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Non di sole armi

di Mimmo Cortese - Roberto Cucchini

 
     
 

Dalla Danimarca alla Polonia, dal Belgio alla Norvegia, fino nel cuore della stessa Germania nazista, sono state molte le lotte condotte senza armi: noncollaborazione, disubbidienza civile, insubordinazione, diserzione, rifiuto del servizio del lavoro obbligatorio, renitenza alle chiamate alla leva, protezione ed espatrio delle persone ricercate, controinformazione, sabotaggio, sono stati alcuni degli strumenti e delle pratiche di quest’azione civile.

Come ha scritto Gene Sharp, “durante la Seconda guerra mondiale i patrioti si opposero ai dominatori nazisti e ai loro fantocci interni con armi come i giornali clandestini, il rallentamento del lavoro, gli scioperi generali, il rifiuto di collaborare, speciali boicottaggi delle truppe tedesche e dei collaborazionisti, non cooperazione”. In Italia tutte queste forme di lotta sono state messe in campo dai partigiani e da molti altri uomini e donne, in alcuni casi da intere comunità o gruppi organizzati, che di quelle formazioni combattenti non avrebbero mai fatto parte, pur condividendone i fini.
Lotte avviate, in certi casi, ben prima dell’8 settembre del ‘43, che avevano attraversato i vent’anni del regime fascista, e i cui protagonisti, molto spesso, finirono in carcere o al confino, condannati per lunghi anni a un apartheid civile e umano feroce, o subirono torture, deportazioni, fino alla condanna a morte. E tutto ciò nel rifiuto della vendetta e dell’odio - come si può leggere in quasi tutte le lettere dei condannati a morte della Resistenza -, e la convinzione che il mondo che sarebbe dovuto nascere dopo quella tremenda esperienza, sarebbe stato migliore. Lotte spontanee o che invece hanno richiesto preparazione, organizzazione, disciplina e soprattutto l’esposizione a molti rischi assunti consapevolmente, e alle loro inevitabili conseguenze. Questo spiega tanta parte di quel tributo di sangue.
Se oggi vogliamo leggere sotto questa luce la storia della lotta di liberazione italiana, è perché crediamo sia importante sottolineare aspetti che ancora non hanno avuto il giusto rilievo. Per lunghi anni, infatti, dopo la fine del Secondo conflitto mondiale, essa è stata celebrata nella sua forma armata, come una grande narrazione epica dalla quale emergevano quasi esclusivamente i gesti d’eroismo legati agli scontri con i nazifascisti, o il sacrificio dei tanti civili inermi trucidati nelle rappresaglie ordite dalle truppe tedesche e dalle milizie collaborazioniste del governo di Salò.

La resistenza dimenticata
Per molto tempo, una parte di questa vicenda è stata oscurata da una memoria ufficiale, quasi rappresentasse un episodio minore, sussidiario del “grande evento” resistenziale. Una lotta nonarmata condotta da uomini, e in particolare da donne, che quasi sempre sono rimasti anonimi, ma che è stata caratteristica non secondaria del movimento di liberazione nel suo complesso.
Per definire questo fenomeno, si è preferito usare il termine “resistenza passiva”, con un intendimento riduttivo: si è parlato a questo proposito di una resistenza (con la lettera minuscola) inattiva, fondamentalmente attesista che è appartenuta a quella che è stata descritta come la “zona grigia” della popolazione. Una sorta di “agnosticismo civile e morale”, inerme, e per questo sostanzialmente complice di ingiustizie e soprusi.
Ma perché una “resistenza” ci sia, bisogna che chi la agisce scelga, si comprometta, manifestando la propria volontà di opporsi con un comportamento attivo per raggiungere risultati concreti che, in alcuni casi, quando si sono espressi nelle forme di una lotta civile, hanno avuto la stessa efficacia dell’azione militare. Magari facendosi forti “solo” di un ruolo educativo di nuova coscienza, critica e perciò libera, per quei giovani che sarebbero dovuti essere i cittadini responsabili dell’Italia di domani, come nel caso di Aldo Capitini. Fu quasi sempre una lotta silenziosa ma mai “muta”, a cui parteciparono coloro che non vollero subire né le minacce né le lusinghe del Potere totalitario.
D’altronde, diversi autorevoli storici, hanno segnalato che anche sul piano strettamente militare - considerata l’enorme sproporzione di mezzi e organizzazione tra partigiani e truppe nazifasciste - il valore della resistenza è stato di gran lunga legato ad azioni di natura non strettamente bellica. Le formazioni combattenti hanno rappresentato una spina nel fianco degli occupanti per il costo complessivo che hanno loro imposto: precario controllo del territorio, destabilizzazione delle amministrazioni locali, sabotaggi alla rete logistica, dell’approvvigionamento e delle comunicazioni, prefigurazione istituzionale di controsocietà politiche (le Repubbliche partigiane). Ma tutto ciò è potuto accadere perché c’era stata anche una resistenza civile.
In alcuni casi, le due modalità sono state praticate da un unico soggetto, individuo e gruppo che fosse, rappresentando forme diverse di un’unica lotta (pensiamo ad esempio ai sabotaggi portati a segno dalle formazioni partigiane). Oppure i vari attori (armati e non) si sono sostenuti reciprocamente (l’affiancamento delle manifestazioni popolari da parte dei Gruppi di azione patriottica, o l’aiuto ai ricercati). Per finire con quelle azioni a cui va riconosciuta un’autonomia dai tempi della guerra partigiana, perché, come ha sottolineato Sèmelin, “si trattava di far sopravvivere valori e modi di vita profondamente minacciati”, di conservare, nel limite del possibile, un’umanità in tempo di barbarie. L’insieme di queste condizioni hanno rappresentato la precondizione perché la stessa azione armata abbia potuto resistere nel tempo e consolidarsi.
Ciò ha significato osare la possibilità di opporsi senza il bisogno di sparare sul “nemico”. Era la dimostrazione che esistevano altre forme di lotta attraverso cui esso poteva essere indebolito prima, e sconfitto poi: negandogli il consenso, non collaborando con lui, opponendosi alle sue scelte necrofile, ricostruendo socialità dove c’era solo paura e rassegnazione, resistenza dove regnava passività e attesa, pratica di diritti civili, politici e umani là dove imperava solo sopruso e umiliazione. Facendosi guidare, il più delle volte, dalla saggezza e dal buon senso propri della gente più umile.

