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Ecco che di nuovo si
celebra a Venezia il trionfo del Cinema, grande per arte e per mezzi.
Senza dubbio un’occasione unica, per chi partecipa e per chi assiste. Ma
per chi non ama le grandi abbuffate ed è refrattario alle folle
idolatriche che si assiepano attorno ai divi, forse l’aria di Locarno è
decisamente più consona.
Chi ama il Cinema, e ama esplorarlo in modo spassionato e curioso,
mescolandosi agli autori e agli operatori che discutono, si confrontano,
incontrano la stampa e il pubblico, in un clima di attenzione e
rilassata disponibilità, al di fuori di ogni atteggiamento divistico,
allora trova al Festival di Locarno l’atmosfera ideale.
Si avverte in effetti la sensazione di partecipare ad una grande fiera,
dove tutti espongono e si espongono, discutono e commerciano, in una
attesa festosa e non priva di brividi. Solo che ciò che si esplora non è
un paese qualsiasi, ma il Paese per eccellenza, cioè il mondo. Si ha
l’impressione di gettare uno sguardo generale su ciò che ci circonda, di
cogliere l’insieme di quei fenomeni di cui spesso la nostra esistenza
individuale percepisce solo elementi parziali. Il Festival di Locarno,
con la sua vocazione “ad una visione internazionale e generosa
dell’uomo” come ha sottolineato il direttore artistico Irene Bignardi,
per la sua speciale attenzione a quanto arriva da ogni parte del globo
che altrimenti, in molti casi, non avrebbe voce, con le tantissime
sezioni cui da vita ogni anno, con la scelta di riservare particolare
spazio ad un cinema non commerciale, costituisce una vetrina ideale. Il
direttore Irene Bignardi competente e spigliata, riesce inoltre a dare a
tutta la manifestazione un tono informale e stimolante, cosa non da
poco. Locarno diventa così per alcuni giorni dell’anno il crocevia di
culture, linguaggi, modi di essere, di raccontare e di pensare che qui
si mescolano in un clima di enorme disponibilità e attenzione reciproca,
che è altro dalla semplice tolleranza. Nella nostra lingua la parola
‘tollerare’ assume una sfumatura appena negativa, che si approssima a ‘sopportare’.
Ma la vocazione internazionalista e liberale della Svizzera è di antica
data e questa è una delle tante occasione in cui dà prova della sua
capacità di tessere rapporti e costruire relazioni anche quando i
contesti politici generali risultano molto difficili.
Il regista iraniano Hassan Yektapanah, che ha presentato il bel film
Dastan natamam, durante la conferenza stampa ha dichiarato la sua
assoluta fiducia nel potere del cinema e dell’arte in generale, come
promotori di confronto e comprensione fra gli uomini, aldilà di tutte le
ideologie e di tutte le fedi. “Se, per promuovere la pace, l’Onu
finanziasse il cinema invece che incontri e tavole rotonde, i risultati
sarebbero senza dubbio più apprezzabili” ha dichiarato. Pensiero
condiviso anche dal regista israeliano Eran Riklis che, presentando il
film The syrian bride, storia di una ragazza drusa che vive sulle alture
del Golan in una sorta di terra di nessuno e viene costretta ad un
matrimonio combinato, afferma che “ogni regista auspica che il proprio
film possa contribuire ad accrescere la comprensione, la compassione e
la tolleranza…e ad abbattere ogni confine, sia esso fisico, mentale o
emotivo”.
Non starò qui a dilungarmi sulla struttura del Festival che si svolge
ogni anno all’inizio di agosto. Sezioni, film, forum e il calendario di
tutte le iniziative sono stati riportati su tantissimi giornali usciti
in quei giorni. Vorrei invece soffermarmi su quelli che costituiscono, a
mio avviso, gli aspetti più peculiari e innovativi di questa
manifestazione. Per cominciare due sezioni, che mi sono parse di grande
interesse, su aspetti che se pure non trascurati in altri festival,
certo non vengono affrontati in modo così sistematico: quella sui
‘Diritti umani’ e quella su realtà di paesi che difficilmente oggi
riescono ad ottenere udienza. Quest’anno ‘Porte aperte: Mekong’ dava
ampio spazio al cinema vietnamita e cambogiano, video e film non tutti
certamente di qualità eccelse, ma che offrono l’opportunità unica di
accendere le luci su paesi di cui raramente si sente più parlare.
