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Il difficile cammino della guarigione
di Michael Lapsley

 
  Vorrei incominciare con il riconoscere il male che è stato fatto in quel triste giorno del 28 maggio di 30 anni fa. Non solo a Brescia, ma anche in altre città italiane. Penso non solo a quelli che sono morti o sono stati feriti, ma ad altri, tanti altri, che sono stati piagati a livello emotivo, psicologico e spirituale da ciò che è accaduto. Certamente il fallimento del sistema giudiziario nel portare i criminali davanti alla giustizia ha ritardato per molti il processo di guarigione. Conoscere il criminale e perché l’abbia fatto è sempre un normale bisogno umano. É un bisogno di giustizia. Tuttavia vale la pena domandarci se la giustizia che noi spesso desideriamo sia una giustizia di punizione (retributiva) o quella giustizia che porta guarigione (riparativa).

Apartheid: 50 anni di lotta
Come sudafricani stiamo ancora elaborando il nostro passato. Facciamo fatica a credere che siano già passati dieci anni da quando la democrazia ha finalmente fatto la sua comparsa in Sudafrica. Pochi altri momenti nella storia hanno catturato l’immaginazione dell’intera famiglia umana come gli eventi recenti del Sudafrica. La sua storia è inestricabilmente legata a quella del colonialismo europeo. La maggioranza indigena ha resistito eroicamente per secoli alla politica di dominio e di sfruttamento del potere coloniale. Nel XX secolo, il Sudafrica può essere caratterizzato da due storie: quella della determinazione dei regimi razzisti di dividere e dominare e quella della lotta della maggioranza del popolo per unire e, finalmente, trionfare.
Quest’ultima è rappresentata dall’African National Congress (Anc) e da tutti quelli che si sono allineati con esso. I popoli di ogni paese del globo avevano formato movimenti anti-apartheid per sostenere la lotta della nostra gente contro un razzismo costituzionalizzato. Era come se uomini e donne di buona volontà di tutto il mondo si fossero accorti che in Sudafrica c’era qualcosa di pericoloso che riguardava tutta l’umanità. Molti governi occidentali, che sostenevano economicamente il regime dell’apartheid, e quelle compagnie che partecipavano a questo crimine contro l’umanità, furono costrette dalla gente, dai gruppi, dai movimenti che manifestavano, a emanare sanzioni economiche contro l’apartheid. Non solo il governo dell’apartheid rifiutava i diritti umani fondamentali ai cittadini del Sudafrica, ma fomentava guerra e odio anche nei paesi vicini. Si è calcolato che durante gli anni ‘80, come conseguenza diretta dell’apartheid e della sua politica di destabilizzazione, più di un milione di vite umane furono uccise nel Sudafrica. Dal 1990 in poi la pressione, sia dal di dentro che dal di fuori, era diventata talmente grande da obbligare il governo a negoziare, a fare ciò che l’Anc aveva domandato fin dal 1912.

Nelson Mandela e la svolta storica
Dopo 27 anni di prigione, il leader del popolo, Nelson Mandela, veniva liberato. Il nostro fu un accordo negoziato, non c’erano né vincitori né vinti. Questo doveva avere delle implicazioni profonde per la giustizia che poi sarebbe stata possibile nel nuovo Sudafrica. Durante i negoziati, numerose accuse furono avanzate contro l’Anc a causa degli abusi dei diritti umani che erano stati commessi nei campi militari dello stesso partito fuori dal Sudafrica. Le tre commissioni organizzate dall’Anc conclusero che queste violazioni avevano avuto luogo e i capi ne accettarono la responsabilità collettiva. Si continuava a dire che un nuovo Stato avrebbe fatto luce su tutto quanto era accaduto durante l’apartheid. Ma sembrava un po’ strano che chi aveva combattuto per la liberazione fosse molto più pronto ad ammettere i propri errori rispetto a chi aveva sostenuto l’apartheid.
Poi si è arrivati a un punto morto, perchè i militari insistevano presso i delegati del Partito Nazionale affinché i negoziati non continuassero se prima non fosse stata garantita loro l’impunità. Quindi, da una parte c’era la macchina militare più forte del continente africano, con capacità anche nucleari, e dall’altra la volontà incrollabile del popolo di essere libero. La prospettiva era una guerra civile che avrebbe ucciso milioni di vite umane. I nostri negoziatori decisero per l’amnistia. Il governo di Nelson Mandela fu eletto sulla base della Costituzione provvisoria che terminava con queste parole: “Questa Costituzione è un ponte storico tra il passato di una società profondamente divisa, caratterizzato da lotte, conflitti, sofferenze, ingiustizie e un futuro che si basa sul riconoscimento dei diritti umani, sulla democrazia e sulla pacifica coesistenza, sullo sviluppo delle opportunità per tutti i sudafricani senza discriminazioni di colore, di razza, di classe sociale, di credo o di sesso. Il conseguimento dell’unità nazionale, il benessere di tutti i cittadini del Sudafrica e la pace richiedono la riconciliazione tra il popolo del Sudafrica e la ricostruzione della società. L’adozione di questa Costituzione pone un fondamento sicuro per il popolo del Sudafrica per superare le divisioni e le lotte del passato che hanno generato gravi violazioni dei diritti umani, la violazione dei principi umanitari e conflitti violenti, e un’eredità di odio, paura, colpa e vendetta. Queste saranno risolte perché c’è un vero bisogno di comprensione, non di vendetta, di riparazione, non di ritorsione, di ubuntu e non di vittimizzazione. Per ottenere questa riconciliazione e ricostruzione sarà concessa l’amnistia per gli atti, le omissioni o le offese associati a scopi politici commessi nel corso dei conflitti del passato. Con questa Costituzione e con questi impegni, noi, il popolo del Sudafrica, apriamo un nuovo capitolo nella storia del nostro paese”.

