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Senza
l’opposizione, la resistenza e la lotta delle donne, la sconfitta dei
regimi nazifascisti in Europa non sarebbe stata possibile. Un agire,
nella quasi totalità dei casi, nonarmato. I primi nomi che vengono in
mente sono quelli di Etty Hillesum, di Simone Weil, di Hannah Arendt. Ma
ce ne sono stati anche altri, quelli di donne meno note, ma non per
questo meno importanti per le intuizioni, i sentimenti, i pensieri che
hanno saputo esprimere. Eppure nonostante ciò, per lunghi anni, la gran
parte di queste vicende sono rimaste nascoste dentro il cono d’ombra
della Storia, quella con la “s” maiuscola. Così solo nell’ultimo
decennio del secolo scorso, l’attenzione sulla resistenza delle donne ha
iniziato a produrre studi seri sulla qualità e il peso di quell’esperienza.
Le azioni femminili sono state liquidate fin dai primi giorni
successivi alla Liberazione come un lavoro di “staffette”:
semplici postine dei maschi in armi, complemento minore e certo non
decisivo dello scontro giocato sul terreno principalmente militare.
Tutt’al più è stato considerato degno di qualche menzione il lavoro di
cura e una parte della logistica a favore delle formazioni armate di
montagna. E anche quest’ultimo, considerato diversamente se a compierlo
era stato chiamato un uomo. Molte partigiane, nonostante avessero
compiuto innumerevoli volte azioni ad alto rischio, alla fine della
guerra non hanno avuto alcun riconoscimento ufficiale.
Una
presenza scomoda
In diverse città - a partire da Torino - non è stato permesso loro
nemmeno di sfilare in occasione dei festeggiamenti per la Liberazione.
“Tu non vieni! ... La gente non sa cos’hai fatto in mezzo a noi, e noi
dobbiamo qualificarci con estrema serietà”, dirà un partigiano
“garibaldino” a Teresa Fenoglio Oppedisano (Trottolina), allontanandola
dalla sfilata nel capoluogo piemontese. Il pregiudizio della sessualità,
nel presunto “disordine” della promiscuità delle bande, è solo l’ultimo
e più triste stereotipo che ingabbierà le donne in un ruolo subalterno e
marginale, fino a sfiorare o, in alcuni casi, a superare i confini che
cingono il “territorio” della vergogna. Eppure le donne si sono
esposte, con coraggio e intelligenza, in un ventaglio estremamente ampio
di azioni: dall’organizzazione degli scioperi alla propaganda e
alla controinformazione (sui mezzi pubblici, nelle code davanti ai
negozi, sul posto di lavoro), dalla scelta di nascondere soldati alleati
e partigiani fino al lavoro - indispensabile e ad alto rischio - di
collegamento tra i vari nuclei di resistenti.
Sempre e
ovunque
Rosanna Rolando (Alba Rossa), arrestata, violentata, condannata a morte
dai fascisti, liberata il 25 aprile del ‘45, racconta così gli scioperi
del marzo ‘43 a Torino: “Ho riunito tutte le donne nel cortile della
Manifattura e ho fatto un discorso: ‘Dite che è uno sciopero politico.
Ma invece è uno sciopero sindacale, perché noi vogliamo che ci regalino
duemila lire subito’. Allora erano tutte d’accordo per lo sciopero. Il
secondo giorno sono venuti due ispettori statali da Roma. La Manifattura
era ferma da due giorni. Mi hanno chiamato… In Direzione ho detto: ‘Così
non si va avanti… Dateci duemila lire; compreremo il carbone per quest’inverno
e tutto finisce Iì’… ‘Ma poi non ne chiederete mica duemila altre? Non
vi fermerete di nuovo?’. ‘Se ci accontentate, quello non succederà’. E
ci hanno dato le duemila lire… Erano tutte contente e io avevo fatto lo
sciopero con tutte le fabbriche di Torino, solo che avevo dovuto
girarlo nell’economia invece di farlo politico”.
