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L'immagine
che si ha di una prigione è uno schema freddo e sintetico, uno
spazio essenziale, spogliato di ogni riferimento, ove l'anima
urla davvero, e potrebbe non esser udita, perché soffocata dalle
sue stesse grida, dall"imprecare, sanguinare, chiedere. In
questa prigione così oscura, tetra e dura, tanto da divenire un
incubo, fino a farti ammuffire più del suo tetto-cratere corroso
dal tempo: esiste un'umanità che sopravvive e infine chiede di
vivere. Allora non solo il sistema mediatico dovrebbe prendere
in esame questa istanza che non ha nulla di pietistico o
vittimistico, affinché divenga una precisa istanza di interesse
collettivo, perché nessuno si ritenga autorizzato a non farci i
conti. Eppure per crescere, per non piegarsi a quell’infantilizzazione
galoppante, a quella desocializzazione che rincorre e rincula a
ogni standard di prisonizzazione, esso deve diventare uno
spazio, si, di privazione della libertà, ma anche e soprattutto
un micro gruppo facente parte il macro gruppo ove tentare di
recuperare non solo attraverso l’afflizione, ma soprattutto da
ciò che in ciascuno incombe: la responsabilità di " ritrovare e
ricostruire se stesso".
Rifuggire il nuovo, senza scommettersi, non impegnarsi insieme
con gli altri, Operatori Penitenziari e la Società civile, non
esponendosi in prima persona per la propria crescita personale e
professionale: equivale a non vivere pienamente questa vita che
ci precede e osserva, trasfigurando la quotidianità,
trascendendo l'umanità stessa. Tutto ciò perché? Per restituirci
almeno in parte alla nostra dignità di uomini.
Il grande problema sul versante carcerario consiste nel favorire
e costruire una cultura nuova più consona allo spirito delle
leggi e delle norme, una cultura nuova che permetta anche a chi
vive a contatto diretto e quotidiano con il recluso, un modo
nuovo di concepire e mettere in pratica la propria
professionalità e le proprie responsabilità. Mi chiedo infatti
se un carcere che risponde a condizioni strettamente
custodialistiche e prisonizzanti, non sia nell'effetto
antitetico allo spirito e alle attese delle leggi stesse.
Come può una società non sentirsi chiamata in causa, non avere
la consapevolezza che è suo preciso interesse occuparsi di ciò
che avviene o non avviene dentro un carcere? Perché volenti o
non volenti, esiste un dopo e questo dopo positivo dipende da un
durante solidale costruttivo e non indifferente.
Affrontare il cambiamento è una necessità, come affrontarlo è
una sfida per l’Amministrazione Penitenziaria, per i detenuti,
per l’intera società. “Se il carcere permarrà o scivolerà in un
sistema chiuso, esso gestirà i problemi del cambiamento e
dell’aggiornamento tentando di mantenere lo status quo
ripiegandosi su stesso; se invece diverrà un sistema di
detenzione aperto agli ideali nuovi e possibili, allora diverrà
anche un luogo di reale testimonianza”. |
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