La commissione della veritá e della riconciliazione (TRC)
È stata su questa clausola finale che la Commissione della Verità e Riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission - Trc) fu fondata Secondo l’atto di promozione dell’unità nazionale e della riconciliazione del 1995, i compiti della commissione erano i seguenti:
1) compiere indagini e avere un quadro, il più completo possibile, della natura, delle cause e della gravità delle violazioni dei diritti umani commessi dal 1960 fino al 10 maggio 1994, quando il presidente Mandela divenne presidente;
2) compiere indagini sulla morte delle vittime o sui luoghi di tali violazioni;
3) concedere l’amnistia a persone che rendono una completa confessione di tutti gli atti connessi con obiettivi politici commessi nel corso dei conflitti del passato;
4) dare la possibilità alle vittime di raccontare le violazioni subite;
5) dare suggerimenti circa la riparazione, la riabilitazione e la restituzione della dignità umana e civile alle vittime;
6) informare la nazione su tali violazioni e sulle vittime;
7) esprimere raccomandazioni su come prevenire per il futuro queste grandi violazioni dei diritti umani.
Questo è ciò che abbiamo deciso di fare come paese.
Quali alternative avevamo? Potevamo, ad esempio, avere un’altra Norimberga in Sudafrica? Pochi pensavano che avremmo potuto. Pochissimi che lo avremmo dovuto. Probabilmente Norimberga non poteva essere un’alternativa reale per il Sudafrica. Noi avevamo avuto un accordo negoziato. Non abbiamo deciso per una Norimberga. C’era anche l’alternativa di dimenticare, come tanti altri paesi hanno fatto, come se tali violazioni non fossero mai accadute. Infatti, l’ultimo presidente bianco, nei giorni precedenti l’insediamento del nuovo governo, predicava di “perdonare e dimenticare”, e lo diceva in un modo così ispirato che pensavamo fosse un versetto della Bibbia.
Dimenticava però di dirci che cosa voleva che perdonassimo; non lo ricordava bene neanche lui. Così l’alternativa di dimenticare è stata la tentazione che tra non ha mai avuto successo.

Le raccomandazioni della TRC
Forse una possibile alternativa sarebbe stata una commissione meno forte, di basso profilo. Ci sono state commissioni che hanno operato a porte chiuse in altre parti del mondo. La Trc, che cominciò i lavori nel luglio 1995, presentò la sua relazione finale nell’ottobre del 1998. Qualcuno ricorderà che tre milioni di persone furono fatte sparire dalle loro case, con la violenza. Nessuna di queste storie sarà più svelata. In un certo senso, la Trc ha rivelato solo la parte visibile dell’iceberg.
Di grande significato furono le raccomandazioni suggerite al presidente e al parlamento sulla riparazione. Ancora prima che il rapporto fosse pubblicato, la Trc proponeva che le vittime ricevessero all’incirca 17 mila rand (1,800.00 euro, ndr) all’anno per sei anni.
Il processo dell’amnistia doveva continuare ancora per parecchi anni. Il governo disse che non poteva esaudire le raccomandazioni per le riparazioni fino a quando questo non fosse terminato. I rappresentanti delle vittime e dei sopravvissuti facevano pressione sul governo affinché agisse generosamente e con prontezza. Forse vale la pena commentare brevemente la parola “vittime”. Molti di noi rabbrividiscono quando la sentono perché ci consideriamo sopravvissuti oppure vincitori sull’apartheid. Ma era difficile farlo capire agli avvocati. Infatti qualcuno di noi diceva che è appropriato usare la parola “vittime” quando si parla di parenti di qualcuno già morto, ma non per quelli che, come noi, sono sopravvissuti e si sentono dei vincitori.
Alla commissione giunsero più di 20mila richieste di persone che volevano raccontare le loro storie, parlare di ciò che si era fatto a loro. Furono presentate più di 7mila domande di amnistia, ma un grande numero di persone non ha avuto l’opportunità di chiederla. Questa veniva offerta con un atto generoso e straordinario in cambio della verità, la verità tutta intera. Solo così potevamo continuare a vivere e lasciare andare il passato. Naturalmente, non tutti quelli che hanno domandato l’amnistia l’hanno ottenuta, perché bisognava provare che le loro azioni avevano avuto uno scopo militare; dovevano anche provare la proporzionalità dei loro atti e dire tutta la verità. In queste ultime settimane abbiamo incominciato a vedere i primi arresti di criminali ai quali era stata rifiutata l’amnistia.