Teresa Cirio (Roberto), racconta così l’avventura toccatale per portare
l’Unità clandestina da Milano a Torino il giorno dopo gli
scioperi del ‘43, quando, arrivata nel capoluogo piemontese, le si
rompono i pantaloncini nella cui fodere aveva nascosto le copie del
giornale: “E pensare che tutta la polizia d’Italia cercava quello!”.
Nelia Benissone Costa (Vittoria) ricorda le manifestazioni di
donne organizzate nella Torino occupata dai nazisti alla vigilia di
Natale del ‘44. “In quel tempo mi sembrava di fare molto poco.
Dicevo: ‘Ma insomma, dobbiamo fare presto, battere ‘sto nemico… Questa
resistenza passiva, questo sabotaggio, questo malcontento, questo aiuto
ai partigiani di calze, di guanti… che si preparano, non bastano.
Facciamo…’. Dopo questa ai docks Dora, ci sono state manifestazioni
nelle altre parti di Torino… dove le donne hanno assaltato le
cooperative. Poi hanno fatto quella dei Tabacchi e altre... Al 14 o 15
gennaio… ho organizzato un’altra manifestazione. Qui nel settore c’era
il deposito di carbone del gruppo Fiat della zona. Riforniva le
Acciaierie, i Grandi Motori e altre fabbriche… La caserma era a cento
metri dal punto dove io volevo fare la manifestazione, quindi era una
cosa abbastanza pericolosa… Abbiamo rotto i cancelli e abbiamo dato
l’assalto al carbone. Qualcuna se l’è portato via addirittura con un
carrettino… Sono poi arrivati i rinforzi delle guardie bianche, una
cinquantina della Falchera e dei Grandi Motori… Siamo rimaste in una
trentina… Cominciamo a parlare a queste guardie fasciste, anzi a questi
operai, perché erano operai. Cominciamo a dire che loro non si dovevano
mettere a guardia di quel poco carbone che c’era lì ammucchiato, dal
momento che le donne avevano avuto il coraggio di venirselo a
prendere... E l’avevano sì preso per una ragione, per riscaldare le loro
case, ma anche e soprattutto perché il carbone serviva a
fabbricare armi, perché lì si facevano armi… E noi non dovevamo
continuare così. In guerra si moriva, morivano anche loro. Prima o poi
ci sarebbero andati. Sarebbero morti i parenti e i figli... Abbiamo
fatto tutto un discorso politico, lunghissimo. Loro, in silenzio,
oppure: ‘Andate via, donne, andate via, lasciate perdere, lasciate
perdere!’. ‘Ma è per voi! Non lo capite che combattiamo per voi?’. E
c’era Maria, questa donna meravigliosa, robusta, del popolo… Era la ‘madre’,
e continuava a dire: ‘Ma è per voi, io ho una bambina a casa: potete
ammazzarmi anche qua… Volete sa¬pere? lo del vostro carbone me ne frego!
Sto al freddo! Buttate giù quei fucili, cosa state lì coi fucili
spianati, puntati verso le vostre madri, le vostre sorelle!’.
Meravigliosa”.
Parola
d’ordine: disubbidire
Sempre Teresa Cirio racconta una bella esperienza di disubbidienza.
C’era la guerra d’Africa, e ovunque si doveva firmare in appoggio al
conflitto. «Mi ricordo la mia padrona. Viene da noi e dice: ‘Bisogna
andare… a firmare. Ah, l’impero! Andiamo a prenderlo!’. Siamo uscite.
Eravamo una cinquantina di ragazze. Ho subito detto che non sarei andata
a firmare: ‘Noi siamo donne, siam contro la guerra’. lo
proprio per la guerra avevo un odio! Mio papà mi aveva raccontato
cos’era stata la prima guerra mondiale e anche la mamma aveva sofferto
tanto... Ora c’era la guerra d’Africa! ‘Io non vado a firmare per
la guerra’. E un bel gruppo di ragazze sono state con me e non
sono andate a firmare… Poi, nel ‘39, è venuto il duce a Torino, quando è
andato anche alla Fiat e gli operai non l’hanno applaudito.
Il corteo doveva passare poco lontano dal nostro laboratorio… La padrona
aveva detto: ‘Mi raccomando, domani tutte col grembiule pulito,
inamidato, che bisogna andare a battere le mani al duce!’. Invece io ho
pensato di nascondermi: mi son chiusa nel gabinetto qualche minuto
prima dell’uscita. E così non sono andata”.
