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Dalla Danimarca
alla Polonia, dal Belgio alla Norvegia, fino nel cuore della stessa
Germania nazista, sono state molte le lotte condotte senza armi:
noncollaborazione, disubbidienza civile, insubordinazione, diserzione,
rifiuto del servizio del lavoro obbligatorio, renitenza alle chiamate
alla leva, protezione ed espatrio delle persone ricercate,
controinformazione, sabotaggio, sono stati alcuni degli strumenti e
delle pratiche di quest’azione civile.
Come ha scritto Gene Sharp, “durante la Seconda guerra mondiale i
patrioti si opposero ai dominatori nazisti e ai loro fantocci interni
con armi come i giornali clandestini, il rallentamento del lavoro, gli
scioperi generali, il rifiuto di collaborare, speciali boicottaggi delle
truppe tedesche e dei collaborazionisti, non cooperazione”. In Italia
tutte queste forme di lotta sono state messe in campo dai partigiani e
da molti altri uomini e donne, in alcuni casi da intere comunità o
gruppi organizzati, che di quelle formazioni combattenti non avrebbero
mai fatto parte, pur condividendone i fini.
Lotte avviate, in certi casi, ben prima dell’8 settembre del ‘43, che
avevano attraversato i vent’anni del regime fascista, e i cui
protagonisti, molto spesso, finirono in carcere o al confino, condannati
per lunghi anni a un apartheid civile e umano feroce, o
subirono torture, deportazioni, fino alla condanna a morte. E tutto ciò
nel rifiuto della vendetta e dell’odio - come si può
leggere in quasi tutte le lettere dei condannati a morte della
Resistenza -, e la convinzione che il mondo che sarebbe dovuto
nascere dopo quella tremenda esperienza, sarebbe stato migliore.
Lotte spontanee o che invece hanno richiesto preparazione,
organizzazione, disciplina e soprattutto l’esposizione a molti rischi
assunti consapevolmente, e alle loro inevitabili conseguenze. Questo
spiega tanta parte di quel tributo di sangue.
Se oggi vogliamo leggere sotto questa luce la storia della lotta di
liberazione italiana, è perché crediamo sia importante
sottolineare aspetti che ancora non hanno avuto il giusto rilievo.
Per lunghi anni, infatti, dopo la fine del Secondo conflitto mondiale,
essa è stata celebrata nella sua forma armata, come una grande
narrazione epica dalla quale emergevano quasi esclusivamente i gesti
d’eroismo legati agli scontri con i nazifascisti, o il sacrificio dei
tanti civili inermi trucidati nelle rappresaglie ordite dalle truppe
tedesche e dalle milizie collaborazioniste del governo di Salò.
La resistenza
dimenticata
Per molto
tempo, una parte di questa vicenda è stata oscurata da una memoria
ufficiale, quasi rappresentasse un episodio minore, sussidiario del
“grande evento” resistenziale. Una lotta nonarmata condotta da uomini, e
in particolare da donne, che quasi sempre sono rimasti anonimi, ma che è
stata caratteristica non secondaria del movimento di liberazione
nel suo complesso.
Per definire questo fenomeno, si è preferito usare il termine
“resistenza passiva”, con un intendimento riduttivo: si è parlato a
questo proposito di una resistenza (con la lettera minuscola) inattiva,
fondamentalmente attesista che è appartenuta a quella che è stata
descritta come la “zona grigia” della popolazione. Una sorta di
“agnosticismo civile e morale”, inerme, e per questo
sostanzialmente complice di ingiustizie e soprusi.
Ma perché una “resistenza” ci sia, bisogna che chi la agisce scelga, si
comprometta, manifestando la propria volontà di opporsi con un
comportamento attivo per raggiungere risultati concreti che, in alcuni
casi, quando si sono espressi nelle forme di una lotta civile, hanno
avuto la stessa efficacia dell’azione militare. Magari facendosi forti
“solo” di un ruolo educativo di nuova coscienza, critica e perciò
libera, per quei giovani che sarebbero dovuti essere i cittadini
responsabili dell’Italia di domani, come nel caso di Aldo Capitini.
Fu quasi sempre una lotta silenziosa ma mai “muta”, a cui
parteciparono coloro che non vollero subire né le minacce né le lusinghe
del Potere totalitario.
D’altronde, diversi autorevoli storici, hanno segnalato che anche sul
piano strettamente militare - considerata l’enorme sproporzione di mezzi
e organizzazione tra partigiani e truppe nazifasciste - il valore della
resistenza è stato di gran lunga legato ad azioni di natura non
strettamente bellica. Le formazioni combattenti hanno rappresentato una
spina nel fianco degli occupanti per il costo complessivo che hanno loro
imposto: precario controllo del territorio, destabilizzazione delle
amministrazioni locali, sabotaggi alla rete logistica,
dell’approvvigionamento e delle comunicazioni, prefigurazione
istituzionale di controsocietà politiche (le Repubbliche partigiane). Ma
tutto ciò è potuto accadere perché c’era stata anche una
resistenza civile.
