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 A spasso per Locarno

di Silvia Golfera

 
 

Ecco che di nuovo si celebra a Venezia il trionfo del Cinema, grande per arte e per mezzi. Senza dubbio un’occasione unica, per chi partecipa e per chi assiste. Ma per chi non ama le grandi abbuffate ed è refrattario alle folle idolatriche che si assiepano attorno ai divi, forse l’aria di Locarno è decisamente più consona.
Chi ama il Cinema, e ama esplorarlo in modo spassionato e curioso, mescolandosi agli autori e agli operatori che discutono, si confrontano, incontrano la stampa e il pubblico, in un clima di attenzione e rilassata disponibilità, al di fuori di ogni atteggiamento divistico, allora trova al Festival di Locarno l’atmosfera ideale.
Si avverte in effetti la sensazione di partecipare ad una grande fiera, dove tutti espongono e si espongono, discutono e commerciano, in una attesa festosa e non priva di brividi. Solo che ciò che si esplora non è un paese qualsiasi, ma il Paese per eccellenza, cioè il mondo. Si ha l’impressione di gettare uno sguardo generale su ciò che ci circonda, di cogliere l’insieme di quei fenomeni di cui spesso la nostra esistenza individuale percepisce solo elementi parziali. Il Festival di Locarno, con la sua vocazione “ad una visione internazionale e generosa dell’uomo” come ha sottolineato il direttore artistico Irene Bignardi, per la sua speciale attenzione a quanto arriva da ogni parte del globo che altrimenti, in molti casi, non avrebbe voce, con le tantissime sezioni cui da vita ogni anno, con la scelta di riservare particolare spazio ad un cinema non commerciale, costituisce una vetrina ideale. Il direttore Irene Bignardi competente e spigliata, riesce inoltre a dare a tutta la manifestazione un tono informale e stimolante, cosa non da poco. Locarno diventa così per alcuni giorni dell’anno il crocevia di culture, linguaggi, modi di essere, di raccontare e di pensare che qui si mescolano in un clima di enorme disponibilità e attenzione reciproca, che è altro dalla semplice tolleranza. Nella nostra lingua la parola ‘tollerare’ assume una sfumatura appena negativa, che si approssima a ‘sopportare’. Ma la vocazione internazionalista e liberale della Svizzera è di antica data e questa è una delle tante occasione in cui dà prova della sua capacità di tessere rapporti e costruire relazioni anche quando i contesti politici generali risultano molto difficili.
Il regista iraniano Hassan Yektapanah, che ha presentato il bel film Dastan natamam, durante la conferenza stampa ha dichiarato la sua assoluta fiducia nel potere del cinema e dell’arte in generale, come promotori di confronto e comprensione fra gli uomini, aldilà di tutte le ideologie e di tutte le fedi. “Se, per promuovere la pace, l’Onu finanziasse il cinema invece che incontri e tavole rotonde, i risultati sarebbero senza dubbio più apprezzabili” ha dichiarato. Pensiero condiviso anche dal regista israeliano Eran Riklis che, presentando il film The syrian bride, storia di una ragazza drusa che vive sulle alture del Golan in una sorta di terra di nessuno e viene costretta ad un matrimonio combinato, afferma che “ogni regista auspica che il proprio film possa contribuire ad accrescere la comprensione, la compassione e la tolleranza…e ad abbattere ogni confine, sia esso fisico, mentale o emotivo”.
Non starò qui a dilungarmi sulla struttura del Festival che si svolge ogni anno all’inizio di agosto. Sezioni, film, forum e il calendario di tutte le iniziative sono stati riportati su tantissimi giornali usciti in quei giorni. Vorrei invece soffermarmi su quelli che costituiscono, a mio avviso, gli aspetti più peculiari e innovativi di questa manifestazione. Per cominciare due sezioni, che mi sono parse di grande interesse, su aspetti che se pure non trascurati in altri festival, certo non vengono affrontati in modo così sistematico: quella sui ‘Diritti umani’ e quella su realtà di paesi che difficilmente oggi riescono ad ottenere udienza. Quest’anno ‘Porte aperte: Mekong’ dava ampio spazio al cinema vietnamita e cambogiano, video e film non tutti certamente di qualità eccelse, ma che offrono l’opportunità unica di accendere le luci su paesi di cui raramente si sente più parlare.
Assistere a tutte le proiezioni è chiaramente impossibile perché le varie rassegne sono in contemporanea. Mi sembra però che emergano alcune linee di tendenza e che alcuni temi, pur affrontati da punti di vista diversi, vengano ripetutamente proposti. Temi sui quali le nostre società ormai sono chiamate a riflettere: la difficile convivenza interetnica, resa più complicata dalle ripetute crisi internazionali, il senso di solitudine e di abbandono che sembra attanagliare uomini e donne di ogni età, mentre le relazioni famigliari diventano sempre più labili, incapaci di impedire la deriva. La comparsa di nuovi centri di aggregazione e di relazioni ‘anomale’: istituti, centri sociali, anonimi ‘misteriosi’ vicini che le nuove realtà urbane ci fanno incontrare, la cui estraneità diventa specchio e disvelamento della nostra stessa anomia. È il caso di un film come “André Valente” della