Uno specchio gigantesco
Vivere in Sudafrica, durante gli anni della commissione, è stata un’esperienza straordinaria. La Trc è stato come uno specchio gigantesco, messo davanti a tutti: sera dopo sera, in televisione, giorno dopo giorno alla radio, sui giornali, abbiamo assistito e ascoltato il dolore, la sofferenza che ci siamo inflitti gli uni agli altri. Come popolo abbiamo ascoltato storie di un degrado morale immenso, storie di dolore che ancora ci inseguono nella memoria. Storie di persone che hanno ucciso altre persone, hanno bruciato i loro corpi e hanno festeggiato mentre venivano bruciati. Abbiamo guardato nello specchio questo male immenso, la nostra capacità di fare cose terribili e di dimenticare ciò che significa essere pienamente umani.
Nello stesso tempo abbiamo visto la forza e la bontà della gente, il potere dello spirito umano, la capacità delle persone di resistere, andare avanti, credere alla dignità che Dio stesso ci ha dato. Così la Trc ha posto le fondamenta di un ordine morale che formalmente non era mai esistito. Nella società che era stata costruita in Sudafrica sotto l’apartheid e nei secoli passati, il male veniva chiamato bene e il bene male. Era una società in cui se la tua professione era quella di torturatore e la svolgevi bene, ricevevi subito una promozione. Quelli che venivano torturati spesso erano avvertiti: “Grida quanto puoi, mai nessuno ti sentirà; stanne certo, non lasceremo tracce e nessuno ti crederà”. Ora per la prima volta nella nostra storia, tanto i torturati quanto i torturatori erano in piedi, davanti a tutto il paese, per essere ascoltati. Un segno che la Trc non era semplicemente la giustizia dei vincitori, stava nel fatto che la storia di chi era stato torturato dal regime dell’apartheid aveva un’uguale dignità di quella raccontata da colui che aveva visto i propri diritti umani violati dal movimento di liberazione. Era chiara l’obiezione morale alla tortura.
Il vecchio regime aveva cercato di proporre un’equivalenza morale dicendo: “Qui c’è stata una lotta tra lo Stato dell’apartheid e il movimento di liberazione dell’Anc. Da una parte, tra noi, alcuni erano buoni, altri cattivi: abbiamo fatto cose buone e cose cattive. Ma anche dall’altra hanno fatto cose buone e cose cattive. Siamo tutti buoni e cattivi insieme”.
Era come dire che il fascismo e il nazismo erano ugualmente cattivi come quelli che l’avevano combattuto. Questo ragionamento non aveva il consenso della famiglia umana. L’umanità afferma che l’apartheid e il fascismo sono un male, e combattendo il male non è detto che tutto ciò che uno fa sia automaticamente bene. L’apartheid era un crimine contro l’umanità.
Quindi era bene combatterlo, ma nel combatterlo quelli che facevano parte del movimento di liberazione hanno fatto cose moralmente inaccettabili. In Sudafrica, con la Trc, l’ordine morale cominciava finalmente a essere ripristinato.