In alcuni casi, le due modalità sono state praticate da un unico
soggetto, individuo e gruppo che fosse, rappresentando
forme diverse di un’unica lotta (pensiamo ad esempio ai
sabotaggi portati a segno dalle formazioni partigiane). Oppure i vari
attori (armati e non) si sono sostenuti reciprocamente (l’affiancamento
delle manifestazioni popolari da parte dei Gruppi di azione patriottica,
o l’aiuto ai ricercati). Per finire con quelle azioni a cui va
riconosciuta un’autonomia dai tempi della guerra partigiana, perché,
come ha sottolineato Sèmelin, “si trattava di far sopravvivere
valori e modi di vita profondamente minacciati”, di conservare, nel
limite del possibile, un’umanità in tempo di barbarie. L’insieme
di queste condizioni hanno rappresentato la precondizione perché la
stessa azione armata abbia potuto resistere nel tempo e consolidarsi.
Ciò ha significato osare la possibilità di opporsi senza il
bisogno di sparare sul “nemico”. Era la dimostrazione che
esistevano altre forme di lotta attraverso cui esso poteva essere
indebolito prima, e sconfitto poi: negandogli il consenso, non
collaborando con lui, opponendosi alle sue scelte necrofile,
ricostruendo socialità dove c’era solo paura e rassegnazione, resistenza
dove regnava passività e attesa, pratica di diritti civili, politici e
umani là dove imperava solo sopruso e umiliazione. Facendosi guidare, il
più delle volte, dalla saggezza e dal buon senso propri della gente più
umile.
Per una diversa
idea di politica
Quando si è cominciato a studiare tali forme di resistenza (l’aiuto ai
renitenti alla leva o ai disertori, l’ospitalità agli ebrei
perseguitati, l’organizzazione della fuga dei deportati, ecc.), si
è voluto spiegare ciò come un agire determinato da un sentimento
umanitario prepolitico, espressione se non di una
predisposizione genetica al bene, per lo meno di una funzione naturale
degli individui che ad esso tendono. Secondo tale idea, ciò che spinge
la persona a compiere queste azioni, appartiene alla sua naturale
sfera emotiva, e ciò non è qualificabile come un agire politico
in senso proprio, perché non è mosso da una motivazione razionale,
riflettuta, da un progetto ideale consapevolmente elaborato e acquisito,
di cui sono individuati gli attori, i principi informatori, i fini
generali che lo caratterizzano.
Da qui nasce una considerazione della sostanziale subordinazione della
rappresentazione della lotta disarmata, in quanto azione “debole”, a
quella armata, secondo una scala di comportamenti alquanto discutibile.
Così si è arrivati a non riconoscere nella resistenza civile il
segno tangibile, per quanto “silenzioso”, di un’altra idea di politica,
che ha acquistato senso e spessore storico nel momento in cui tale lotta
ha dovuto fare i conti con l’apparato repressivo messo in campo dal
“nemico”. Molti di questi comportamenti che in tempo di pace sono
ritenuti normali (l’aiuto reciproco, il senso di giustizia e di
compassione, l’amore verso il prossimo), in una condizione di
eccezionalità come è una guerra, diventano dei veri e propri atti
politicamente significativi, perché si scontrarono con una
realtà ostile, e con chi (strutture, persone, ideologie) la incarna e
riproduce.
Per cui il rifiuto di obbedire alle leggi ingiuste di uno Stato che
decideva in pieno arbitrio della vita e della morte dei suoi sudditi -
perché tali erano gli italiani, non certo dei cittadini -, l’opporsi a
ogni tipo di offesa perpetrata contro l’essere umano più debole,
rappresentavano atti profondamente “politici” ed espressione di
una forte coscienza morale. Molti agirono spinti da un impulso
che fece sembrare naturale una scelta che poteva portare davanti a un
plotone di esecuzione. Si trattò, in sostanza, di affermare un’altra
politica rispetto a quella coniugata da sempre alla distruzione
dell’avversario, alla morte, alla logica di potenza e dominio,
fatta di azioni organizzate di massa, ma soprattutto di valori comuni
diffusi, di comportamenti quotidiani animati dal senso di
solidarietà e da un’istintiva consapevolezza del proprio ruolo. Non si
può certo pensare, per quel tempo, a lotte coscientemente e
deliberatamente nonviolente, assegnando a esse il significato che oggi,
invece, potremmo loro dare; non ci troviamo davanti a comportamenti che
si rifacevano ad un pensiero codificato, a una dottrina, a tecniche che
traducevano nella concretezza dell’agire delle premesse ideologiche, a
un pensiero politico e umano integralmente nonviolento. Si è
trattato, piuttosto, di una “nonviolenza” praticata più che pensata,
inventata come prassi politica utile al conseguimento di un obiettivo
definito. Una nonviolenza inconsapevole, ma proprio per questo,
“antica come le montagne”.
