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Giustizia e
riconciliazione
di
Valerio Onida
Vice Presidente della Corte Costituzionale Italiana
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Il diritto
incontra un limite intrinseco nell’affrontare il tema che stiamo
trattando, in quanto esso si rivolge sempre all’aspetto
“esterno” delle relazioni sociali. Quello “interno” sfugge al
suo intervento. Quindi, quando parliamo di riconciliazione,
prendiamo in considerazione aspetti della vita delle persone che
necessariamente esulano dal campo specifico del diritto. Lo
stesso termine giustizia, che è intrinsecamente legato al
diritto, solo in parte può cadere sotto le sue competenze.
Quando parliamo di giustizia, lo facciamo intendendo con tale
termine la ricerca della creazione di nuovi assetti dei rapporti
sociali conformi ad un modello, o ad un ideale. O, piuttosto, da
un punto di vista giudiziario, prendendo in considerazione chi
l’amministra, chi rende giustizia per far cessare conflitti e
ristabilire equilibri violati. Le misure della giustizia sono
tese, cioè, a ricostituire una situazione così come avrebbe
dovuto essere; oppure possono essere azioni compensative
(risarcimento dei danni, sanzioni penali, ecc.), quando non è
possibile rimettere le cose come erano prima che il reato fosse
compiuto.
La
nostra idea di giustizia
Nella nostra esperienza giuridica quotidiana, siamo portati a
pensare che rispetto ai conflitti ed alle vicende che
coinvolgono i cittadini, lo stato svolga funzioni di giustizia,
cioè amministri la giustizia e renda giustizia attraverso i suoi
organi in funzione del mantenimento della pace sociale, del
ripristino dell’ordine violato. Normalmente lo Stato, quando
amministra la giustizia, si limita a individuare la soluzione
giusta che dovrà essere rispettata dalle parti in conflitto, ma
si disinteressa dell’atteggiamento profondo, interiore, dei
protagonisti del conflitto stesso, quindi della riconciliazione.
Parlare di riconciliazione, rispetto alla giustizia, in termini
giuridici è scarsamente afferrabile; non che nei testi
legislativi non si parli di conciliazione, ma essa è normalmente
vista come qualcosa di alternativo al fare giustizia, che rende
cioè superflua la giustizia autoritativa. Se la pace sociale si
raggiunge attraverso la conciliazione delle parti in conflitto,
non c’è più bisogno di rendere giustizia. E quindi, in materia
civile, se le due parti, in attuale o potenziale conflitto, si
mettono d’accordo, non c’è ragione per un intervento di
giustizia.
Nel
diritto penale
In campo penale, poi, c’è un qualche spazio di disponibilità
verso la parte offesa; in questo caso ci sono reati di tipo
minore che sono punibili soltanto se la parte offesa si attiva.
C’è tutta una legislazione, anche recente, ad esempio la legge
sulla competenza penale dei giudici di pace, che per i reati
minori esprime questo favore per la conciliazione, intesa sempre
come alternativa alla giustizia. Cioè, se le parti si mettono
d’accordo, non c’è più bisogno dell’intervento tradizionale del
giudice; si tratta di una sorta di funzione deflattiva della
giustizia che lo Stato assolve.
Nel diritto penale questo è possibile per i reati minori per i
quali si considera giustificata la punizione solo se la persona
offesa prende direttamente l’iniziativa. Là dove è invece in
gioco una violazione di diritti essenziali della persona o della
collettività, il diritto penale prevede una iniziativa
d’ufficio. In questo caso l’applicazione delle sanzioni (il
rendere giustizia), così come il ristabilimento dell’ordine,
sono del tutto indipendenti dalla volontà delle parti in
conflitto.
Potremmo allora dire che il nostro diritto, in particolare
quello penale, è fondamentalmente orientato nel senso di
considerare la pena applicata al reato come il frutto
dell’esercizio della potestà dello Stato; in questo caso, si
parla di potestà punitiva dello Stato. L’esecuzione della pena è
un “affare” che riguarda esclusivamente, da una parte,
l’autorità, e, dall’altra, l’individuo imputato ed eventualmente
condannato. Già questo è significativo, perché la vittima del
reato compare soltanto lateralmente; può partecipare
all’iniziativa penale, ma solo come parte collaterale,
fondamentalmente estranea. E quando c’è l’accertamento,
l’applicazione della pena, la condanna, diventa del tutto
irrilevante: per il nostro diritto, la vittima del reato non c’è
più.