Le mamme di Mamelody
Ci sono storie che ci rappresentano come Paese e storie che parlano di noi come individui. Una per me molto significativa è quella di un gruppo di giovani di Mamelody, una cittadina vicino a Pretoria, dove un poliziotto nero si spacciava per combattente del movimento di liberazione. Aveva detto ad alcuni ragazzi di 17, 18 e 19 anni: “Io vi aiuterò a prepararvi per combattere contro l’apartheid”. I giovani furono presi, drogati e poi uccisi. Il veicolo poi fu fatto esplodere. Questo accadde nel 1985. Per 10 anni le loro mamme hanno aspettato di sapere che cosa fosse accaduto ai loro figli. Sapevano soltanto che erano scomparsi. Poi, un giorno, nel 1995 hanno letto sul giornale ciò che quel poliziotto aveva fatto a loro. I criminali hanno poi domandato l’amnistia.
Ho lavorato con quelle mamme, siamo stati insieme in una sessione per la guarigione delle memorie. Esse dicevano: ”Sappiamo ciò che è successo, chi l’ha fatto, ma non dove sono stati sepolti i loro corpi. Abbiamo bisogno di sapere. Non possiamo continuare a vivere così”. Alla fine queste mamme furono condotte là dove i loro figli erano stati sepolti e lì, sulle loro tombe, hanno fatto le cerimonie tradizionali, dando loro il saluto finale. Ora esse potevano cominciare a vivere di nuovo. L’ordine morale poteva cominciare a essere restaurato perché questi figli erano stati sepolti con dignità, il loro spirito poteva riposare in pace e le loro mamme avevano conosciuto la verità in tutto il suo orrore.

La strada della guarigione
Anch’io sono stato vittima dell’apartheid e sono consapevole che spesso la strada che porta alla guarigione è più difficile per il criminale che per la vittima, o meglio, per quelli che sono sopravvissuti. Nell’agosto dell’anno scorso, questa lettera fu mandata a una radio boera, e poi tradotta e pubblicizzata in inglese. Penso riveli come, anche se in una piccola misura, nessuno in Sudafrica può sentirsi esente dall’essersi contaminato con l’apartheid.

La storia di Elena
Elena era la moglie di un poliziotto. Scriveva: “La mia storia comincia negli ultimi anni della mia adolescenza di ragazza di campagna del distretto di Betlem, nell’Eastern Free State. Avevo 18 anni quando ho incontrato un giovane che ne aveva 20. Lavorava in un’organizzazione di massima sicurezza. Fu l’inizio di una bellissima relazione, parlavamo anche di sposarci, anche se lui era inglese. Era amico di tanti boeri e tutte le mie amiche mi invidiavano. Poi un giorno disse che andava via per un viaggio: ‘Noi non ci rivedremo più, forse mai più’. Mi sono trovata a pezzi, così anche lui. Mi sono sposata, ma per dimenticare; è stato un matrimonio molto breve. Più di un anno fa, ho incontrato di nuovo il mio primo amore attraverso un altro amico e ho appreso per la prima volta che lui vive all’estero e chiedeva l’amnistia. Non posso spiegare il dolore e l’amarezza in me quando ho visto che cosa era rimasto di quella bella e forte persona di una volta. Aveva un solo desiderio, che la verità venisse fuori; l’amnistia non era importante, era uno strumento alla verità, un bisogno di purificazione. È stato strappato ignominiosamente dalle nostre vite all’inizio dell’anno. È stato forse questo il prezzo che ha dovuto pagare per ciò in cui credeva?
Dopo questo matrimonio non riuscito, ho incontrato un altro poliziotto, non come il mio primo amore, ma era una persona eccezionale, molto speciale, con una personalità affabile, una persona proprio a posto. Allora mi disse che lui e altri tre amici erano stati promossi a un’unità speciale: “Ora, mia cara, siamo veramente poliziotti”. Eravamo contentissimi e abbiamo perfino festeggiato. Lui e i suoi amici si vedevano spesso, regolarmente, rimanevano a casa anche per lunghi periodi.
Improvvisamente e non so perché, ogni tanto diventavano irrequieti e qualche volta parlavano di un ‘viaggio’ (questa parola faceva paura) e partivano. Come moglie, non conoscevo altra vita che quella di preoccupazioni, insonnia, ansietà per la sua sicurezza e dove sarebbero stati. Uno si accontenta pensando che ciò che si ignora non può far male. E tutto ciò che noi, persone di famiglia, sapevamo era ciò che avevamo visto con i nostri occhi. Lui divenne molto inquieto, chiuso, qualche volta rimaneva con la faccia tra le mani e tremava in un modo incontrollato. Mi accorsi che stava bevendo troppo; invece di riposare di notte, si alzava e andava da una finestra all’altra. Cercava di nascondere questa paura che lo consumava, però io me ne accorgevo. Nelle prime ore del mattino, alle due o alle tre, mi svegliavo di soprassalto; era lui che respirava affannosamente e la sua faccia era fredda come il ghiaccio, tutta sudata, i suoi occhi stralunati e tremava tutto. Le terribili convulsioni rivelavano paura e dolore dal profondo del suo essere. Qualche volta rimaneva senza muoversi e guardava lontano. Non ho mai capito, non ho mai saputo né mi sono accorta che cosa aveva dovuto digerire durante quei suoi viaggi. Ho passato l’inferno e ho pregato chiedendo: ‘Signore, cosa sta succedendo, che cos’è che non va con lui? Come mai è cambiato così tanto? Sta diventando pazzo? Non posso più stare con lui? Mi perseguiterà per il resto della mia vita, perché, Signore?’ Oggi conosco le risposte alle mie domande e ai miei dolori, alle mie sofferenze, so dove tutto è cominciato. Le storie e i ruoli di ‘quelli che erano sopra di lui’, e i ruoli dei ‘nostri uomini’ , di quelli che dovevano eseguirne gli ordini, come avvoltoi.
Oggi quelli si laveranno le mani nell’innocenza e opporranno resistenza alle parole della Commissione. Sì, sto con il mio omicida criminale che ha permesso a me e al vecchio Sudafrica bianco di dormire pacificamente mentre ‘quelli di sopra’, i superiori, progettavano un altro ‘allontanamento permanente dalla società’ per mezzo degli avvoltoi. Ora finalmente capisco in che cosa consisteva la lotta. Avrei fatto la stessa cosa se mi fosse stato rifiutato tutto, se la mia vita, quella dei miei figli e della mia famiglia fosse stata strangolata con leggi ingiuste, se dovessi guardare come i bianchi erano insoddisfatti di ciò che era la parte migliore e ne volevano ancora e l’hanno ottenuta. Mi sento invidiosa e ho grande rispetto per la gente che ha lottato, almeno i loro capi hanno avuto il coraggio di mettersi con gli avvoltoi nel riconoscere i loro sacrifici. Che cosa abbiamo ora? I nostri capi sono troppo santi e innocenti, senza faccia. Capisco se il signor De Klerk dicesse che non sapeva, ma accidenti!, ci dev’essere qualcuno lì che è ancora vivo, con un volto e che dava ordini per tutte quelle operazioni, accidenti! Che cos’altro può essere questa vita così anormale se non una violazione di diritti umani? L’omicidio spirituale è più inumano di un omicidio soltanto fisico, almeno la vittima di un omicidio riposa in pace. Se potessi avere l’autorità di togliere da questa povera gente ogni sofferenza, di guarirli tutti, potessi cancellare il vecchio Sudafrica, cancellarlo dal passato di tutti!
Essi possono darmi l’amnistia mille volte. Ma anche se Dio e tutti gli altri mi perdonassero mille volte, io devo vivere con questo inferno. Il problema è nella mia testa, nella mia coscienza, c’è un solo modo per esserne liberati, farmi scoppiare le cervella, perché è lì che sta il mio inferno.
P.S. Grazie per il tuo tempo, grazie per avere ascoltato la storia di una del vecchio Sudafrica, per aver ascoltato il mio dolore.”
Un’altra delle tante storie che ci ossessionano.

