|
Siamo andati a celebrare il 25° anno dei Colloqui ebraico-cristiani di
Camaldoli a Gerusalemme. Abbiamo scelto di “salire al monte del Signore”
per conoscere da vicino una realtà difficile di cui tanto parlano i
media, e per portare la nostra testimonianza di dialogo.
Vogliamo sapere a che punto è in terra santa il dialogo
ebraico-cristiano (e anche musulmano) che noi perseguiamo in Italia, le
particolari difficoltà che presenta in questa terra, sacra a “tre
religioni, che hanno non solo il diritto, ma anche il dovere di
convivere”, come ha sostenuto il padre Alberto Mello, monaco di Bose.
La situazione è complicata e resa più difficile dal conflitto fra
Israele e i palestinesi, che sono in maggioranza musulmani, e fanno
della loro religione una bandiera contro un popolo, quello ebraico, che
sentono come straniero e oppressore e a cui si sono ribellati ricorrendo
a più riprese alla lotta e al terrorismo, subendo in cambio terribili
rappresaglie. Vi sono in questa terra due popoli che soffrono, che
piangono i loro morti, che devono sopportare gli effetti devastanti di
un conflitto che sembra non aver fine. In questa situazione i cristiani
hanno spesso guardato con simpatia i palestinesi, i più poveri, i senza
terra. Se questo ha reso difficile in passato il rapporto fra cristiani
e ebrei, ora c’è chi comincia a considerare i cristiani come un ponte
fra ebrei e musulmani in Israele, specialmente dopo la visita di
Giovanni Paolo II, che ha aperto un dialogo interreligioso fra Santa
Sede e Rabbinato, e ha fatto cadere antichi stereotipi.
Noi siamo venuti in Israele non per condannare o assolvere, ma per
prendere coscienza, con rispetto e partecipazione, delle sofferenze
provocate dalle divisioni, e degli sforzi che si fanno, a vari livelli,
per giungere alla reciproca conoscenza e comprensione e per contrastare
la diffidenza, il pregiudizio, l’odio e la violenza.
E questi sforzi esistono in terra santa, come abbiamo potuto constatare:
sono tentativi di interazione fra diverse culture, sono esperimenti di
convivenza rispettosa, sono coltivazione di valori che portano al
dialogo, al confronto, all’arricchimento reciproco, alla sincera
amicizia. Si tratta di “gocce nel mare” come è stato detto, ma sono
anche motivo di grande speranza.
Anzitutto i monasteri: le suore di Sion, che ci hanno ospitato, vivono a
Gerusalemme, in un convento detto dell’Ecce Homo, nel cuore del
quartiere musulmano, che si trova nel sito dove sorgeva la torre Antonia,
il luogo probabilmente del processo a Gesù, e dove comincia la via
Dolorosa. Oltre a svolgere importanti studi di ebraismo, che hanno lo
scopo di abbattere i pregiudizi cristiani verso gli ebrei, sono
perfettamente inserite nell’ambiente musulmano, conoscono gli usi
musulmani, pregano anch’esse quando alle quattro del mattino le sveglia
il muezzin, sanno confezionare i dolci del Ramadan, godono la stima dei
loro vicini.
Un altro convento molto importante è quello benedettino-olivetano di Abu
Gosh, nelle vicinanze di Kiriat-Iearìm (anticamente Baalà di Giuda) da
cui il re David trasportò danzando l’arca a Gerusalemme; nella cripta
della chiesa di architettura crociata, è custodita una sorgente antica
di 3000 anni, che forse era quella attorno alla quale sorgeva il
villaggio di Emmaus, dove Gesù apparve ai discepoli scoraggiati e si
fece riconoscere spezzando il pane. Oggi è una mistica oasi i cui
monaci, di lingua francese, sono stati scelti dai comandi militari
israeliani per essere inseriti nel programma di istruzione delle reclute
allo scopo di presentare loro il mondo cristiano, e hanno saputo farlo
con tale rispetto e senso di amicizia da conquistarsi l’affetto di tanti
giovani soldati e soldatesse che, nel tempo, hanno lasciato ai frati i
loro ricordi, foto, lettere, mostrine, gagliardetti e altro, con cui è
stato allestito un piccolo museo.