Certo, se il reo risarcisce il danno, questo normalmente gli è
computato come un’attenuante e quindi potrà ricevere una
condanna minore. Però, al fine della condanna, la vittima del
reato, la parte offesa, diventa irrilevante; la pena riguarda il
singolo condannato e l’autorità che la esegue.
Dalla giustizia punitiva a quella riparativa
La pena dovrebbe poi rispettare la funzione che il nostro
sistema costituzionale contempla: quella di rieducazione. Si
parla infatti di un “percorso rieducativo” di chi è in carcere:
tale percorso dovrebbe essere segnato dal tentativo di
risocializzare l’individuo che ha commesso un reato per il quale
è stato condannato, accompagnandolo via via dalla concessione di
benefici, di parziali restrizioni, alle misure detentive.
Nei fatti, non esiste alcun mezzo per poter dire che chi ha
commesso un reato e ha scontato una pena, si è riabilitato,
ravveduto. Si fanno delle valutazioni, ma sono tutte molto
approssimative. E ciò è un bene, perché non è pensabile un
sistema penale che si proponga di continuare l’esecuzione della
pena sin quando non si sia accertato il ravvedimento del reo. In
tal caso avremmo un sistema penale del tutto illiberale, perché
il condannato resterebbe sottoposto alla potestà punitiva a
tempo indeterminato, fino a quando qualcuno dirà che si è
ravveduto.
Poi c’è il provvedimento di grazia, che condona la pena ad un
singolo individuo. Anche in questo caso, è l’autorità che compie
una valutazione a suo modo discrezionale. Certo,
nell’istruttoria per la domanda di grazia si accerta se c’è
stato un risarcimento del danno, si chiede il parere della
persona offesa, ma tutto ciò non è determinante al fine della
concessione della grazia. Anche in questo caso ci troviamo di
fronte ad un “affare” che corre tra lo Stato - titolare della
potestà punitiva - e il singolo condannato. Queste, in sostanza,
sono le caratteristiche fondamentali del nostro diritto penale
che, vale ricordarlo, ha connotati preziosi. Il fatto che esso
sia ispirato a stretti principi di legalità, per cui una persona
deve sapere prima quali pene conseguono al reato che commette, e
non ci sono valutazioni soggettive, discrezionali, è
indubbiamente una garanzia importante.
Elementi nuovi
Però, alla fine, si tratta pur sempre di un diritto penale, di
un tipo di giustizia che, come è stato detto da p. Lapsley nella
sua relazione/testimonianza, è ispirato all’idea retributiva,
presente anche nell’eventuale processo rieducativo del reo.
Rimangono del tutto esterne le vittime, e soprattutto la
comunità rappresentata esclusivamente dall’autorità dello Stato
che interviene a restaurare l’ordine e ad applicare le pene. E
altrettanto vero, però, che oggi, e non solo in Italia, anche
sulla spinta di raccomandazioni di organismi internazionali,
come la commissione del Consiglio economico sociale dell’Onu e
dello stesso Consiglio d’Europa, si è incominciato a parlare
della possibilità di introdurre nel sistema penale elementi
nuovi che vengono chiamati di “giustizia riparativa”. Il
documento delle Nazioni Unite la indica come “una risposta
evolutiva al crimine, che rispetta la dignità e l’eguaglianza di
ogni persona, costruisce comprensione, promuove armonia sociale
attraverso la cura delle vittime, degli autori dei reati e delle
comunità”.
Questi documenti incoraggiano gli Stati ad attuare processi di
giustizia di questo tipo, a cui prendono parte vittime e autori
del reato e, nel caso, anche altri membri della comunità
coinvolti. Ma questi soggetti vi partecipano per libera scelta
ed insieme, tutti alla ricerca di possibili soluzioni rispetto
alle conseguenze del reato, eventualmente anche con l’aiuto di
mediatori o facilitatori. Si noti che in questi documenti sulla
giustizia riparativa si dice espressamente che queste idee
traggono ispirazione da forme tradizionali, indigene di
giustizia, le quali considerano il crimine, prima che una sfida
alle leggi dello Stato, un danno per la comunità.