La storia di Lesley
Siamo stati un pò tutti contaminati, confusi dall’apartheid, ma ecco un’altra piccola storia che non ha ricevuto molta pubblicità, ma con la quale possiamo identificarci. È una donna di nome Lesley che scrive: “Ho 47 anni, sono casalinga, sudafricana, della classe media, sono anche membro di una congregazione, sono moglie, mamma e infermiera. Tuttavia non mi presento davanti a voi come una rappresentante di questi gruppi, non posso parlare per le casalinghe bianche di mezz’età, né per il corpo infermieristico, né per la mia congregazione o la mia famiglia. Sono qui come Lesley, senza i miei titoli e le mie relazioni.
Sono cresciuta con tutti i vantaggi e le opportunità che mi venivano dall’essere bianca. Non ero cosciente che c’erano tante altre persone attorno a me che non erano privilegiate come lo ero io, non perché non avevo sentimenti, ma perché non ne ero consapevole. Sono diventata molto più consapevole quando sono entrata nella scuola secondaria. Ricordo ancora le discussioni accese a scuola, appunto per le ineguaglianze. Gradualmente, ora le riconosco, guardando indietro, mi accorgo delle grandi distorsioni che avevo imparato, ora posso vedere che il sistema, il nostro sistema educativo mi preparava ad accettare ciò che era totalmente inaccettabile.
Nell’imparare cose senza metterle in dubbio, nell’obbedire all’autorità senza sfidarla, sono arrivata ad accettare come normale ciò che era totalmente e grossolanamente anormale.
La Trc e le sue udienze sulle violazioni dei diritti umani mi hanno devastata, le ho guardate in televisione, le ho lette sui giornali, sulle riviste e mi hanno fatto piangere con rabbia e orrore. Sento un forte sentimento di rifiuto, non perchè non credo a ciò che è stato detto, ma perchè non voglio credere che una tale crudeltà e una tale sistematica distruzione siano accadute proprio vicino a me. Mi sento complice, fallita. Ricordo una citazione che ho letto molti anni fa, mi disturbava allora e ora mi fa ancora più male: “Perchè il male possa prosperare è sufficiente che la brava gente non faccia niente”. Quando leggo della riparazione che le persone stanno chiedendo, mi sento piena di vergogna: una tomba, una borsa di studio per la scuola di un bambino, un funerale per uno a cui si voleva bene, queste sono semplici richieste. Nessuna vendetta, nessun desiderio di rivincita. Date le stesse circostanze, non sono sicura che sarei disposta a perdonare. Mi sono accorta che i peccati di omissione sono sempre peccati. Non posso cambiare il nostro passato, sarebbe stato molto più semplice dare la colpa all’apartheid per tutto quello che c’è stato. La verità è che ho fatto le mie scelte. So di molte persone che hanno scelto diversamente. Ho letto la lettera mandata alla Trc dal dr. Beyers Naude (un noto pastore della Dutch Reformed Church che si convertì alla lotta contro l’apartheid, ndr). Mi sento grandemente umiliata da tutto ciò. Non sono Beyers Naude, ma gli sono riconoscente per il suo esempio di umiltà e di coraggio. Mi ha aiutato a trovare la mia strada fino a qui.
Ho bisogno di dire un’ultima cosa. È vero, presentare le richieste oggi è stato doloroso. Per me la parte più dura è qui, alla fine. Mi sento così disperatamente inadeguata per raddrizzare ciò che è successo, così piccola davanti a tanta sofferenza e sono sopraffatta nella mia temerarietà anche nell’offrirlo, ma è tutto ciò che ho da dare, mi dispiace”.