Una storia della stessa natura sarà raccontata da Giacomina Ercoli, una
partigiana bresciana. Sua madre aveva deciso di non pagare la tessera
delle “piccole italiane” e il maestro aveva cercato per questo di
intimidire le bambine, minacciando che avrebbe chiamato i carabinieri e
la prigione. Alle bambine impaurite “la mamma diceva: ‘No,
guardate che non possono mandarvi in prigione, non possono; stiamo ferme
e non paghiamo niente’. E non abbiamo mai pagato niente”.
“La
guerra l’ho fatta senz’armi”
È chiaro il rapporto delle donne con le armi e con la guerra.
Ricorderà Lidia Menapace: “Io ero staffetta del Cln di Novara, una città
medaglia d’oro della Resistenza, nella cui provincia la Resistenza
armata (verso la quale ebbi e ho il massimo di solidarietà non acritica)
fu grande, diffusa e tremenda; come staffetta ero disposta a stampare e
distribuire stampa clandestina, affiggere manifesti illegali, violando
il coprifuoco accompagnare al sicuro perseguitati politici o razziali,
far evadere prigionieri politici, portare messaggi, viveri, medicinali
alle formazioni, arrivavo fino a distribuire plastico per
sabotaggi alle cose, non ero disposta a portare armi. Non dirò
nemmeno che ciò mi derivasse da una precisa coscienza pacifista, ero
solo certa che non avrei mai potuto uccidere nessuno, ero certa
oltretutto di avere paura delle armi (cosa che considero molto civile) e
che magari mi sarei fatta del male da me. Per un impasto di ragioni, non
ero disposta a portare armi e mai nessuno mi forzò a farlo, né mi
impose o suggerì altrimenti”.
L’ultima storia di questa Resistenza “al femminile”, è narrata da Maria
Rovano (Camilla), partigiana a Barge, nel cuneese, medaglia d’oro al
valore. Nei ricordi che seguono, mostra un intreccio di coraggio,
astuzia e umanità mai separato dal rispetto della vita e della dignità
di ogni uomo e ogni donna, amico o nemico che fosse.
“Sento sparare in piazza. La farmacista viene a chiamarmi: ‘Camilla!’.
Corro in paese a vedere cosa succedeva. C’era un gruppo di tedeschi,
venuti su a riparare le linee telefoniche che i partigiani facevano
continuamente saltare o portavano via con azioni di disturbo. Sulla
strada… avevano catturato Spezia e un altro partigiano che
scendevano per rifornimenti. I ragazzi erano buttati per terra feriti,
in piazza davanti al caffè, con questi tedeschi che gridavano: ‘Banditi!
Portiamo impiccare a Saluzzo!’. Ne avevano già impiccato uno a Cavour. I
ragazzi zitti. Intanto vedo Spezia sgranare gli occhi addosso a me,
imploranti. Osservo che ha soltanto una gamba rotta e una ferita non
grave. I tedeschi erano in cinque, su un camion. Vedo arrivare il prete…
Allora io affronto ‘sti tedeschi… ‘Eh, ma qui c’è una gamba rotta, non è
possibile trasportare: bisogna mettere due assicelle”. Intanto faccio
vedere il mio foglio da ostetrica… ‘Va bendato qui, qui, e poi portare
via’. ‘Ma se dobbiamo impiccarlo!’. ‘Ma va be’, poi lo impiccate’. ‘Ma
lei è capace?’. ‘lo? Sì’. ‘Quanto tempo ci vuole?’. ‘Datemi un’ora di
tempo, vado all’ospedale, prendo il necessario, vengo su e lo bendo’. I
tedeschi si sono incuriositi un po’. ‘Va bene, lo faccia!’…
Sul fianco del municipio c’era una biciclettina... Salto su e corro
verso l’ospedale. Per la strada guardo se vedo qualche staffetta. Trovo
Leonardo: ‘Senti Leonardo, c’è Spezia che ha solo il femore rotto e una
ferita leggera, con un altro che mi sembra più grave. Corri
immediatamente, c’è un’ora di tempo, vai su e di’ che ci sono cinque
tedeschi... Sono cinque, solo cinque. I nostri si mettano alla fine del
paese, possono fermarli...’. Vengo su con bende, assicelle e medicinali,
mi sono trainata anche una suora appresso. Arrivo e mi metto a bendare.
