agli incroci dei venti: società

 
 
 
 

 Gerusalemme, 31 ottobre-5 novembre 2004.
XXV Colloquio ebraico cristiano di Camaldoli

 

di Giovanna Fuschini
 

 
 

Siamo andati a celebrare il 25° anno dei Colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli a Gerusalemme. Abbiamo scelto di “salire al monte del Signore” per conoscere da vicino una realtà difficile di cui tanto parlano i media, e per portare la nostra testimonianza di dialogo.
Vogliamo sapere a che punto è in terra santa il dialogo ebraico-cristiano (e anche musulmano) che noi perseguiamo in Italia, le particolari difficoltà che presenta in questa terra, sacra a “tre religioni, che hanno non solo il diritto, ma anche il dovere di convivere”, come ha sostenuto il padre Alberto Mello, monaco di Bose.
La situazione è complicata e resa più difficile dal conflitto fra Israele e i palestinesi, che sono in maggioranza musulmani, e fanno della loro religione una bandiera contro un popolo, quello ebraico, che sentono come straniero e oppressore e a cui si sono ribellati ricorrendo a più riprese alla lotta e al terrorismo, subendo in cambio terribili rappresaglie. Vi sono in questa terra due popoli che soffrono, che piangono i loro morti, che devono sopportare gli effetti devastanti di un conflitto che sembra non aver fine. In questa situazione i cristiani hanno spesso guardato con simpatia i palestinesi, i più poveri, i senza terra. Se questo ha reso difficile in passato il rapporto fra cristiani e ebrei, ora c’è chi comincia a considerare i cristiani come un ponte fra ebrei e musulmani in Israele, specialmente dopo la visita di Giovanni Paolo II, che ha aperto un dialogo interreligioso fra Santa Sede e Rabbinato, e ha fatto cadere antichi stereotipi.
Noi siamo venuti in Israele non per condannare o assolvere, ma per prendere coscienza, con rispetto e partecipazione, delle sofferenze provocate dalle divisioni, e degli sforzi che si fanno, a vari livelli, per giungere alla reciproca conoscenza e comprensione e per contrastare la diffidenza, il pregiudizio, l’odio e la violenza.
E questi sforzi esistono in terra santa, come abbiamo potuto constatare: sono tentativi di interazione fra diverse culture, sono esperimenti di convivenza rispettosa, sono coltivazione di valori che portano al dialogo, al confronto, all’arricchimento reciproco, alla sincera amicizia. Si tratta di “gocce nel mare” come è stato detto, ma sono anche motivo di grande speranza.
Anzitutto i monasteri: le suore di Sion, che ci hanno ospitato, vivono a Gerusalemme, in un convento detto dell’Ecce Homo, nel cuore del quartiere musulmano, che si trova nel sito dove sorgeva la torre Antonia, il luogo probabilmente del processo a Gesù, e dove comincia la via Dolorosa. Oltre a svolgere importanti studi di ebraismo, che hanno lo scopo di abbattere i pregiudizi cristiani verso gli ebrei, sono perfettamente inserite nell’ambiente musulmano, conoscono gli usi musulmani, pregano anch’esse quando alle quattro del mattino le sveglia il muezzin, sanno confezionare i dolci del Ramadan, godono la stima dei loro vicini.
Un altro convento molto importante è quello benedettino-olivetano di Abu Gosh, nelle vicinanze di Kiriat-Iearìm (anticamente Baalà di Giuda) da cui il re David trasportò danzando l’arca a Gerusalemme; nella cripta della chiesa di architettura crociata, è custodita una sorgente antica di 3000 anni, che forse era quella attorno alla quale sorgeva il villaggio di Emmaus, dove Gesù apparve ai discepoli scoraggiati e si fece riconoscere spezzando il pane. Oggi è una mistica oasi i cui monaci, di lingua francese, sono stati scelti dai comandi militari israeliani per essere inseriti nel programma di istruzione delle reclute allo scopo di presentare loro il mondo cristiano, e hanno saputo farlo con tale rispetto e senso di amicizia da conquistarsi l’affetto di tanti giovani soldati e soldatesse che, nel tempo, hanno lasciato ai frati i loro ricordi, foto, lettere, mostrine, gagliardetti e altro, con cui è stato allestito un piccolo museo.
