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Al centro incontro una donna di una cinquantina d’anni che proviene da
Ninja, a 75 km da Bukavu (Congo). Mi racconta una storia così
emozionante che penso valga la pena di scriverla per condividere con
altri le emozioni che suscita, ma anche per provocare indignazione nelle
coscienze perché si continui a combattere la radice del male nell’est
del Congo.
“Il 3 agosto 2004 ero al lavoro nei campi con un’altra donna. I campi
dove noi coltiviamo i fagioli sono quasi tutti nella foresta”. Questa
piccola donna, mamma di sette figli (ne ha partoriti dieci), mi guarda
con difficoltà, e cerca le parole adatte per introdurre il suo dramma.
So che la sua venuta qui la riempie di speranza, perché, dopo
quasi quattro mesi di violenza, sicuramente si aspetta delle cure.
“Quando gli assalitori sono arrivati - continua - alcune persone che si
trovavano nei campi si sono potute salvare. Io, invece, sono stata presa
con un’altra donna del mio stesso villaggio. Gli uomini ci hanno portate
fino al loro campo e ci hanno obbligate a essere le loro mogli. Nella
foresta abbiamo trovato altre donne di cui non conoscevamo la
provenienza. Ma io non avevo che un’idea: trovare una nascondiglio per
salvarmi. Non era il momento di socializzare con le altre. L’uomo che mi
aveva presa mi batteva. La mia compagna mi pregava di non ribellarmi, ma
piuttosto di mostrarmi docile; così Dio poteva ancora liberarci da
quell’inferno e farci rivedere i nostri figli. Così ho fatto finta di
accettare la mia sorte. L’uomo che mi aveva catturato mi prendeva due
volte tutti i giorni, di notte. Inoltre, i nostri rapitori ci credevano
ormai rassegnate, perché dicevamo loro che eravamo incapaci di ritrovare
le tracce del percorso che eravamo state obbligate a fare fino lì.
Eravamo in piena foresta. Un sabato, precisamente l’8 agosto, al
mattino, l’uomo mi ha dato del sapone e un mucchio di panni sporchi, e
mi ha detto di andare a lavarli al fiume. La stessa cosa alla mia
compagna”.
A questo punto le domando se, mandandole al fiume, aveva ordinato a
qualche guardia di accompagnarle. Mi risponde di no.
“La precauzione che avevano preso consisteva nel fatto che eravamo
quasi nude, e, in questo stato, non eravamo certamente in grado di
andarcene. La mia compagna era appena vestita: aveva coperto la
parte inferiore, mentre il resto del suo corpo era nudo. Io ero vestita
un pò meglio, perché avevo indosso una specie di gonna, anche se corta,
e sul petto qualche cosa che mi copriva appena i seni. Andando al fiume,
mi è venuta l’idea di lasciare tutto lì e di scappare. L’ho proposto
alla mia compagna. Qualche istante di esitazione e poi ci siamo dette
che, in ogni caso, tra rimanere in tali condizioni o morire sbranate da
bestie selvagge, era sempre preferibile gettarci nella foresta.
Ci dicevamo che Dio avrebbe saputo bene cosa fare di noi. La sola
preoccupazione era quella di ritrovare i nostri figli. Abbiamo camminato
tutto il giorno, fino alla notte. Ci siamo fermate per dormire. Voi
sapete che la foresta è talmente fitta che non si vede il cielo. Eravamo
nelle mani di Dio. Il mattino dopo abbiamo ripreso il cammino. Avevamo
molta fame. Eravamo sostenute solo dal desiderio di ritornare a casa.
Abbiamo camminato ancora per qualche ora e poi abbiamo trovato un campo
di manioca. Ci siamo dette che questo campo certamente doveva essere
coltivato da persone normali. La nostra speranza era quella di non
essere molto lontane dal villaggio. Abbiamo strappato un pò di piante di
manioca e abbiamo mangiato, continuando a camminare. Siamo
arrivate a un posto da dove si vedeva un villaggio. Le prime
persone che abbiamo incontrato sono stati dei bambini. Volevano fuggire
perché non rassomigliavamo agli altri. Eravamo quasi nude. Li abbiamo
chiamati e invitati ad avvicinarsi. Poi li abbiamo mandati nel villaggio
a cercarci dei vestiti. Sono partiti e, dopo qualche istante, delle
donne sono venute portando ciò che avevano potuto trovare. Anch’esse
erano povere: avevano subito parecchi saccheggi”. Mi mostra il vestito
che le avevano donato quel giorno, e mi spiega che apparteneva alla
figlia delle donne venute incontro.
“Non abbiamo voluto passare la notte là, perché quel posto era ancora
vicino alla foresta e avevamo paura che quei selvaggi sarebbero venuti a
cercarci. Allora, dopo aver mangiato qualche cosa, un uomo ci ha
accompagnate. Siamo arrivate a casa la sera e ci hanno fatto
festa. Non speravano più di vederci! Mio marito mi ha accolto
dicendomi che non ne faceva una colpa e che mi credeva quasi morta. In
ogni caso il suo amore per me non è per niente cambiato”.
Le domando se per caso conosceva il nome dell’uomo che le aveva prese
nella foresta, e mi risponde che non le è venuto in mente di domandargli
il nome.
“Non era mio marito - aggiunge - anche se faceva con me tutto ciò che un
uomo fa con la propria moglie. Era violento e non aveva niente di
tenero. È difficile che si cominci una conversazione con gente così!”
Le domando se conosceva almeno il nome della foresta dove erano state
portate, e mi risponde nella stessa maniera: “La foresta delle cose
cattive non merita di essere conosciuta, né tanto meno di essere
nominata!” (nella lingua mashi: Ipoli l’yobuhezi lirhankadosibwa
erhi kuderhwa!). Sono tante le donne ancora trattenute
nell’inferno della foresta del Sud Kivu; non hanno davanti altro che un
futuro di violenza e sfruttamento. Alcune portano il peso della
gravidanza non desiderata, delle malattie, ecc. Affrontano la morte ogni
giorno. Forse il miracolo della nostra solidarietà le può
liberare da queste grinfie e dare una vera pace al Congo.
Missione Oggi |
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