Amnistia per l’apatia
Se voi foste vissuti in Sudafrica, che cosa avreste fatto? Che cosa avrebbero fatto a voi? C’è un ultima richiesta che mi ha fatto molto pensare. Nell’ultimo giorno ancora possibile per domandare l’amnistia, ci hanno detto che tenevano gli uffici della commissione aperti fino a mezzanotte. Prima di mezzanotte, un piccolo gruppo di giovani, tutti neri di 20 anni, venne con una richiesta di amnistia. Chiedevano amnistia per l’apatia, essi dicevano: “Per milioni di sudafricani, la lotta contro l’apartheid consisteva nello strumentalizzare regole designate al controllo delle attività quotidiane, nel fare salti mortali per soddisfare aspirazioni professionali. Piuttosto che cambiare il sistema, essi si sono appoggiati ad altri per forzare i cambiamenti che essi comunque speravano di ottenere.
Per la maggior parte della gente ordinaria in Sudafrica e nel mondo, l’apatia è una difesa contro l’oppressione. Permette delle zone di comodo, dove la tirannia è tollerata per la sopravvivenza personale e professionale e consente di mantenere lo stato di vita desiderato. Ecco le richieste di amnistia. “Nel richiedere l’amnistia per apatia, le persone qui riconoscono i seguenti punti:

1° che noi come individui possiamo e dobbiamo essere ritenuti responsabili dalla storia per la nostra omissione di azioni necessarie in tempo di crisi;
2° che nessuno di noi ha fatto tutto quanto poteva fare per cambiare il sistema lottando contro l’apartheid;
3° che con l’apatia invece dell’impegno, abbiamo permesso ad altri di sacrificare le loro vite per la nostra libertà e quindi un miglioramento del nostro stato di vita;
4° che l’apatia è un fenomeno reale e potente e forse il più distruttivo della nostra società;
5° che la società fa un salto in avanti quando gli individui si rendono responsabili per la loro mancanza di azione proporzionata al cambiamento che è necessario fare”.

Uno dei giovani che domandava l’amnistia era nato in Zimbabwe, e sua mamma era stata uccisa dai soldati rhodesiani, quando lui era ancora bambino, durante la lotta per un nuovo Zimbabwe. Eppure ha confessato che non aveva fatto abbastanza per far terminare l’apartheid. Non era neanche nel suo paese, ma nel paese vicino, ma sentiva questo senso di solidarietà e responsabilità.
Uno dei problemi di cui si è molto discusso in Sudafrica è: “Sapevi? Non sapevi?” Certamente c’era molto da sapere se uno avesse voluto, e spesso era più facile non sapere perché allora il prezzo da pagare era molto grande. È anche vero che tanti atti orribili commessi dallo Stato furono tenuti nascosti all’opinione pubblica.

