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Manlio
Milani è presidente dell'Associazione dei familiari delle
vittime di Piazza della Loggia a Brescia. Ha partecipato al
dibattito con questo illuminato intervento.
Devo
riconoscere che ho vissuto la relazione di questa mattina anche
emotivamente. Riconosco che mi si è aperto un ulteriore percorso
per affrontare le nostre vicende nazionali e locali, anche se
ammetto le difficoltà di una tale operazione. Mi sembra che la
lezione del Sudafrica è da assumere come un’indicazione di
lavoro più che come un modello da seguire. So che tra noi e loro
ci sono enormi diversità: i sudafricani hanno affrontato questi
temi alla fine dell’apartheid, le nostre stragi, invece, a
partire da Piazza Fontana in poi, sono avvenute durante la
ricostruzione del nostro sistema democratico. Quegli atti
efferati sono stati il tentativo di bloccare l’evoluzione di
tale processo.
Le stragi avvengono per di più in un contesto internazionale
caratterizzato dalla divisione del mondo in due blocchi
contrapposti, che si esprime anche all’interno del nostro Paese
con una forte frattura ideologica. È chiaro che affrontare
quegli anni significa penetrare in una vicenda storica molto
controversa. Infatti in Italia le discussioni sul terrorismo
sono sempre state caratterizzate da un uso politico della sua
storia. Ciò ha portato a far dimenticare le stragi che hanno
insanguinato l’Italia, nel periodo 1969/74. Attraverso un uso
politico o ideologico della storia, i mass media hanno oggi
fatto passare l’idea che quando si discute di terrorismo, ci si
riferisce “naturalmente” a quello di sinistra. Nemmeno
l’estremismo dei Nuclei Armati Rivoluzionari, formazione
eversiva di estrema destra, (sconfitti al pari delle Brigare
Rosse “storiche”) i cui esponenti, Francesca Mambro e Valerio
Fioravanti, sono stati condannati all’ergastolo per la strage
alla stazione di Bologna (85 morti), ha trovato sufficiente
spazio sulla stampa nazionale. In questo senso abbiamo bisogno
di recuperare una memoria che sappia fare i conti con la nostra
storia più recente.
Ruolo della vittime
Nelle relazioni che ho ascoltato, ci si è domandato quale è il
ruolo delle vittime. Personalmente, in questi ultimi anni, ho
avuto due tipi di esperienze. Come familiari delle vittime di
strage, con l’ex ministro di grazia e giustizia Fassino, abbiamo
costituito l’Osservatorio Nazionale delle vittime, che invece
ora il ministro Castelli, nonostante una serie di
sollecitazioni, ha pensato bene di sopprimere. L’Osservatorio ha
rappresentato un momento importante, perché lì sono emerse le
cose che oggi stiamo discutendo: in particolare il ruolo della
vittima nella trasmissione della memoria; la sua presenza nel
processo penale, dal quale essa è totalmente esclusa nella fase
istruttoria del procedimento nonché in tutta un’altra serie di
atti. Inoltre diventa difficile costituirsi parte civile nel
processo anche per i costi onerosi. E nei processi di strage
essere presenti è di fondamentale importanza tenendo conto che
la strage è un delitto contro lo Stato. Avendo sperimentato
sulla nostra pelle l’esclusione della vittima da parte del
sistema giudiziario, abbiamo, in quell’Osservatorio, elaborato
una serie di proposte: dai diritti d’informazione al gratuito
patrocinio per quanti si costituiscono parte civile,
all’istituzione di un luogo per l’“assistenza psicologica” e
risposte pratiche che fanno sentire “vicine” le istituzioni.
Invece oggi nel nostro ordinamento prevale una giustizia
riparativa, con un risarcimento economico per i feriti che
vivono in condizione di difficoltà. Infine abbiamo proposto
l’istituzione di un giorno (il 12 di dicembre) dedicato alla
riflessione sul terrorismo e sulle ragioni di tale violenza
politica, per fare cultura della vita.
In questo modo si nega alla vittima la possibilità di raccontare
la sua storia (che non è privata, ma pubblica), il suo disagio,
come è avvenuto nell’esperienza del Sudafrica. Tutto ciò non
trova riconoscimento politico anzi, la Commissione parlamentare
sulle ragioni delle impunità delle stragi, in questa
legislatura, non è stata ricostruita, tralasciando di discutere
questo “lato oscuro” della storia italiana.
Ciò vale, almeno in parte,anche per questa città di Brescia,
seppure la sua amministrazione comunale, in questi anni, ha
fatto molto per organizzare momenti di riflessione, ma più sui
fatti accaduti ed il loro significato storico che sui problemi
posti dalle vittime in sé. Anche la Casa della Memoria in fondo
soffre di questo limite: nata un paio di anni fa, ha come
compito istituzionale quello di raccogliere gli atti giudiziari
inerenti ai fatti di strage e la messa a disposizione degli
stessi. Se noi oggi abbiamo bisogno di uno spazio, non possiamo
far altro affidamento se non su quello della testimonianza: non
esiste nulla oltre a questo.
La
lezione sudafricana
Quando vado nelle scuole qualcuno mi domanda che cosa farei se
mi trovassi davanti ai colpevoli della strage di Piazza della
Loggia; quale è o è stata la mia reazione in tutti questi anni,
guardando gli imputati presenti nei vari processi, chiusi, senza
un colpevole. Agli studenti cerco di spiegare le mie ragioni,
sottolineando che l’esigenza che mi guida nel raccontare quegli
avvenimenti vissuti in prima persona è quella di voler far
capire, anzi, di testimoniare ciò che ha prodotto l’uso della
violenza. Mi riallaccio alla risposta democratica che i
bresciani seppero dare in quei giorni per ribadire che alla
violenza si deve rispondere con atti democratici. Ma mi rendo
conto che alla fine, di fronte alla mancata verità giudiziaria
che determina scarsa credibilità istituzionale, la risposta che
molti si aspettano è : “Ci vorrebbe la pena di morte”.
Sono convinto che seppur di fronte al fallimento di una verità
giudiziaria ma davanti ad una credibile ricostruzione
storico-politica dei fatti accaduti, il tema qui affrontato
debba essere portato avanti, per cercare di far emergere una
delle condizioni della vittima: la sua impossibilità, a fronte
della mancanza di giustizia, di uscire da quel tragico
avvenimento, così da poter ridiventare fino in fondo un
cittadino, una persona che, anche attraverso le istituzioni, sa
parlare e ascoltare gli altri, così da poter ricostruire una
propria dimensione pubblica e privata. Poiché, credo, che senza
un disvelamento delle ragioni che hanno prodotto il terrorismo
degli anni settanta, non riusciremo a rendere “libera” la nostra
democrazia.
Mi auguro che questo percorso indicato possa essere ripreso,
anche istituendo un gruppo di lavoro che sappia affrontare i
vari aspetti della questione, per tentare di porlo sul piano del
dibattito culturale. Credo che sia un passaggio indispensabile
per arrivare alla soluzione “sudafricana”: “verità in cambio
d’impunità”. Solo allora saremo finalmente fuori dai fantasmi
del terrorismo degli anni ‘70.
©
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