Per una diversa idea di politica
Quando si è cominciato a studiare tali forme di resistenza (l’aiuto ai renitenti alla leva o ai disertori, l’ospitalità agli ebrei perseguitati, l’organizzazione della fuga dei deportati, ecc.), si è voluto spiegare ciò come un agire determinato da un sentimento umanitario prepolitico, espressione se non di una predisposizione genetica al bene, per lo meno di una funzione naturale degli individui che ad esso tendono. Secondo tale idea, ciò che spinge la persona a compiere queste azioni, appartiene alla sua naturale sfera emotiva, e ciò non è qualificabile come un agire politico in senso proprio, perché non è mosso da una motivazione razionale, riflettuta, da un progetto ideale consapevolmente elaborato e acquisito, di cui sono individuati gli attori, i principi informatori, i fini generali che lo caratterizzano.
Da qui nasce una considerazione della sostanziale subordinazione della rappresentazione della lotta disarmata, in quanto azione “debole”, a quella armata, secondo una scala di comportamenti alquanto discutibile. Così si è arrivati a non riconoscere nella resistenza civile il segno tangibile, per quanto “silenzioso”, di un’altra idea di politica, che ha acquistato senso e spessore storico nel momento in cui tale lotta ha dovuto fare i conti con l’apparato repressivo messo in campo dal “nemico”. Molti di questi comportamenti che in tempo di pace sono ritenuti normali (l’aiuto reciproco, il senso di giustizia e di compassione, l’amore verso il prossimo), in una condizione di eccezionalità come è una guerra, diventano dei veri e propri atti politicamente significativi, perché si scontrarono con una realtà ostile, e con chi (strutture, persone, ideologie) la incarna e riproduce.
Per cui il rifiuto di obbedire alle leggi ingiuste di uno Stato che decideva in pieno arbitrio della vita e della morte dei suoi sudditi - perché tali erano gli italiani, non certo dei cittadini -, l’opporsi a ogni tipo di offesa perpetrata contro l’essere umano più debole, rappresentavano atti profondamente “politici” ed espressione di una forte coscienza morale. Molti agirono spinti da un impulso che fece sembrare naturale una scelta che poteva portare davanti a un plotone di esecuzione. Si trattò, in sostanza, di affermare un’altra politica rispetto a quella coniugata da sempre alla distruzione dell’avversario, alla morte, alla logica di potenza e dominio, fatta di azioni organizzate di massa, ma soprattutto di valori comuni diffusi, di comportamenti quotidiani animati dal senso di solidarietà e da un’istintiva consapevolezza del proprio ruolo. Non si può certo pensare, per quel tempo, a lotte coscientemente e deliberatamente nonviolente, assegnando a esse il significato che oggi, invece, potremmo loro dare; non ci troviamo davanti a comportamenti che si rifacevano ad un pensiero codificato, a una dottrina, a tecniche che traducevano nella concretezza dell’agire delle premesse ideologiche, a un pensiero politico e umano integralmente nonviolento. Si è trattato, piuttosto, di una “nonviolenza” praticata più che pensata, inventata come prassi politica utile al conseguimento di un obiettivo definito. Una nonviolenza inconsapevole, ma proprio per questo, “antica come le montagne”.
Invece, fino ad oggi, la resistenza armata è stata ritenuta la forma più efficace di opposizione al nazifascismo, anche se, fra gli stessi partigiani, ci furono quelli/e che scelsero di militare nelle formazioni combattenti svolgendo però ruoli che non contemplavano l’uso diretto delle armi. C’è stata, cioè, una sorta di “militarizzazione” della memoria resistenziale. In questo modo sono scomparsi dalla sua narrazione, e quindi dalla memoria collettiva, altri importanti protagonisti. Ma la primazia della resistenza armata sta anche nel fatto che le sue azioni hanno potuto essere immortalate in ragione della loro eclatante visibilità, mentre quelle civili hanno assunto molto spesso forme espressive non misurabili col criterio che definisce l’importanza di un evento anche in base alla sua autorappresentazione o alla memoria che ne hanno i protagonisti per l’eccezionalità che esso rappresenta nello scandire le varie fasi del loro vissuto personale.