Sistemi sanzionatori diversi
È da sottolineare, in questo caso, il coinvolgimento delle
vittime dei reati e della comunità, quindi il superamento
dell’idea che la repressione penale riguardi esclusivamente lo
Stato e l’autore del reato. Per altro verso, si può dire anche
che la ricerca di sistemi sanzionatori penali diversi,
alternativi alla pena carceraria, è un po’ sulla stessa linea,
in quanto si tratta di una soluzione - seppur ancora con un
aspetto punitivo - che va al di là della mera afflizione
retributiva. Per esempio, quando le leggi introducono come pena
il lavoro sostitutivo o di pubblica utilità, già per lo meno
accennano a una diversa concezione della pena, più costruttiva
della classica risposta meramente retributiva. Nel nostro Paese
però, ci sono istituti che stanno sulla carta delle leggi, ma
vengono attuati pochissimo. Quanto detto riguarda l’ispirazione
del nostro diritto penale come risposta ordinaria, quotidiana ai
reati, ai fatti individuali commessi da singole persone che
vanno contro l’ordine costituito, legale, giuridico.
Quando le situazioni di conflitto, di violazione di diritti
riguardano invece intere collettività, come nelle situazioni di
guerra civile, di conflitti interetnici, di regimi oppressivi,
di guerre di liberazione, è chiaro che il problema del fare
giustizia si pone in termini diversi. Ciò che abbiamo ascoltato
nella relazione di p. Lapsley era un chiaro esempio di una
risposta data non ad una serie di crimini individuali,
occasionalmente commessi in un Paese ed in un certo periodo di
tempo, ma ad vicenda complessiva che ha coinvolto intere
collettività anche tra loro in conflitto.
Reati individuali e colpe collettive
In questi casi si pongono nuovi problemi, perché nei conflitti
collettivi le violazioni riguardano e tendono a coinvolgere, al
di là dei singoli individui autori o vittime, l’intera comunità.
Anche chi non è direttamente né autore né vittima, si sente
spesso partecipe e “responsabile” delle ragioni del conflitto.
Le violazioni che si possono constatare non sono semplici
deviazioni, isolate, di un ordine costituito, ma esse, nel loro
insieme, mettono in discussione le stesse premesse della
possibilità di una convivenza. In questo caso lo Stato e la sua
giustizia non possono assicurare efficacemente il mantenimento
della pace e dell’ordine giuridico, anche perché spesso non c’è
un ordine costituito accettato dalla collettività, in quanto si
tratta di un ordine ingiusto: pensiamo all’apartheid in
Sudafrica.
In questo caso accade che una parte in conflitto si identifichi
con lo Stato, col regime che lo regge. Quindi l’apparato
giudiziario, che normalmente è chiamato a rendere giustizia, in
realtà viene vissuto, e talvolta lo è, come lo strumento di una
parte contro le altre. Abbastanza frequentemente le violazioni
ed i torti riguardano persone non appartenenti ad una sola, ma a
tutte le parti in conflitto. Per cui le diverse collettività che
si scontrano, appaiono di volta in volta vittime e colpevoli. Di
fronte a conflitti di questo tipo, la risposta penale
tradizionale è del tutto insufficiente; quindi la prima esigenza
è di superare le situazioni di violenza e di ingiustizia andando
ad individuare ed affrontare le cause profonde del conflitto per
costruire le basi per questa convivenza che non c’è o è venuta
meno. Tuttavia, se l’esigenza fondamentale è quella che guarda
al futuro, cioè quella di costruire un nuovo stato di
convivenza, sia quando il conflitto violento si esaurisce con la
definitiva sconfitta di una parte (pensiamo alle guerre
tradizionali), sia quando invece esso finisce attraverso
negoziati, come nel caso sudafricano, con accordi tra le parti,
resta sempre il problema di curare le ferite del passato e dare
risposta alla violazione dei diritti.
I periodi sono spesso lunghi; ad esempio, in Sudafrica, la fase
presa legalmente in considerazione è quella che va dal 1960 al
1994: 34 anni di conflitti e sistematica violazione dei diritti
umani. Aggiungiamo anche che quando un conflitto è violento,
esso si autoalimenta: nelle situazioni di guerra civile, di
rivoluzione armata, non si usa la forza solo per resistere o
prevalere, ma è molto facile che si scatenino violenze
cosiddette “gratuite”, cioè, quelle violenze che vanno a danno
di persone non combattenti e si diffondono senza un’immediata
strumentalità rispetto alla ragione stessa del conflitto.
