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Nel silenzio delle coscienze

di Vincenzo Andraous

 
  Non ho buonismi facili né intelletto caritatevole che mi inducono a tendere la mano a Adriano Sofri, bensì è la forza della ragione che mi spinge a non schierarmi con il plotone di esecuzione in attesa da decenni… e che ora s’affida al buon silenzio.
Se veramente egli fosse stato artefice materiale di quel delitto, ebbene in tanti anni di carcere, di entrate e di uscite, di tempo sospeso e speranze fucilate, penso abbia scontato tutto un tempo per pagare il dazio richiesto all’intera società.
Ma ciò che più mi rende sbilanciato dalla sua parte, quindi anche dalla parte di chi non c’è più, è un ragionamento che dovrebbe riguardare i tanti altri Sofri relegati nelle patrie galere, che non sono pochi.
Penso che l’uomo della condanna non sia più l’uomo della pena. Penso che chi ha commesso un reato, seppur grave, nel tragitto di vita detentivo e non, abbia la possibilità di smetterla di disabitare se stesso, e così diventare ed essere un uomo diverso. Un uomo dapprima vinto e perduto, e in seguito un uomo che affidandosi alle proprie capacità interiori, ritrova la propria umanità.
Ciò in forza della fede che ognuno professa, sia anche quella di un amore finalmente coraggioso per l’altro.
Non difendo Sofri, né cerco di fuorviare dal carico di lacerante disperazione di quella famiglia a lutto.
Ragiono come dovrebbe ragionare una Giustizia non succube di momenti emozionali emergenziali. Una Giustizia che è tale, perché è giusta ed equa, e non perché potente e altisonante.
Non è mia intenzione comparare il messaggio cristiano con il nostro sistema giuridico, né porre su binari convergenti le parole di Cristo con il diritto penale. Non ne sarei capace, ma obiettare che un uomo che non confessa, devia dal primo gradino della propria conversione, mi sembra alquanto improprio. Primo perché, se Sofri foss’anche colpevole, quella confessione andrebbe riportata a Cristo stesso o al suo ministro.
Secondo, perché il Tribunale, lo Stato, la società reprime una condotta socialmente dannosa, e giudica gli atti posti in essere da quella persona. Non quella persona.
Non difendo Sofri, e non voglio neppure tirare per il bavero Gesù e la Fede, neanche voglio commuovere la platea irosa che chiama a raccolta.
Piuttosto mi viene spontaneo affermare che lo Stato non è capace della generosità del perdono, se non per un puro calcolo di opportunità.
E se l’obiettivo di uno Stato è la rieducazione nella funzione della pena, mi chiedo cosa c’è da riformare, destrutturare e ristrutturare, in un uomo, oggi detenuto, come Sofri?
Uno Stato non si spende per la conversione del reo ( figuriamoci di un innocente che muore senza mai invocare alcuna pietà d’accatto ), ma se vogliamo, arbitrariamente, discutere di ciò, allora è la storia personale dell’uomo Sofri, quella sbandierata dai giornali, dalla televisione, dalle cronache a metter fine al dubbio, perché da quei lontani anni di slogans e sangue, è proprio il Sofri di oggi a disegnare il percorso di una conversione ove si riconosce la centralità dell’uomo.
E del resto, rimane forse la terribile domanda di Primo Levi: “ chi dà a voi il diritto di perdonare?”.
 

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03/07/2007

 

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