I quattro tipi di colpa di Jaspers
Queste storie sono esempi di come noi siamo stati un pò contaminati e condividiamo tutti una certa complicità con l’apartheid, seppur certamente non tutti allo stesso livello. È quello che la società tedesca ha dovuto elaborare alla fine della seconda guerra mondiale. Molti di noi sono stati aiutati dal filosofo e psichiatra Karl Theodor Jaspers. Intorno al 1947, egli scriveva di quattro specie di colpa: colpa criminale, colpa politica, colpa morale e colpa metafisica. Il punto è che non tutta la colpa è uguale. Né si può dire che chi uccide non sia responsabile. È ciò che noi abbiamo fatto a Norimberga. È sufficiente dire semplicemente: “Io ho ubbidito agli ordini”. C’è una specie di complicità. La complicità per non aver fatto niente significa che uno ha avuto una responsabilità.
Jaspers parla anche di una colpa metafisica, che noi condividiamo con la famiglia umana, e forse in qualche modo il movimento mondiale anti-apartheid l’aveva capito. Perché quasi tutto il mondo fu coinvolto nella lotta contro l’apartheid? Est, ovest, nord e sud, ricchi e poveri, sapevano quel che stava succedendo in Sudafrica.
Era coinvolta la nostra umanità ed avevamo bisogno di fare qualcosa non solo per i sudafricani, ma per noi stessi, per la nostra comunità umana.
Sono stato parte anch’io di un movimento di liberazione, e anch’io ho una parte di colpa. Se uno condivide qualche responsabilità, prova dolore e tristezza, ma si sente anche impegnato nel costruire qualcosa di diverso, nel partecipare a un processo di guarigione di un paese, per costruire una società più umana, fondata sulla fraternità e solidarietà.

Mi vuoi perdonare?
Anch’io mi sono presentato davanti alla Commissione della Verità e Riconciliazione pochi mesi dopo la sua inaugurazione. Sono stato fortunato. Avevo avuto il privilegio di raccontare la mia storia altre volte prima, ma farlo davanti a questa Commissione ha avuto un significato tutto particolare. Rivelava un ordine morale, diceva che qui i legittimi rappresentanti del nuovo Stato stavano ad ascoltarla con riverenza e rispetto. Così ho sentito che le mie storie si univano a quelle di milioni di altre persone: la storia grande della nostra nazione. Quando ho testimoniato davanti alla Commissione, ho detto anche che non ero sicuro di voler incontrare quelli che mi avevano mandato il pacco bomba, perché non sapevo se sarei riuscito a guardarli in faccia. Ho detto che se qualcuno fosse venuto e mi avesse detto: “Ti ho spedito quel pacco, ho scritto il tuo nome sulla busta, ho preparato la bomba: mi vuoi perdonare?”, avrei domandato: “Che cosa fai? Che mestiere hai?” Se la persona avesse detto: “Sono paramedico, lavoro all’ospedale”, allora gli avrei risposto: “Sì, ti perdono”. Avrei preferito che quella persona spendesse i prossimi 30 anni come paramedico in ospedale piuttosto che vederla in prigione, perché credo in una giustizia restauratrice, non retributiva. Sfortunatamente non sentiamo molto parlare nel mondo di giustizia riparativa.
Come Paese, tutti abbiamo bisogno di trovare uno spazio dove raccontare le nostre storie. Credo che il nuovo Sudafrica sarà costruito su due colonne: una è soddisfare i bisogni elementari della nostra gente (acqua, elettricità, ospedali, educazione) e noi spenderemo forse decenni cercando di raggiungere questo obbiettivo, anche se qualcosa si è fatto in questi dieci anni. L’altra è riuscire ad elaborare il passato dal punto di vista psicologico, emotivo e spirituale, elaborare ciò che abbiamo fatto gli uni agli altri, le conseguenze che abbiamo subito e quelle che abbiamo fatto pagare agli altri, e anche l’impatto di ciò che non abbiamo fatto.