Uscire dal vortice della violenza
È sconcertante osservare come talvolta lo scatenamento della
cosiddetta violenza “gratuita”, ad esempio su persone oramai
inoffensive, è del tutto indipendente dalle ragioni del
conflitto in atto e persino dalla bontà della causa per la quale
si combatte. Sembra imporsi una logica di rivalsa, di vendetta:
i carnefici si trasformano in vittime e le vittime in carnefici.
È vero che, come insegna l’esperienza, il costituirsi di
posizioni di potere assoluto di una persona su altre rischia
sempre di favorire l’uso di questo tipo di violenza. Non a caso,
nella nostra Costituzione, l’art. 27 afferma che è punita ogni
violenza fisica e morale a carico di persone comunque sottoposte
a restrizione di libertà – per l’appunto la violenza “gratuita”
– su una persona ormai resa inoffensiva, dove non c’è più la
giustificazione o l’alibi di dover resistere o impedire qualcosa
di negativo.
Le situazioni di conflitto violento allentano il senso della
legalità, acuendo i sentimenti collettivi di odio e di
contrapposizione, favorendo e offrendo alibi al manifestarsi di
questo fenomeno. Il conflitto violento tende a disumanizzare
tutti i suoi protagonisti. Anche per tale ragione, queste fasi
di conflitto violento costringono a fare i conti con un numero
particolarmente elevato e crudele di violazioni di diritti
umani. Ogni conflitto che termina ha alle spalle una quantità di
torti e violenze anche “gratuite” tali che pongono alla società
la necessità di affrontare questo delicato e complesso
passaggio.
L’amnistia
Di fronte a ciò, una delle risposte più frequenti che svolge una
funzione di pacificazione, di costruzione del futuro, è quella
dell’oblio legale, cioè l’amnistia. Essa è un provvedimento
collettivo che, prendendo in considerazione un periodo di tempo
specifico, durante il quale si sono create situazioni
particolari di conflitto che hanno favorito, incentivato,
consentito una commistione di torti, ingiustizie e violazione di
diritti, fa in modo che quanti hanno commesso questi reati non
siano puniti: la pena si cancella, come se il crimine non fosse
mai accaduto. Normalmente il diritto penale si regge sull’idea
che chiunque abbia adottato una certa condotta vietata è punito.
C’è in questo, una sorta di automatismo. L’amnistia invece rompe
questo automatismo, segna visibilmente una discontinuità:
“Chiudiamo quel periodo”.
Perché il passato “passi” davvero
Ma è un modo “rozzo” di fare i conti con il passato, perché non
si fa carico della sua eredità. Esiste anche il fenomeno della
prescrizione dei reati; non si accertano nemmeno più quando è
passato troppo tempo. Ma se non ci si fa carico delle
conseguenze di ciò che è accaduto, si rischia di lasciare in
vita le ragioni, le radici dell’odio e del conflitto, le quali,
anche a distanza di molto tempo, in modo inatteso, possono
produrre nuovi frutti avvelenati. Come ha scritto l’arcivescovo
Desmond Tutu, “l’amnistia generalizzata corrisponde di fatto ad
una rimozione collettiva, e invece il passato ha l’irritante,
l’incoercibile proprietà di tornare a perseguitarci finché non
lo si sia affrontato in maniera adeguata”. É un bellissimo modo
di far capire che la soluzione della cancellazione,
dell’amnistia, non può funzionare.
Una risposta possibile, alternativa, è quella di punire i
colpevoli, di fare giustizia nel modo consueto, tradizionale: si
accertano i fatti, si istituiscono tribunali straordinari e si
puniscono i responsabili. Ma, a parte le ragioni di compromesso
che storicamente ci sono e che portano ad escludere una
soluzione di questo tipo, dobbiamo riconoscere che la risposta
puramente giudiziaria - per ogni fatto un processo che accerti
fino in fondo ciò che è accaduto e applichi le pene legalmente
previste - non è adeguata di per sé ad affrontare situazioni e
conseguenze che molto spesso vanno al di là delle vicende delle
singole persone. Infatti, in questo tipo di processi, ci sono
responsabilità collettive che non potrebbero essere mai oggetto
di accertamento in sede giudiziaria. Se il conflitto si chiude
con la netta prevalenza di una parte su un’altra, c’è il rischio
di una giustizia a senso unico: la giustizia del vincitore.