È noto poi che i luoghi cristiani della terra santa sono sotto la
custodia dei padri francescani; da poco tempo è stato eletto loro
priore, cioè Custode della terra santa, il padre Pier Battista
Pizzavalla. Lo abbiamo incontrato in St. Savior Church e abbiamo appreso
da lui il rapporto sofferto fra mondo ebraico e cattolicesimo ma al
tempo stesso la scoperta del legame profondo fra cristianesimo e
giudaismo, il bisogno di ripensare la fede cristiana in rapporto alla
cultura ebraica, che ne costituisce la radice. Ebrei anche
ultra-ortodossi cominciano a provare interesse per il Nuovo Testamento e
vi trovano costanti paralleli con brani biblici. I francescani
simpatizzano anche col mondo arabo-palestinese, si impegnano ad
ascoltare la sua voce, a comprendere il suo dolore; organizzano incontri
per battere ignoranza e pregiudizio. Certo la situazione politica non
facilita il dialogo, in quanto gli arabi faticano a distinguere fra
religione e politica. Ma la cosa forse più dolorosa è il problematico
rapporto fra le chiese cristiane in Israele, soprattutto il dialogo col
mondo ortodosso che considera i cattolici come usurpatori. Fra tutte
queste difficoltà i Custodi della terra santa continuano con pazienza a
lavorare per abbattere barriere, affinché nessuno voglia sopraffare la
verità dell’altro, ma neanche debba mettere in crisi la propria
appartenenza.
Certamente abbiamo sentito anche voci meno fiduciose nella pace e nel
dialogo come mezzo per raggiungerla; il fondamentalismo islamico fa
paura, l’odio contro Israele, fomentato dai media, amareggia. Ma c’è
anche chi è capace di superare tutto questo e di comprendere l’assurdo
di fare la guerra per cercare la pace. È il caso di Nevè Shalom, il
villaggio fondato da Bruno Hussar, dove vivono fianco a fianco ebrei e
arabi, dove, fra mille difficoltà, si lavora sul conflitto che oppone le
due etnie per imparare a gestirlo, e questa sarà la vera vittoria perché
nessuno può vincere da solo.
Dello stesso parere (“il conflitto va vinto insieme”) è Manuela Dviri,
fondatrice del coraggioso progetto “Salvare i bambini” finalizzato alla
cura dei bambini palestinesi negli ospedali israeliani; essa ci ha
parlato anche dei molti altri progetti in atto di apertura e
avvicinamento fra i due popoli, del tanto volontariato che si fa nella
convinzione che la pace si porta con la pace. Di “creare il futuro” si
occupa poi anche il rabbino Roberto Arbib il quale, convinto che alla
fede si arriva da qualsiasi percorso, ha scelto di operare nel “deserto
spirituale di Tel Aviv”, ha fondato un centro di studi biblici per
adulti e laici, e porta avanti un dialogo con leader religiosi di altre
fedi.
Questi ed altri sono stati gli spiragli di speranza che abbiamo
intravisto fra le mille difficoltà e i mille timori, palpabili per le
vie di Gerusalemme e Tel Aviv, pattugliate in continuazioe da soldati;
lungo il “muro” eretto per separare i Territori sottoposti all’autorità
palestinese; nelle basiliche cristiane come il santo Sepolcro, divise
scandalosamente fra ortodossi e cattolici. Spiragli che sono realtà poco
note, spesso trascurate da chi si occupa di problemi del Medio Oriente;
bisogna vederle da vicino, toccarle con mano, come abbiamo potuto fare
noi, per comprenderne l’importanza e concepire su di esse la fiducia e
la possibilità della pace. |
|