Invece, fino ad oggi, la resistenza armata è stata ritenuta la forma più
efficace di opposizione al nazifascismo, anche se, fra gli stessi
partigiani, ci furono quelli/e che scelsero di militare nelle formazioni
combattenti svolgendo però ruoli che non contemplavano l’uso diretto
delle armi. C’è stata, cioè, una sorta di “militarizzazione” della
memoria resistenziale. In questo modo sono scomparsi dalla sua
narrazione, e quindi dalla memoria collettiva, altri importanti
protagonisti. Ma la primazia della resistenza armata sta anche nel fatto
che le sue azioni hanno potuto essere immortalate in ragione della loro
eclatante visibilità, mentre quelle civili hanno assunto molto spesso
forme espressive non misurabili col criterio che definisce l’importanza
di un evento anche in base alla sua autorappresentazione o alla memoria
che ne hanno i protagonisti per l’eccezionalità che esso rappresenta
nello scandire le varie fasi del loro vissuto personale.
Non si tratta di riscrivere la Storia, ma di restituire alla nostra
attenzione la pluralità del suo corpus; non dobbiamo
stabilire una diversa gerarchia dei fatti accaduti, ribaltando quella
oggi prevalente, ma di ridare pieno riconoscimento alla pluralità
delle “forme resistenti” e su questo ricostruire una diversa memoria
dello stesso evento resistenziale. È necessario ricordare che
era possibile agire anche disarmati, affrontando pericoli non per questo
minori rispetto a quelli in cui poteva incorrere chi aveva scelto di
imbracciare un fucile: deportazioni, fucilazioni, torture hanno
coinvolto moltissime persone che hanno preferito opporsi in questo modo
a un sistema criminale di oppressione e morte.
Prendersi in casa un renitente alla leva o un ebreo, un prigioniero
evaso piuttosto che un ricercato, essere una staffetta,
significava rischiare la morte o la deportazione in un campo di
concentramento, così come accadeva ai combattenti. Tali comportamenti
erano il più delle volte voluti, ed esisteva quindi la consapevolezza
dei rischi e delle conseguenze, a cui i “partigiani civili” andavano
incontro.
Non è stato “comodo” resistere a mani nude. Si trattava di boicottare le
leggi della Repubblica Sociale organizzando la fuga dei renitenti alla
leva, o il non avviamento al lavoro del personale richiesto dalle
autorità tedesche; di sabotare strade, ferrovie, la produzione
industriale o agricola; di manifestare sotto le carceri per chiedere la
liberazione degli arrestati e destinati alla deportazione, o davanti ai
negozi alimentari per rivendicare il diritto a una alimentazione
sufficiente; di distribuire volantini o giornaletti, di organizzare
comizi nei mercati e nelle piazze; di assistere i ricercati, i
perseguitati razziali o politici. Questo, e molto altro. Si è
trattato di un vero e proprio “esercito silenzioso”, ma senza divisa e
senza gradi, per il quale potrebbero valere le parole di Albert
Camus: “Non camminare davanti a me, potrei non seguirti/ non camminare
dietro di me, potrei non esserti di guida/ cammina al mio fianco, dammi
la mano e siamo solo amici”. Oggi abbiamo il bisogno di creare una
“memoria condivisa” non tanto attorno al monumento “Resistenza”, ma
piuttosto la capacità di guardarci dentro, vedere la complessità degli
elementi che lo compongono, restituendo i volti di tutti coloro
che, in modi diversi, con o senza armi, si sono ribellati, non
hanno collaborato, si sono battuti contro un sistema totalitario, per
restituire dignità, diritti, giustizia e pace a tutti. Per se stessi, ma
anche per gli altri, i “vinti”.
Una resistenza
che continua
La nostra Carta costituzionale ha recepito molti dei valori che hanno
informato la Resistenza. I diritti fondamentali sono stati scritti
nella Costituzione: essi definiscono l’identità civile e
politica del nostro Paese. Chi ci mette mano per ridurli,
svilirli, manometterli con la scusa che appartengono a un’altra stagione
della storia nazionale, o addirittura negarli, con atti parlamentari
formalmente legittimi ma imponendo nei fatti una sorta di “dittatura
della maggioranza”, dev’essere contrastato. È un nostro
dovere. I “padri costituenti” sono stati a questo proposito molto
chiari. Per questo la resistenza continua, e proprio nelle
forme in cui - una volta portate alla maturità da una più profonda e
condivisa cultura nonviolenta partecipata oggi da un sempre maggior
numero di cittadini e cittadine - cominciò a esprimersi la ribellione
contro l’ingiustizia, l’arbitrio, l’arroganza di un Potere totalitario.
Sessant’anni fa.
Missione Oggi
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