Quindi, una risposta solo in termini di giustizia punitiva si
rivela largamente insufficiente, anche rispetto alle sole
esigenze di conoscenza della verità. È pur vero che di fronte
alle esigenze di verità, nelle nostre società si ricorre ad
altri strumenti, come, ad esempio, l’inchiesta parlamentare, che
in Italia viene molto utilizzata per ricostruire vicende
collettive che hanno incluso violazione di diritti, delitti,
ecc., colpito non solo singoli individui ma la comunità intera.
In questi casi, l’inchiesta viene varata per approfondire le
cause dei fenomeni, per formulare giudizi politici o proposte di
intervento. Va comunque ricordato che le commissioni di
inchiesta, per il nostro ordinamento, operano con poteri simili
a quelli dell’autorità giudiziaria, anche se non mirano ad
accertare i singoli fatti né ad applicare sanzioni né rimedi:
puntano soltanto ad arricchire la conoscenza della società, o
del ceto politico. Sono strumenti poco adatti ad occuparsi delle
conseguenze più profonde, che toccano i singoli individui e la
società. Inoltre, dato che queste commissioni di inchiesta sono
formate nell’ambito del Parlamento, nella loro attività e
conclusioni sono spesso influenzate da valutazioni e dialettiche
di carattere strettamente politico. Rispetto al modello
giudiziario tradizionale o al tentativo di affrontare i temi con
inchieste di tipo politico parlamentare, le Commissioni sulla
Verità e Riconciliazione cercano di dare una risposta diversa.
L’esperienza del sudafrica
Sono molte queste esperienze, ma quella sudafricana è la più
interessante. In primo luogo perché questa commissione era
costituita con caratteristiche simili a quelle dei tribunali;
essa era formata da 19 componenti, tutti nominati dal presidente
Nelson Mandela, ma, come diceva la sua legge istitutiva, scelti
fra “persone idonee e degne, imparziali e che non abbiano un
altro profilo politico”.
Un modo di composizione simile a quello degli apparati
giudiziari, con figure caratterizzate da imparzialità, non
politicità, nel senso del non coinvolgimento diretto con le
parti in conflitto, perché la commissione, come ricordava sempre
Mandela, si rivolgeva contemporaneamente “alle vittime e agli
autori delle violazioni”, e l’accertamento della verità non era
funzionale alla punizione dei responsabili (giustizia punitiva),
ma diretto ad applicare l’amnistia e a creare migliori
condizioni per tutti (giustizia riparativa).
Al fondo di questo percorso, quindi, ci doveva essere non la
punizione dei responsabili, ma l’amnistia; questo fatto non solo
non ne svuotava il senso, ma ne accresceva il ruolo. Insomma, si
passava dalla verità cercata come premessa all’attuazione della
giustizia punitiva, alla verità indagata come condizione della
riconciliazione. P. Lapsley ci ha anche ricordato alcune delle
sue caratteristiche formali: sono 49 lunghissimi articoli che
dettagliatamente disciplinano il modo con cui essa avrebbe
dovuto operare.
Sul terreno più strettamente giuridico, questa commissione
operava attraverso specifici comitati: uno sulla violazione dei
diritti umani, che aveva lo scopo di realizzare le indagini per
accertare gli abusi e chi ne fosse stato vittima. Un secondo
interveniva sulla riparazione e riabilitazione. Ad esso riferiva
il primo comitato, quando accertava che vi erano delle vittime,
in vista della elaborazione ed approvazione di misure riparative.
Infine, c’era un terzo comitato, quello per l’amnistia,
presieduto da un giudice e composto prevalentemente da soggetti
esterni alla commissione plenaria e operante in modo autonomo da
essa, il quale riceveva le domande d’amnistia e valutava se vi
fossero i presupposti per concederla. I diritti violati e presi
in considerazione erano comunque solo quelli “nascenti da atti
associati a un obiettivo politico, commessi od ordinati da
funzionari dello Stato, da forze di sicurezza o da combattenti
delle organizzazioni politiche”. Non si trattava quindi di
un’amnistia generalizzata, ma di un provvedimento specificamente
legato ai delitti politici compiuti durante quel periodo. Queste
caratteristiche, credo, abbiano influito molto sul suo successo.