portoghese Catarina Ruivo che racconta la vicenda del piccolo Andrè che deve far fronte alla ripetuta perdita delle persone più significative, mentre fatica ad accendere una relazione affettivamente coinvolgente con la madre. Ecco allora un russo dalla vita inquietante guidarlo involontariamente alla comprensione di un mondo apparentemente privo di senso. Molti dei film di Locarno certamente li ritroveremo nelle nostre sale in inverno: dall’intenso film iraniano, il già citato Dastan natamam di Hassan Yektapanah, che narra la storia di un gruppo di persone che cerca attraverso mille traversie, di uscire clandestinamente dal paese, ripreso da una troupe alla quale tutti finiscono col narrare le proprie disavventure economiche, sentimentali, familiari e i sogni che li conducono lontano, in un paese straniero. Soltanto uno dei clandestini, cui l’attore Hassan Gol Mehdi presta il suo viso enigmaticamente espressivo, resta in silenzio per tutto il viaggio, senza svelare mai il proprio segreto. ‘Libro bianco del film’ lo ha definito il regista, il personaggio ‘muto’ rappresenta coloro che sono costretti a emigrare non per motivi economici, ma politici, religiosi, culturali…o quant’altro ciascuno voglia vedervi. Non era possibile farlo parlare, perché altrimenti la censura avrebbe proibito l’uscita della pellicola in Iran e lavorare, comunicare con la propria gente, resta per il regista Yektapanah esigenza irrinunciabile.
Interessantissimo anche il film Yasmin, opera prima dell’inglese Kenny Glenaan che affronta il tema della islamofobia che ha investito parte della società inglese dopo l’11 settembre. La diffidenza e la paura verso l’Islam spinge la pakistana Yasmin, prima in rivolta verso la misogenia islamica, a riscoprire e ancorarsi alle proprie tradizioni.
Ma i film interessanti sono stati veramente tantissimi ed è solo per mancanza di spazio che mi limito a pochi: Forgiveness del sudafricano Ian Gabriel, sul tema del perdono e della riconciliazione nazionale in Sud Africa (grande esempio di risoluzione non violenta di odi e conflitti di secoli, su cui tutti noi dovremmo riflettere con grande attenzione). E poi naturalmente i vincitori: il Pardo d’Oro è andato a Private opera prima di Saverio Costanzo, figlio di Maurizio, che ha girato una bella storia su un altro conflitto, quello fra israeliani e palestinesi, dove ancora sembra avere poco spazio il confronto e il reciproco perdono. Storia di un’occupazione tutta privata, il film racconta la vicenda di una famiglia palestinese costretta a cedere una parte della propria casa ad alcuni soldati israeliani. Eppure da questa forzata convivenza spuntano segni di speranza che lasciano intravedere la possibilità di un superamento delle incomprensioni. Così come dalla proficua collaborazione, sul set, di attori di entrambe le nazionalità è nata stima e amicizia a dimostrare come il dialogo e il riconoscimento reciproco possano fiorire a margine di un conflitto anche così annoso ed esacerbato. E sembra suffragare l’ipotesi, avanzata da molti autori che lavorano in zone difficili, che il conflitto non appartenga né alle culture, né alla gente, ma in modo preponderante ai governi, che li fomentano e li esasperano.
Il Pardo d’Argento è stato vinto dal film tedesco En Garde di Ayse Polat, giovane regista di origine turca, altro esempio di felice integrazione fra culture. Due ragazzine, una tedesca, ipoacusica, e una curda, condividono la quotidianità di un istituto religioso. L’amicizia fra adolescenti sostituisce il vuoto familiare, rendendo le relazioni assolute e tiranniche, ma anche le uniche che permettano ai ragazzi di addentrarsi nella complessità dell’esistenza.
Quali suggerimenti si possono trarre da una esperienza come quella di Locarno, aldilà della maggiore consapevolezza su ciò che avviene in campo sociale e culturale? Quale ricaduta sulle nostre realtà?
Noi troviamo che alcuni stimoli potrebbero essere accolti e messi a frutto anche in altri contesti.
Per esempio sarebbe interessante promuovere un ciclo di film che abbia appunto come tema i diritti umani e il dialogo interculturale. Diritti degli uomini che vivono in aree povere e travagliate del pianeta, diritti negati ad alcuni anche nei paesi avanzati. Conoscenza di realtà lontane, ma anche degli stranieri che ci vivono accanto, per offrire a noi e a loro nuovi strumenti interpretativi.
Sarebbe utile raccogliere video e materiali in questo senso, costituire un fondo ad uso delle scuole e a disposizione dei giovani.
Ci piacerebbe che questa proposta venisse raccolta da enti e istituzioni che ne rendessero possibile la realizzazione. Perché, come sostiene, a mio avviso saggiamente, l’iraniano Hassan Yektapanah può molto di più il cinema dell’ideologia. E dovremmo ricordarci che una conoscenza immediata degli ‘altri’ ci restituisce il senso della comune umanità aldilà di tutte le diversità possibili. Perchè nonostante le differenze restiamo tutti (cito da un grande psichiatra, Bruno Bettelheim che a sua volta citava non so da chi) “inesorabilmente, poveri figli di Dio”.

 
 
 
 

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