperienza del sudafrica
Sono molte queste esperienze, ma quella sudafricana è la più interessante. In primo luogo perché questa commissione era costituita con caratteristiche simili a quelle dei tribunali; essa era formata da 19 componenti, tutti nominati dal presidente Nelson Mandela, ma, come diceva la sua legge istitutiva, scelti fra “persone idonee e degne, imparziali e che non abbiano un altro profilo politico”.
Un modo di composizione simile a quello degli apparati giudiziari, con figure caratterizzate da imparzialità, non politicità, nel senso del non coinvolgimento diretto con le parti in conflitto, perché la commissione, come ricordava sempre Mandela, si rivolgeva contemporaneamente “alle vittime e agli autori delle violazioni”, e l’accertamento della verità non era funzionale alla punizione dei responsabili (giustizia punitiva), ma diretto ad applicare l’amnistia e a creare migliori condizioni per tutti (giustizia riparativa).
Al fondo di questo percorso, quindi, ci doveva essere non la punizione dei responsabili, ma l’amnistia; questo fatto non solo non ne svuotava il senso, ma ne accresceva il ruolo. Insomma, si passava dalla verità cercata come premessa all’attuazione della giustizia punitiva, alla verità indagata come condizione della riconciliazione. P. Lapsley ci ha anche ricordato alcune delle sue caratteristiche formali: sono 49 lunghissimi articoli che dettagliatamente disciplinano il modo con cui essa avrebbe dovuto operare.
Sul terreno più strettamente giuridico, questa commissione operava attraverso specifici comitati: uno sulla violazione dei diritti umani, che aveva lo scopo di realizzare le indagini per accertare gli abusi e chi ne fosse stato vittima. Un secondo interveniva sulla riparazione e riabilitazione. Ad esso riferiva il primo comitato, quando accertava che vi erano delle vittime, in vista della elaborazione ed approvazione di misure riparative. Infine, c’era un terzo comitato, quello per l’amnistia, presieduto da un giudice e composto prevalentemente da soggetti esterni alla commissione plenaria e operante in modo autonomo da essa, il quale riceveva le domande d’amnistia e valutava se vi fossero i presupposti per concederla. I diritti violati e presi in considerazione erano comunque solo quelli “nascenti da atti associati a un obiettivo politico, commessi od ordinati da funzionari dello Stato, da forze di sicurezza o da combattenti delle organizzazioni politiche”. Non si trattava quindi di un’amnistia generalizzata, ma di un provvedimento specificamente legato ai delitti politici compiuti durante quel periodo. Queste caratteristiche, credo, abbiano influito molto sul suo successo.

Veritá e riconciliazione
Che dire su un’esperienza così ricca di insegnamenti dal punto i vista del diritto? Va in primo luogo ribadito che la verità e soprattutto la riconciliazione sono obiettivi di per sé al di fuori della portata di un meccanismo giuridico: la verità, perché siamo consapevoli dei limiti che incontra il suo l’accertamento attraverso gli strumenti giudiziari, soprattutto in circostanze come quelle rappresentate dal caso sudafricano Ma soprattutto la riconciliazione, per una ragione più radicale: essa presuppone atti ed atteggiamenti assunti in piena ed incoercibile libertà dalle persone implicate. Quando si parla di forme di giustizia riparativa, è interessante notare che questi processi possono attuarsi nella misura in cui siano liberamente scelti dai protagonisti. Non è possibile costringere nessuno a riconciliarsi. Il diritto non può farlo. É una caratteristica che dobbiamo sempre sottolineare.
Esperienze come quella sudafricana si collocano su una frontiera avanzata della giustizia umana. Il diritto non può di per sé riconciliare, ma può creare od offrire strumenti che possano condurre alla riconciliazione. In questo senso l’esperienza delle Commissioni per la Verità e Riconciliazione, al di là del caso sudafricano, rappresenta un esempio importante di giustizia riparativa. La riconciliazione intesa non quale sostituto di ripiego rispetto alla giustizia, come invece accade nei nostri sistemi, ma una riconciliazione che esprime una sorta di giustizia superiore.

La sovranitá della costituzione
Un’ultima osservazione: l’esperienza della commissione sudafricana si inserisce, come è noto, nel processo di costituzionalizzazione di questo Paese, del nuovo Stato post-apartheid. Esso, quando ha deciso di chiudere il conflitto, si è dato una costituzione democratica. Non è stata subito elaborata una costituzione definitiva ma una provvisoria; lì si parlava espressamente della commissione e si esplicitavano i fondamenti ideologici e costituzionali di questo processo. In quel testo si diceva che la costituzione fornisce un ponte storico fra il passato di una società divisa ed il futuro di una società di coesistenza pacifica per tutti i sudafricani, senza discriminazione. Affermava che c’è bisogno di comprensione e non di vendetta, di riparazione e non di ritorsione, cioè di ubuntu.
È importante sottolineare il significato costituzionale che ha assunto nell’esperienza sudafricana l’uso di questi strumenti di riconciliazione. La legalità ordinaria (la legge, lo Stato, le autorità) e i suoi strumenti, in particolare quelli giudiziari (i tribunali, le corti, i giudici), possono essere usati anche in regimi retti dalla volontà della maggioranza, formalmente democratici, per commettere o legalizzare atti di ingiustizia. Solo se la legalità è sottoposta a principi più alti, può nascerne una nuova sulla base della riconciliazione. La pura legalità non basta. E questi principi, dal punto di vista della giustizia umana, sono quelli costituzionali. Ma non nel senso formale, semplicemente perché sono scritti in un testo che chiamiamo “Costituzione”, ma perché devono essere intesi come principi comuni, universali, di giustizia e di umanità, che ispirano la legge fondamentale dello Stato e di cui si garantisce l’osservanza. C’è a questo proposito, una frase di Desmond Tutu molto significativa: “Le parole ‘mai più’, esprimono l’impegno del nuovo Sudafrica: mai più potrà accadere che nell’ordine e nella legalità più scrupolosi, venga approvata una legge che trasformi la vita di tanti in un inferno, perché, nel nuovo Sudafrica, la sovranità non è del Parlamento. Sovrana è la nostra costituzione. Le leggi non saranno più fatte a capriccio dei legislatori, ma dovranno misurarsi con il nostro tribunale più alto, la corte costituzionale che applica la costituzione. La costituzione non è solo un pezzo di carta: è un patto solenne a cui partecipano tutti i sudafricani tramite i loro rappresentanti”. Un patto che accoglie e sancisce i principi permanenti del rispetto dei diritti umani, della libertà, della non discriminazione e della democrazia. Questo è un monito che mi pare valga molto al di là dell’esperienza sudafricana: per tutti i popoli, per tutti gli stati, per tutti i tempi.
 

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