Veritá e riconciliazione
Che dire su un’esperienza così ricca di insegnamenti dal punto i
vista del diritto? Va in primo luogo ribadito che la verità e
soprattutto la riconciliazione sono obiettivi di per sé al di
fuori della portata di un meccanismo giuridico: la verità,
perché siamo consapevoli dei limiti che incontra il suo
l’accertamento attraverso gli strumenti giudiziari, soprattutto
in circostanze come quelle rappresentate dal caso sudafricano Ma
soprattutto la riconciliazione, per una ragione più radicale:
essa presuppone atti ed atteggiamenti assunti in piena ed
incoercibile libertà dalle persone implicate. Quando si parla di
forme di giustizia riparativa, è interessante notare che questi
processi possono attuarsi nella misura in cui siano liberamente
scelti dai protagonisti. Non è possibile costringere nessuno a
riconciliarsi. Il diritto non può farlo. É una caratteristica
che dobbiamo sempre sottolineare.
Esperienze come quella sudafricana si collocano su una frontiera
avanzata della giustizia umana. Il diritto non può di per sé
riconciliare, ma può creare od offrire strumenti che possano
condurre alla riconciliazione. In questo senso l’esperienza
delle Commissioni per la Verità e Riconciliazione, al di là del
caso sudafricano, rappresenta un esempio importante di giustizia
riparativa. La riconciliazione intesa non quale sostituto di
ripiego rispetto alla giustizia, come invece accade nei nostri
sistemi, ma una riconciliazione che esprime una sorta di
giustizia superiore.
La
sovranitá della costituzione
Un’ultima osservazione: l’esperienza della commissione
sudafricana si inserisce, come è noto, nel processo di
costituzionalizzazione di questo Paese, del nuovo Stato
post-apartheid. Esso, quando ha deciso di chiudere il conflitto,
si è dato una costituzione democratica. Non è stata subito
elaborata una costituzione definitiva ma una provvisoria; lì si
parlava espressamente della commissione e si esplicitavano i
fondamenti ideologici e costituzionali di questo processo. In
quel testo si diceva che la costituzione fornisce un ponte
storico fra il passato di una società divisa ed il futuro di una
società di coesistenza pacifica per tutti i sudafricani, senza
discriminazione. Affermava che c’è bisogno di comprensione e non
di vendetta, di riparazione e non di ritorsione, cioè di ubuntu.
È importante sottolineare il significato costituzionale che ha
assunto nell’esperienza sudafricana l’uso di questi strumenti di
riconciliazione. La legalità ordinaria (la legge, lo Stato, le
autorità) e i suoi strumenti, in particolare quelli giudiziari
(i tribunali, le corti, i giudici), possono essere usati anche
in regimi retti dalla volontà della maggioranza, formalmente
democratici, per commettere o legalizzare atti di ingiustizia.
Solo se la legalità è sottoposta a principi più alti, può
nascerne una nuova sulla base della riconciliazione. La pura
legalità non basta. E questi principi, dal punto di vista della
giustizia umana, sono quelli costituzionali. Ma non nel senso
formale, semplicemente perché sono scritti in un testo che
chiamiamo “Costituzione”, ma perché devono essere intesi come
principi comuni, universali, di giustizia e di umanità, che
ispirano la legge fondamentale dello Stato e di cui si
garantisce l’osservanza. C’è a questo proposito, una frase di
Desmond Tutu molto significativa: “Le parole ‘mai più’,
esprimono l’impegno del nuovo Sudafrica: mai più potrà accadere
che nell’ordine e nella legalità più scrupolosi, venga approvata
una legge che trasformi la vita di tanti in un inferno, perché,
nel nuovo Sudafrica, la sovranità non è del Parlamento. Sovrana
è la nostra costituzione. Le leggi non saranno più fatte a
capriccio dei legislatori, ma dovranno misurarsi con il nostro
tribunale più alto, la corte costituzionale che applica la
costituzione. La costituzione non è solo un pezzo di carta: è un
patto solenne a cui partecipano tutti i sudafricani tramite i
loro rappresentanti”. Un patto che accoglie e sancisce i
principi permanenti del rispetto dei diritti umani, della
libertà, della non discriminazione e della democrazia. Questo è
un monito che mi pare valga molto al di là dell’esperienza
sudafricana: per tutti i popoli, per tutti gli stati, per tutti
i tempi.
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MISSIONE OGGI
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