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Palestra
di vita
di
Vincenzo Andraous |
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Ho avuto modo
di osservare, ascoltare, accompagnare tanti giovanissimi, nella
comunità Casa del Giovane di don Franco Tassone.
Ragazzi isolati, che a loro volta si isolano in uno sballo a
tamburo battente, dove i timpani diventano i polmoni.
La loro sordità a cercare, creare e mantenere relazioni, è
quanto meno paritaria alla ottusa cecità della collettività, la
quale non intende proporsi come soggetto protagonista, e della
propria evoluzione famigliare, e della propria attenzione
disponibile ai bisogni e alle sofferenze dei giovani
all’intorno, i quali inascoltati non troveranno quei riferimenti
certi con cui identificarsi.
Minori a rischio che troppo superficialmente sono gia
etichettati devianti, e perciò irrecuperabili.
Ma qualcosa non quadra, qualcosa sfugge in quest’umanità che va
scavando con le dita rotte quel senso nascosto al primo strato.
Per noi adulti-formati-realizzati è sempre tutto chiaro,
soprattutto nel condannare...le azioni o le inquietudini degli
altri... naturalmente.
Non è facile, nell’età dei rifiuti, delle ribellioni, delle
reazioni emotive, avere fiducia nell’altro che guida e a volte
rimprovera.
Non è facile affidarsi all’onestà intellettuale degli altri, ma
i luoghi della maturità consapevole ci insegnano che chi dice
qualcosa ne è responsabile, proprio per rendere proficua e
costruttiva la tecnica dialogica, che impone ai due
interlocutori di non barare.
Alla “Casa del Giovane” c’è umanità nel servire e formare, c’è
priorità alla disponibilità e all’accoglienza, ed è giusto sia
così, perché avere e sentire e custodire umanità sta a
significare che c’è prerogativa inalienabile al diritto di amare
noi stessi e così gli altri.
A tal punto che pensare all’umanità, al diritto di poter vivere
nella propria dignità di persona, non è qualcosa di conferito
statualmente, ma è sintesi e insegnamento che ci arriva da
lontano.
Giovani “a rischio” ce ne sono tanti, nelle città come nelle
periferie, tutte diversità che esistono e con cui dobbiamo fare
i conti. Ma spesso non siamo preparati alla scoperta, proprio
perché esse circoscrivono la profondità delle nostre stesse
sofferenze, attese esitanti, delle angosce difficilmente
contenute, nel poco rispetto verso l’altro o l’altra, che invece
è ragione del nostro stesso esistere.
Tutto questo denota un cocente male di vivere, che lasciamo in
eredità alle future generazioni, ai ragazzi qui con me ora, a
cui rimetto la mia capacità di sostenere una fratellanza
allargata, basata su diritti e doveri, dove ( come un vecchio
filosofo mi ha insegnato ) i problemi di tutti siano percepiti
da ciascuno come propri, e ciascuno cerchi la soluzione dei
propri problemi entro la soluzione dei problemi di tutti.
In questo contesto di realtà avanzata, c’è il rischio
preliminare di non poter “dare di più”?
Ma il “di più” sta nel trovare convergenze, e tutte per produrre
interventi molteplici: di assistenza, di rinnovamento, di
riconciliazione.
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