Non si tratta di riscrivere la Storia, ma di restituire alla nostra attenzione la pluralità del suo corpus; non dobbiamo stabilire una diversa gerarchia dei fatti accaduti, ribaltando quella oggi prevalente, ma di ridare pieno riconoscimento alla pluralità delle “forme resistenti” e su questo ricostruire una diversa memoria dello stesso evento resistenziale. È necessario ricordare che era possibile agire anche disarmati, affrontando pericoli non per questo minori rispetto a quelli in cui poteva incorrere chi aveva scelto di imbracciare un fucile: deportazioni, fucilazioni, torture hanno coinvolto moltissime persone che hanno preferito opporsi in questo modo a un sistema criminale di oppressione e morte.
Prendersi in casa un renitente alla leva o un ebreo, un prigioniero evaso piuttosto che un ricercato, essere una staffetta, significava rischiare la morte o la deportazione in un campo di concentramento, così come accadeva ai combattenti. Tali comportamenti erano il più delle volte voluti, ed esisteva quindi la consapevolezza dei rischi e delle conseguenze, a cui i “partigiani civili” andavano incontro.
Non è stato “comodo” resistere a mani nude. Si trattava di boicottare le leggi della Repubblica Sociale organizzando la fuga dei renitenti alla leva, o il non avviamento al lavoro del personale richiesto dalle autorità tedesche; di sabotare strade, ferrovie, la produzione industriale o agricola; di manifestare sotto le carceri per chiedere la liberazione degli arrestati e destinati alla deportazione, o davanti ai negozi alimentari per rivendicare il diritto a una alimentazione sufficiente; di distribuire volantini o giornaletti, di organizzare comizi nei mercati e nelle piazze; di assistere i ricercati, i perseguitati razziali o politici. Questo, e molto altro. Si è trattato di un vero e proprio “esercito silenzioso”, ma senza divisa e senza gradi, per il quale potrebbero valere le parole di Albert Camus: “Non camminare davanti a me, potrei non seguirti/ non camminare dietro di me, potrei non esserti di guida/ cammina al mio fianco, dammi la mano e siamo solo amici”. Oggi abbiamo il bisogno di creare una “memoria condivisa” non tanto attorno al monumento “Resistenza”, ma piuttosto la capacità di guardarci dentro, vedere la complessità degli elementi che lo compongono, restituendo i volti di tutti coloro che, in modi diversi, con o senza armi, si sono ribellati, non hanno collaborato, si sono battuti contro un sistema totalitario, per restituire dignità, diritti, giustizia e pace a tutti. Per se stessi, ma anche per gli altri, i “vinti”.

Una resistenza che continua
La nostra Carta costituzionale ha recepito molti dei valori che hanno informato la Resistenza. I diritti fondamentali sono stati scritti nella Costituzione: essi definiscono l’identità civile e politica del nostro Paese. Chi ci mette mano per ridurli, svilirli, manometterli con la scusa che appartengono a un’altra stagione della storia nazionale, o addirittura negarli, con atti parlamentari formalmente legittimi ma imponendo nei fatti una sorta di “dittatura della maggioranza”, dev’essere contrastato. È un nostro dovere. I “padri costituenti” sono stati a questo proposito molto chiari. Per questo la resistenza continua, e proprio nelle forme in cui - una volta portate alla maturità da una più profonda e condivisa cultura nonviolenta partecipata oggi da un sempre maggior numero di cittadini e cittadine - cominciò a esprimersi la ribellione contro l’ingiustizia, l’arbitrio, l’arroganza di un Potere totalitario. Sessant’anni fa.


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03/07/2007

 

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