Qualcuno del paese mi dice: ‘Adesso ti lasciano bendare e poi ti
ammazzano perché vedono che curi i partigiani’. ‘Oh, cosa me ne importa,
se mi uccidono! M’ha detto di bendare, no?’. Guardavo i tedeschi. ‘Li
bendo?’. ‘Sì, sì, bendare’. Il podestà cominciava a dubitare: ‘Guarda,
che se mi fai arrivare i partigiani... guai a te, neh!’.
A metà bendaggio, i tedeschi prendono i ragazzi e li buttano sul camion.
Avevo paura, tremavo come una foglia, ma volevo che il tempo passasse.
‘Eh, no! Ci vuole ancora ‘st’iniezione!’… Il camion era già pronto per
partire con i due partigiani e io volevo fare l’iniezione. Allora il
tedesco m’ha preso in braccio e m’ha buttato su con loro. Finalmente
sono vicinissima a Spezia e posso parlargli. ‘Che cos’è?’, mi chiede,
accennando alla siringa - forse credeva che fosse un veleno, perché
certo prima d’impiccarlo l’avrebbero interrogato e torturato. ‘Non
parlo, sai!’. ‘No, no, è solo un calmante. Attento, Spezia. Ti salviamo.
Stai attento all’uscita del paese...’. Il tedesco mi prende in braccio e
mi mette giù dal camion. A questo punto il podestà, che aveva capito, fa
sottovoce: ‘Ma siamo circondati dai partigiani! Fila subito a dire di
non sparare qua, che ci siamo anche noi’. In quella confusione, ritorno
alla biciclettina, vado verso il mercato coperto e vedo tutti i
partigiani pronti. Erano appostati. Vedevo solo più i mirini rossi,
tanti mirini che sembravano delle stelle rosse. ‘Togliti, Camilla, che
spariamo!’. ‘No, non qui, per carità! Ci sono i civili, e il
podestà!’. ‘Al diavolo il podestà, facciamo fuori anche lui!’.
Avevano una voglia matta di sparare. Ho detto: ‘No, datemi due minuti di
tempo, perché altrimenti roviniamo il paese’.
Tornata vicino al camion, ma senza scendere dalla bici, con un piede a
terra e uno sul pedale grido: ‘Alzate i tacchi, che sparano!’. E zac,
con la biciclettina giro l’angolo! Il podestà e tutti i civili si sono
buttati dietro i pilastri del municipio. C’è stata una sparatoria che
sembrava dovesse cascare l’edificio. Il tedesco che era al volante
e un altro sono rimasti feriti. I civili si sono salvati tutti.
I partigiani hanno prelevato i loro due compagni e la camionetta che era
piena di munizioni. lo ho fatto un giro intorno al paese e poi ho
accompagnato i partigiani su in collina. Quello ferito gravemente,
un siciliano, … è morto il giorno dopo. L’abbiamo curato
nella notte. Era contento e sembrava che non volesse più morire, voleva
cantare con i partigiani. Poi s’è messo a chiamare la mamma. È morto con
tutti noi accanto, in un casolare abbandonato, e l’abbiamo ricoperto di
fiori di campagna. Spezia l’abbiamo portato nella baita. Mi sono fatta
dare un forcipe e gli ho messo a posto il femore. Ma guariva male e
allora l’abbiamo ricoverato all’ospedale.
I due tedeschi feriti li hanno portati dal vicario e lì medicati,
poi li hanno accompagnati a Saluzzo. Gli altri tre tedeschi si
son fatti a piedi i venti chilometri fino a Saluzzo: non si sono fermati
mai, e sono arrivati trafelati. Il Comando tedesco ha trattato per due
giorni o tre, perché voleva la restituzione dei partigiani e della
camionetta. Figuriamoci se davamo indietro la camionetta e gli
uomini!”.
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