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Oggi che la poesia si
sta molto avvicinando a un verso ipermetrico, vale la pena riscoprire
alcuni poeti del Novecento che hanno fatto di questa caratteristica una
loro bandiera. Poeti come
Giovanni Boine,
o come
Piero Jahier
(di cui mi occuperò in queste poche riflessioni).
Entrambi questi autori fanno parte della generazione dei nati negli anni
’80 del Diciannovesimo secolo: la classe di Giuseppe Ungaretti, dal
quale li divide una netta differenza strutturale.
Piero
Jahier
nacque a
Genova da padre di origini valdesi e da madre convertitasi al
protestantesimo, religione di cui era pastore il coniuge. La famiglia,
nonostante un certo benessere borghese iniziale, cade nell’indigenza
quando il padre si uccide in seguito ai rimorsi generati da un suo
vecchio adulterio. La vita di Piero è quindi connotata da un difficile
avanzare nell’adolescenza e nella prima giovinezza. Nonostante gli
intoppi generati da una simile disgrazia, egli consegue studi proficui,
dapprima in Legge (ad Urbino) e in seguito in Letteratura Francese (a
Torino).
In definitiva, il suo massimo fervore poetico è racchiuso negli anni che
vanno dal 1915, quando fa uscire la sua prima raccolta di poesie
intitolata “Resultanze
in merito alla vita e al carattere di Gino Bianchi”,
fino agli inizi degli anni '20, quando pubblica le due opere successive,
ovvero: “Con
me e con gli alpini”
e “Ragazzo”. Seguirà un silenzio molto lungo, all’interno del quale
Piero si dedicherà alla sistemazione delle proprie raccolte e a qualche
traduzione di autori stranieri,. Negli anni ’60, però, la proposta
dell’editore Vallecchi (che lo invita a sistemare l’intero suo corpo
poetico), lo sollecita di nuovo al "fare".
L’opera di Jahier è caratterizzata da un verso molto lungo, sempre in
bilico fra poesia e prosa. E’ la sua stessa motivazione a scrivere che
lo obbliga a scegliere un siffatto stile. La critica si è interessata a
questa sua “cifra” sempre con un certa dose di curiosità. Gianfranco
Contini disse, a suo tempo, che la sintassi del poeta genovese è
“impressionistica e iterativa”. Mengaldo, dal suo punto di vista,
aggiunge che la “sintassi di Jahier tende a disarticolarsi in forti
scosse alogiche”. In effetti, il bisogno del nostro poeta di urlare a
viva voce il disdegno nei confronti di una società malata di perbenismo
e assai ipocrita, è anche legato alla particolare scomparsa del padre.
Quasi certamente le conseguenze di un simile fatto avranno influito in
questa sua “focosità di denuncia” che lo ha sempre indotto a scegliere
figure retoriche come l’anafora, l’iterazione, in un clima quasi sempre
“concitato”, e dal colore “popolare”. Le sue ripetizioni di termini
sembrano essere frutto di una certa sacralità: di un rito, in
definitiva. Egli, nei testi, si batte per una forma di “uomo intero”
(come dice Ossola nella presentazione del poeta in “Poesia italiana” –
Einaudi editore , Torino). "Uno stile gridato", aggiungono Fortini e
Pintor: una lingua che racchiude in sé regionalismi, gerghi e forme
inusitate.
A mio avviso, Piero Jahier dovrebbe essere ri-sistemato e studiato con
maggior accuratezza. Il suo procedere così “lungo" è quanto mai attuale
ed interessante.
Ecco, adesso, un testo pubblicato a suo tempo nella rivista “La Voce”.
Mi son bardato per la serata:
dal momento che volete vedermi nei vestiti
che gridano: non è lui.
(Io che respiravo alle giunture degli abiti
vecchi come un insetto
- mi sono bardato per la serata).
E – tremando – dall’anticamera riscaldata
mi son prodotto nella luce, negli specchi e sorrisi:
-un sorcio attraversa il salone del transatlantico –
E nuotando nella luce, negli specchi e sorrisi
dell' accoglienza cordiale,
mi son trovato a parlare delle sole cose care,
a spiegare e difendere la causa della mia vita.
Ma ho visto – a tempo – il respiro della
mia passione,
congelarsi contro i vostri visi.
A tempo mi avete guardato
come un drago che butta fuoco.
Mi domando perché mi avete invitato:
ma se è perché ho scritto tre parole sincere
e vorreste il segreto di questo mestiere:
Ci son sette porte e ho perso la chiave
per poterci tornare.
Se le ho dette, vuol dire che avran traboccato,
alzatevi presto e vedete partire la lodola
quando il sole ha chiamato.
Nella via mentre rincasate –su molli compensate-
ritrovo la mia chiave –solo-:
Sono stato visitato
sono stato auscultato
riconosciuto abile a vita coraggiosa
Dieci volte respinto –ricomincerò:
e se proprio fossi disteso, una polla di sangue
al petto
aspettate a venirmi vicino; ancora non vi
accostate.
Ma ho ritrovato la mia chiave –solo-,
ma vi ringrazio;
ma son tornato dove non potete venire –
dove son certo che la mia parola
senza averla gridata non posso
morire.
***
Pubblicato in
La
costruzione del verso & altre cose, 9 marzo 2005
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