È noto poi che i luoghi cristiani della terra santa sono sotto la custodia dei padri francescani; da poco tempo è stato eletto loro priore, cioè Custode della terra santa, il padre Pier Battista Pizzavalla. Lo abbiamo incontrato in St. Savior Church e abbiamo appreso da lui il rapporto sofferto fra mondo ebraico e cattolicesimo ma al tempo stesso la scoperta del legame profondo fra cristianesimo e giudaismo, il bisogno di ripensare la fede cristiana in rapporto alla cultura ebraica, che ne costituisce la radice. Ebrei anche ultra-ortodossi cominciano a provare interesse per il Nuovo Testamento e vi trovano costanti paralleli con brani biblici. I francescani simpatizzano anche col mondo arabo-palestinese, si impegnano ad ascoltare la sua voce, a comprendere il suo dolore; organizzano incontri per battere ignoranza e pregiudizio. Certo la situazione politica non facilita il dialogo, in quanto gli arabi faticano a distinguere fra religione e politica. Ma la cosa forse più dolorosa è il problematico rapporto fra le chiese cristiane in Israele, soprattutto il dialogo col mondo ortodosso che considera i cattolici come usurpatori. Fra tutte queste difficoltà i Custodi della terra santa continuano con pazienza a lavorare per abbattere barriere, affinché nessuno voglia sopraffare la verità dell’altro, ma neanche debba mettere in crisi la propria appartenenza.
Certamente abbiamo sentito anche voci meno fiduciose nella pace e nel dialogo come mezzo per raggiungerla; il fondamentalismo islamico fa paura, l’odio contro Israele, fomentato dai media, amareggia. Ma c’è anche chi è capace di superare tutto questo e di comprendere l’assurdo di fare la guerra per cercare la pace. È il caso di Nevè Shalom, il villaggio fondato da Bruno Hussar, dove vivono fianco a fianco ebrei e arabi, dove, fra mille difficoltà, si lavora sul conflitto che oppone le due etnie per imparare a gestirlo, e questa sarà la vera vittoria perché nessuno può vincere da solo.
Dello stesso parere (“il conflitto va vinto insieme”) è Manuela Dviri, fondatrice del coraggioso progetto “Salvare i bambini” finalizzato alla cura dei bambini palestinesi negli ospedali israeliani; essa ci ha parlato anche dei molti altri progetti in atto di apertura e avvicinamento fra i due popoli, del tanto volontariato che si fa nella convinzione che la pace si porta con la pace. Di “creare il futuro” si occupa poi anche il rabbino Roberto Arbib il quale, convinto che alla fede si arriva da qualsiasi percorso, ha scelto di operare nel “deserto spirituale di Tel Aviv”, ha fondato un centro di studi biblici per adulti e laici, e porta avanti un dialogo con leader religiosi di altre fedi.
Questi ed altri sono stati gli spiragli di speranza che abbiamo intravisto fra le mille difficoltà e i mille timori, palpabili per le vie di Gerusalemme e Tel Aviv, pattugliate in continuazioe da soldati; lungo il “muro” eretto per separare i Territori sottoposti all’autorità palestinese; nelle basiliche cristiane come il santo Sepolcro, divise scandalosamente fra ortodossi e cattolici. Spiragli che sono realtà poco note, spesso trascurate da chi si occupa di problemi del Medio Oriente; bisogna vederle da vicino, toccarle con mano, come abbiamo potuto fare noi, per comprenderne l’importanza e concepire su di esse la fiducia e la possibilità della pace.

 
     
 
 
 

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