L’istituto per la guarigione delle memorie
L“Istituto per la Guarigione delle Memorie” di cui sono presidente cerca di dare alle persone un’opportunità di compiere questo viaggio del cuore negli anni dell’apartheid, e questo viaggio è importante per noi come Paese, mentre optiamo per la verità, non per la vendetta, per l’ubuntu e non per la vittimizzazione. Tentiamo di rompere la catena della storia, per cui, in molti Paesi, gli oppressi in una generazione sono diventati gli oppressori nell’altra. Questo è vero sia per i boeri in Sudafrica sia per i sopravvissuti ai campi di concentramento inventati dai britannici all’inizio del secolo. E vale per le relazioni tra il popolo di Israele e i palestinesi. Gli oppressi, quelli che si ritengono vittime, prima o poi diventano oppressori degli altri, e giustificano la loro oppressione perché si sentono vittime.
Quello che ho cercato di compiere dopo l’incidente del pacco bomba, è stato un viaggio dall’essere vittima a essere sopravvissuto e poi vincitore. Per 15 anni ho viaggiato per il mondo a favore della causa della lotta contro l’apartheid, dicendo: “L’apartheid è una scelta, un’opzione a favore della morte portata avanti nel nome del Vangelo della vita, e perciò è una questione di fede dire no!”. Quando ho ricevuto il pacco bomba mi sono sentito nel mirino del male. É male mandare pacchi bomba ad altri esseri umani. Dalle risposte ricevute da parte di molte persone sparse nel mondo, sono poi diventato anche l’obbiettivo di tutto ciò che è bello nella famiglia umana: la nostra abilità di essere teneri, amorevoli, generosi e compassionevoli. Questo contesto mi ha permesso di camminare in questo viaggio dall’essere vittima a sopravvissuto, a vincitore. Mi sono accorto che se avessi trascorso la mia vita nell’odio, nella rabbia, nel rancore, col desiderio di vendicarmi, allora essi, i criminali, non mi avrebbero ferito solo nel corpo, ma mi avrebbero ucciso nell’anima. Allora sarei stato loro prigioniero per sempre.
In Sudafrica cerco di camminare accanto ad altri sudafricani, per vedere se possiamo liberare noi stessi. Faccio questo sia con gli oppressori sia con gli oppressi. Sia che siano stati vittime o oppressori, o come spesso accade con le vittime, un po’ di qua e un po’ di là.
Ciò che stiamo facendo in Sudafrica è importante per tutta l’umanità. Prima che la Commissione cominciasse i suoi lavori, dicevo: “La gente che manda pacchi bomba dev’essere bloccata e messa in prigione”. Ora preferirei che lavorassero negli ospedali per il resto della loro vita. Mi accorgo che il vecchio Sudafrica mi ha portato quasi a un desiderio di vendetta, e certamente pendevo per la giustizia di punizione, retributiva. La Commissione mi ha sfidato a essere più generoso, più compassionevole, ed è una sfida cercare in me stesso la parte più umana e più nobile. Guardando in questo specchio che è il Sudafrica, vediamo noi stessi e le scelte che come individui, comunità o nazione abbiamo compiuto. Ho deciso di optare per la vendetta e la mia vendetta sarà molto dolce. Vorrei costruire una società non razzista, non sessista, un Sudafrica democratico e quella sarà la più bella, la più dolce vendetta.

Perché sono sovravissuto?
Spesso mi sono posto questa domanda: “Perchè sono sopravvissuto a questo pacco bomba?” Molti sono già stati sepolti, ho parlato ai loro funerali. Penso che molti di noi hanno bisogno di sopravvivere per aiutare gli altri a non dimenticare ciò che ci siamo fatti reciprocamente e, più importante, per essere segno della forza della vita di Dio e della sua compassione, della sua generosità. Questa è molto più forte delle forze del male e dell’odio e della morte. Vorrei finire citando un brano tratto dal libro di Nelson Mandela “Lungo cammino verso la libertà”: “È stato in quei lunghi anni di solitudine che la sete di libertà per la mia gente è diventata sete di libertà per tutto il popolo bianco o nero che sia. Sapevo che l’oppressore era schiavo quanto l’oppresso, perché chi priva gli altri della libertà è prigioniero dell’odio, è chiuso dietro le sbarre del pregiudizio e della ristrettezza mentale. L’oppressore e l’oppresso sono entrambi derubati della loro umanità.
Da quando sono uscito dal carcere, è stata questa la mia missione: affrancare gli oppressi e gli oppressori. Alcuni dicono che il mio obbiettivo è stato raggiunto, ma so che non è vero. La verità è che non siamo ancora liberi: abbiamo conquistato soltanto la facoltà di essere liberi, il diritto di non essere oppressi.
Non abbiamo compiuto l’ultimo passo del nostro cammino, ma solo il primo su una strada che sarà ancora più lunga e più difficile; perché la libertà non è soltanto spezzare catene, ma anche vivere in modo da rispettare e accrescere la libertà degli altri. La nostra fede nella libertà dev’essere ancora provata.
Ho percorso questo lungo cammino verso la libertà sforzandomi di non esitare, e ho fatto alcuni passi lungo la via. Ma ho scoperto che dopo aver scalato una montagna, ce ne sono sempre altre da scalare. Adesso mi sono fermato un istante per riposare, per volgere lo sguardo allo splendido panorama che mi circonda, per guardare la strada che ho percorso. Ma posso riposare solo qualche attimo, perché assieme alla libertà vengono le responsabilità, e io non oso trattenermi ancora: il mio lungo cammino non è ancora alla fine.”


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