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Non ho
buonismi facili né intelletto caritatevole che mi inducono a
tendere la mano a Adriano Sofri, bensì è la forza della ragione
che mi spinge a non schierarmi con il plotone di esecuzione in
attesa da decenni… e che ora s’affida al buon silenzio.
Se veramente egli fosse stato artefice materiale di quel
delitto, ebbene in tanti anni di carcere, di entrate e di
uscite, di tempo sospeso e speranze fucilate, penso abbia
scontato tutto un tempo per pagare il dazio richiesto all’intera
società.
Ma ciò che più mi rende sbilanciato dalla sua parte, quindi
anche dalla parte di chi non c’è più, è un ragionamento che
dovrebbe riguardare i tanti altri Sofri relegati nelle patrie
galere, che non sono pochi.
Penso che l’uomo della condanna non sia più l’uomo della pena.
Penso che chi ha commesso un reato, seppur grave, nel tragitto
di vita detentivo e non, abbia la possibilità di smetterla di
disabitare se stesso, e così diventare ed essere un uomo
diverso. Un uomo dapprima vinto e perduto, e in seguito un uomo
che affidandosi alle proprie capacità interiori, ritrova la
propria umanità.
Ciò in forza della fede che ognuno professa, sia anche quella di
un amore finalmente coraggioso per l’altro.
Non difendo Sofri, né cerco di fuorviare dal carico di lacerante
disperazione di quella famiglia a lutto.
Ragiono come dovrebbe ragionare una Giustizia non succube di
momenti emozionali emergenziali. Una Giustizia che è tale,
perché è giusta ed equa, e non perché potente e altisonante.
Non è mia intenzione comparare il messaggio cristiano con il
nostro sistema giuridico, né porre su binari convergenti le
parole di Cristo con il diritto penale. Non ne sarei capace, ma
obiettare che un uomo che non confessa, devia dal primo gradino
della propria conversione, mi sembra alquanto improprio. Primo
perché, se Sofri foss’anche colpevole, quella confessione
andrebbe riportata a Cristo stesso o al suo ministro.
Secondo, perché il Tribunale, lo Stato, la società reprime una
condotta socialmente dannosa, e giudica gli atti posti in essere
da quella persona. Non quella persona.
Non difendo Sofri, e non voglio neppure tirare per il bavero
Gesù e la Fede, neanche voglio commuovere la platea irosa che
chiama a raccolta.
Piuttosto mi viene spontaneo affermare che lo Stato non è capace
della generosità del perdono, se non per un puro calcolo di
opportunità.
E se l’obiettivo di uno Stato è la rieducazione nella funzione
della pena, mi chiedo cosa c’è da riformare, destrutturare e
ristrutturare, in un uomo, oggi detenuto, come Sofri?
Uno Stato non si spende per la conversione del reo ( figuriamoci
di un innocente che muore senza mai invocare alcuna pietà
d’accatto ), ma se vogliamo, arbitrariamente, discutere di ciò,
allora è la storia personale dell’uomo Sofri, quella sbandierata
dai giornali, dalla televisione, dalle cronache a metter fine al
dubbio, perché da quei lontani anni di slogans e sangue, è
proprio il Sofri di oggi a disegnare il percorso di una
conversione ove si riconosce la centralità dell’uomo.
E del resto, rimane forse la terribile domanda di Primo Levi: “
chi dà a voi il diritto di perdonare?”.
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