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Al comando della
caserma dei carabinieri di Villa Carcina - uno dei principali Comuni
industrializzati della Valle Trompia, in provincia di Brescia - viene
designato il giovane brigadiere Modestino Guaschino, originario di
Avellino. Con lui la gestione della stazione dell’Arma diventa attiva e
autorevole, soprattutto verso la parte più debole della popolazione. Già
nel maggio del ’43, interviene in difesa di un operaio comunista,
accusato di aver promosso nella sua fabbrica una manifestazione
sindacale: lo tiene in cella una settimana e poi lo libera, salvandolo
così dalla sicura deportazione in Germania.
Il 25 luglio cade il regime fascista. Due giorni dopo la
popolazione festeggia l’uscita di scena di Mussolini, sperando
che ciò voglia anche dire la fine della guerra. Ma il giovane
Guaschino non interviene a spegnere la gioia tumultuosa dei manifestanti.
All’indomani dell’8 settembre, consegna a un antifascista del luogo armi
e munizioni depositate presso la caserma dei carabinieri e che di lì a
poco raggiungeranno i primi nuclei partigiani garibaldini. A ottobre,
invece, l’ex segretario del fascio locale gli consegna un elenco di nomi
con l’ordine “tassativo e assoluto” di procedere immediatamente
all’arresto di queste persone e consegnarle ai tedeschi quali “ostaggi”.
Il brigadiere pensa immediatamente a come salvare quegli innocenti.
Scorre la lista delle possibili vittime: le conosce personalmente. Non
può rifiutare la consegna, ma non vuole nemmeno prestarsi a eseguire un
ordine che sa essere ingiusto. Prende una decisione semplice, ma
coraggiosa: incarica un suo sottoposto di far girare la voce degli
imminenti arresti, così da avvisare per tempo gli interessati. Così
sette ricercati riescono a fuggire. Solo uno verrà arrestato.
Con una mossa inattesa, sempre l’ex gerarca gli impone di fermare altre
persone: questa volta il brigadiere deve procedere di persona. Comincia
così il primo rastrellamento di massa sul territorio di Villa Carcina:
sono fermati e condotti nel carcere di Brescia 11 “ostaggi”.
Ai primi di gennaio del ’44, viene attuato un nuovo rastrellamento in
cui vengono fermati alcuni renitenti alla leva, mentre sui monti
circostanti cadono due paracadutisti inglesi che il Guaschino consegnerà
a un dirigente della Resistenza locale salvandoli così dalla cattura.
Subito dopo un gruppo di fascisti locali, sporgono una denuncia
proprio contro di lui per “aver simpatizzato con i dimostranti della
manifestazione del 27 luglio 1943, astenendosi dall’arrestare
persone antifasciste; per aver aiutato alcuni paracadutisti non
consegnandoli alle autorità; per aver inviato ai partigiani mediante
armi e munizioni”.
Il brigadiere riceve il conforto e l’appoggio del suo superiore diretto,
che non solo blocca l’indagine aperta a suo carico, ma lo incoraggia ad
allontanarsi definitivamente dall’apparato repressivo fascista.
Con la costituzione delle Brigate nere, la stazione dei carabinieri
continua a funzionare, ma svolge incarichi sempre più ridotti. Di fronte
a tale situazione, Guaschino scioglie gli ultimi dubbi e decide di
seguire con coerenza la sua doppia anima: quella di antifascista e di
soldato che riconosce come unica autorità legittima quella del Re.
Lasciata così la divisa per essere subito dopo assunto come capo guardia
in un’azienda locale adibita alla produzione di munizioni. Qui operano
già diversi partigiani e l’ex brigadiere entra immediatamente a far
parte del Comitato di liberazione di fabbrica.
Nell’ottobre del ’44, interviene presso la tenenza di Gardone per
salvare un uomo catturato tre giorni prima e destinato con altri
due alla sicura deportazione. A metà novembre gli viene perquisita
l’abitazione: informato per tempo, riuscirà a nascondere armi e
documenti. Subito dopo un esponente del partito fascista di Brescia gli
comunica che è stato formalmente accusato di attività antifascista e
ritenuto responsabile diretto di ogni atto eversivo eventualmente
commesso a Villa Carcina.
È il 10 marzo del ’45. Due fratelli, ambedue brigatisti neri, si avviano
verso casa. Dei partigiani li stanno aspettando per disarmarli. I due
militi rispondono all’alt sparando. I partigiani reagiscono facendo
fuoco a loro volta. I due fratelli muoiono a distanza di poche ore l’uno
dall’altro. La notizia dell’agguato si propaga in un attimo. Lo Stato
maggiore della brigata antipartigiana di Brescia si reca sul posto e
decide immediatamente i tempi e le modalità della rappresaglia. La
prima vittima è un giovane partigiano, che abita a circa 200 metri dal
luogo dell’agguato. Viene prelevato da casa e prima di ucciderlo
lo torturano, spezzandogli tutte le costole con i calci dei mitra.
Accanto al suo corpo saranno raccolti 24 bossoli. Il giorno
seguente – è una domenica – tocca all’ex brigadiere.
Gli viene consigliato di fuggire. È ormai certo che anche lui
sia sulla lista dei ricercati. Ma Guaschino decide di restare.
Di lì a qualche ora, dopo un vertice tenuto in Comune, un gruppo di
fascisti decidono le modalità dell’operazione. È sera; una nutrita
squadra di brigatisti si dirigono verso l’abitazione dell’ex brigadiere.
Il padrone di casa gli suggerisce di nascondersi, ma egli rifiuta
l’invito. Sa di essere in pace con la propria coscienza. I suoi
carnefici lo prendono e lo buttano a terra: lo afferrano per i piedi e
lo trascinano giù dalla scalinata di pietra. Viene quindi spintonano
fino alla caserma del fascio. Dapprima lo perquisiscono, sottraendogli
del denaro, poi lo interrogano, percuotendolo e minacciandolo.
L’accusa principale è di essere un collaboratore dei partigiani.
Vogliono i nomi. Gli rompono le dita una a una, gli spezzano le
mani, lo seviziano bruciandolo con mozziconi di sigaretta spente sul
corpo, gli ustionano i piedi con l’olio bollente. Tace. Violenza e
sofferenza continueranno ininterrottamente per quasi due ore. È passata
da poco la mezzanotte. Il corpo spezzato e piagato dell’ex brigadiere
viene sospinto brutalmente a spintoni e a calci verso il luogo
dell’esecuzione.
Giunti all’incrocio d’un oscuro viottolo di campagna, uno dei militi
estrae il coltello e procede alla sua evirazione. Guaschino
squarcia il silenzio gridando fortissimo e più volte il nome
dell’aguzzino. Per farlo tacere gli sferrano un violentissimo
colpo col calcio del mitra sopra la tempia sinistra. Infine, uno dei
torturatori, mette fine alla sua agonia sparandogli alcuni colpi di
mitra prima alle braccia, poi al petto e alle gambe. L’ultimo alla nuca.
Ha 36 anni. Lo troveranno l’indomani mattina: la schiena appoggiata al
paletto che sorregge la rete metallica di cinta, il capo reclinato. Pare
che dorma. Ai suoi piedi una decina di bossoli. Non porta scarpe né
calze. Il corpo dell’ex brigadiere viene protetto dalla pietà popolare
con una coperta. Due giorni dopo la salma verrà deposta -
senza che prima sia stato permesso di officiare alcun rito religioso -
in una fossa scavata sul lato sinistro dell’ingresso del cimitero,
in un angolo appartato, senza un segno di riconoscimento, senza una
croce.
Missione Oggi
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