Assistere a tutte le proiezioni è chiaramente impossibile perché le
varie rassegne sono in contemporanea. Mi sembra però che emergano alcune
linee di tendenza e che alcuni temi, pur affrontati da punti di vista
diversi, vengano ripetutamente proposti. Temi sui quali le nostre
società ormai sono chiamate a riflettere: la difficile convivenza
interetnica, resa più complicata dalle ripetute crisi internazionali, il
senso di solitudine e di abbandono che sembra attanagliare uomini e
donne di ogni età, mentre le relazioni famigliari diventano sempre più
labili, incapaci di impedire la deriva. La comparsa di nuovi centri di
aggregazione e di relazioni ‘anomale’: istituti, centri sociali, anonimi
‘misteriosi’ vicini che le nuove realtà urbane ci fanno incontrare, la
cui estraneità diventa specchio e disvelamento della nostra stessa
anomia. È il caso di un film come “André Valente” della portoghese
Catarina Ruivo che racconta la vicenda del piccolo Andrè che deve far
fronte alla ripetuta perdita delle persone più significative, mentre
fatica ad accendere una relazione affettivamente coinvolgente con la
madre. Ecco allora un russo dalla vita inquietante guidarlo
involontariamente alla comprensione di un mondo apparentemente privo di
senso. Molti dei film di Locarno certamente li ritroveremo nelle nostre
sale in inverno: dall’intenso film iraniano, il già citato Dastan
natamam di Hassan Yektapanah, che narra la storia di un gruppo di
persone che cerca attraverso mille traversie, di uscire clandestinamente
dal paese, ripreso da una troupe alla quale tutti finiscono col narrare
le proprie disavventure economiche, sentimentali, familiari e i sogni
che li conducono lontano, in un paese straniero. Soltanto uno dei
clandestini, cui l’attore Hassan Gol Mehdi presta il suo viso
enigmaticamente espressivo, resta in silenzio per tutto il viaggio,
senza svelare mai il proprio segreto. ‘Libro bianco del film’ lo ha
definito il regista, il personaggio ‘muto’ rappresenta coloro che sono
costretti a emigrare non per motivi economici, ma politici, religiosi,
culturali…o quant’altro ciascuno voglia vedervi. Non era possibile farlo
parlare, perché altrimenti la censura avrebbe proibito l’uscita della
pellicola in Iran e lavorare, comunicare con la propria gente, resta per
il regista Yektapanah esigenza irrinunciabile.
Interessantissimo anche il film Yasmin, opera prima dell’inglese Kenny
Glenaan che affronta il tema della islamofobia che ha investito parte
della società inglese dopo l’11 settembre. La diffidenza e la paura
verso l’Islam spinge la pakistana Yasmin, prima in rivolta verso la
misogenia islamica, a riscoprire e ancorarsi alle proprie tradizioni.
Ma i film interessanti sono stati veramente tantissimi ed è solo per
mancanza di spazio che mi limito a pochi: Forgiveness del sudafricano
Ian Gabriel, sul tema del perdono e della riconciliazione nazionale in
Sud Africa (grande esempio di risoluzione non violenta di odi e
conflitti di secoli, su cui tutti noi dovremmo riflettere con grande
attenzione). E poi naturalmente i vincitori: il Pardo d’Oro è andato a
Private opera prima di Saverio Costanzo, figlio di Maurizio, che ha
girato una bella storia su un altro conflitto, quello fra israeliani e
palestinesi, dove ancora sembra avere poco spazio il confronto e il
reciproco perdono. Storia di un’occupazione tutta privata, il film
racconta la vicenda di una famiglia palestinese costretta a cedere una
parte della propria casa ad alcuni soldati israeliani. Eppure da questa
forzata convivenza spuntano segni di speranza che lasciano intravedere
la possibilità di un superamento delle incomprensioni. Così come dalla
proficua collaborazione, sul set, di attori di entrambe le nazionalità è
nata stima e amicizia a dimostrare come il dialogo e il riconoscimento
reciproco possano fiorire a margine di un conflitto anche così annoso ed
esacerbato. E sembra suffragare l’ipotesi, avanzata da molti autori che
lavorano in zone difficili, che il conflitto non appartenga né alle
culture, né alla gente, ma in modo preponderante ai governi, che li
fomentano e li esasperano.
Il Pardo d’Argento è stato vinto dal film tedesco En Garde di Ayse Polat,
giovane regista di origine turca, altro esempio di felice integrazione
fra culture. Due ragazzine, una tedesca, ipoacusica, e una curda,
condividono la quotidianità di un istituto religioso. L’amicizia fra
adolescenti sostituisce il vuoto familiare, rendendo le relazioni
assolute e tiranniche, ma anche le uniche che permettano ai ragazzi di
addentrarsi nella complessità dell’esistenza.
Quali suggerimenti si possono trarre da una esperienza come quella di
Locarno, aldilà della maggiore consapevolezza su ciò che avviene in
campo sociale e culturale? Quale ricaduta sulle nostre realtà?
Noi troviamo che alcuni stimoli potrebbero essere accolti e messi a
frutto anche in altri contesti.
Per esempio sarebbe interessante promuovere un ciclo di film che abbia
appunto come tema i diritti umani e il dialogo interculturale. Diritti
degli uomini che vivono in aree povere e travagliate del pianeta,
diritti negati ad alcuni anche nei paesi avanzati. Conoscenza di realtà
lontane, ma anche degli stranieri che ci vivono accanto, per offrire a
noi e a loro nuovi strumenti interpretativi.
Sarebbe utile raccogliere video e materiali in questo senso, costituire
un fondo ad uso delle scuole e a disposizione dei giovani.
Ci piacerebbe che questa proposta venisse raccolta da enti e istituzioni
che ne rendessero possibile la realizzazione. Perché, come sostiene, a
mio avviso saggiamente, l’iraniano Hassan Yektapanah può molto di più il
cinema dell’ideologia. E dovremmo ricordarci che una conoscenza
immediata degli ‘altri’ ci restituisce il senso della comune umanità
aldilà di tutte le diversità possibili. Perchè nonostante le differenze
restiamo tutti (cito da un grande psichiatra, Bruno Bettelheim che a sua
volta citava non so da chi) “inesorabilmente, poveri figli di Dio”. |
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