agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti  
 
 
 

 La pay tv sta uccidendo il cinema

di Sergio Tardetti

 
 

Negli anni ’60 del secolo ormai trascorso, piccoli cinefili crescevano, grazie all’attento apporto della tv, a canale unico e ad orario ridotto. Si attendeva con ansia il lunedì sera, quando sul piccolo schermo in bianco e nero, dopo le scarne e divertenti pubblicità proposte da “Carosello”, veniva presentato il Film, quello con la “F” maiuscola, unica escursione settimanale della tv nell’altro da sé. Anche i programmisti Rai, pur senza le raffinatezze dell’attuale Auditel, dovettero accorgersi del successo tributato dal pubblico a quelle meta-proiezioni, perché, di lì a poco, decisero di replicare l’appuntamento anche il martedì sera. Intere serie, dedicate a generi cinematografici, a grandi registi o a stelle del cinema, passavano sotto i nostri occhi attenti, ancora aperti nonostante l’ora, per noi tarda. Ignoravamo la raccomandazione delle signorine “buonasera”: “E dopo Carosello tutti a nanna!” e gustavamo avidamente quelle storie, raccontate dieci, venti, a volte trenta anni prima a platee di spettatori allora veramente sterminate. Era una specie di pegno che la televisione pagava al cinema, dopo che aveva contribuito non poco a metterlo in crisi, catturando davanti al monoscopio quelle folle, sottratte alla magia del fascio di luce che danzava nel buio della sala e dipingeva lo schermo vuoto con un turbinio di immagini sempre in movimento. E così passarono sotto i nostri occhi di giovanissimi spettatori affascinati i grandi film di fantascienza, la commedia all’italiana, il western classico, le serie dedicate a John Wayne, Jean Gabin, Marylin Monroe, Gregory Peck, Marlon Brando. E poi Hitchcock, Lang, la Nouvelle Vague (poca in verità), i classici del cinema francese, Bunuel, il cinema sovietico, detto chissà perché, del disgelo. Nessuna escursione nel cinema asiatico o africano, sconosciuto e di là da venire quello australiano e sudamericano. Ricordo le facce seriose dei critici di allora, Gian Luigi Rondi su tutti, che in tono pacato e didascalico, introducevano il film e cercavano di farne apprezzare qualcosa di più dei puri aspetti contenutistici. All’epoca eravamo troppo piccoli e forse troppo provinciali per comprendere tutte quelle elucubrazioni sullo stile dei vari autori e dei vari interpreti, ma, nel tempo, qualcosa di quelle che noi consideravamo barbose e inutili tirate deve essere senz’altro rimasto. Lo si capì più avanti, da come, al tempo dell’università, quei semi gettati a caso in un terreno apparentemente poco fertile, iniziarono a germogliare in tutti noi. Si era aperta la stagione dei grandi dibattiti, che nascevano in maniera estemporanea, in pizzeria o sulle panchine dei parchi pubblici, o più organizzata, nelle sedi dei collettivi e nelle aule universitarie, sugli argomenti più quotidiani e ordinari, come su teorie di rilettura e riscrittura dei massimi sistemi. Tutto era degno di cittadinanza in quei dibattiti improvvisati, torrenziali e spesso incoerenti, e tra questo “tutto” c’era anche il cinema. Allora si cercavano paesaggi cinematografici inesplorati, film cosiddetti “d’autore”, meglio se difficili e controtendenza, ancora meglio se incomprensibili. Ricordo ancora, tra il divertito e l’esterrefatto, una visione di “Salomè” di Carmelo Bene, dalla quale uscimmo veramente disorientati: il linguaggio incomprensibile degli interpreti, il simbolismo traboccante da ogni immagine, che, nella nostra ingenua concezione estetica, tentavamo di decifrare, ci avevano affascinato e confuso nello stesso tempo. Il dibattito in strada si protrasse quasi fino all’alba, poi il sonno ebbe la meglio. I cinema più periferici e irraggiungibili erano tra le nostre mete preferite, specie se nel giornale erano accompagnati dalla dicitura “cinema d’essai”: erano promesse di sguardi sul mondo di assoluta intensità. Le nebbie del tempo, che trasformano la realtà fino a renderla irriconoscibile ed a farle indossare la maschera del ricordo, non hanno scalfito né attutito quelle antiche passioni; il cinema, un certo cinema, resta ancora uno sguardo sul mondo, che non ha la pretesa di spiegare nulla, ma solo di mostrare ciò che ci circonda. Ancora oggi, soprattutto dopo la visione di certi film, capaci di suscitare emozioni e domande, quei dibattiti, sempre più rari, per la verità e sempre più tra pochi intimi, si riaccendono, anche solo per un istante, lasciando intravedere infiniti mondi possibili. Questo piacere sottile, ancora non scalfito dalle rudezze della vita, viene però sminuito e quasi vanificato quando, a conti fatti, si constata che le sale cinematografiche sono sempre più vuote e deserte, e neppure i film natalizi, un tempo vera e unica manna per i gestori, perdono di anno in anno la loro attrattiva. Il pubblico diserta sempre più le proiezioni e a nulla valgono le offerte seducenti, e, a volte, sconcertanti, che i numerosi cinema multisala, luoghi di intrattenimento vario, propongono allo spettatore. Il cinema, classicamente inteso come visione del film in una sala buia e, un tempo, affollata, agonizza e nessun tentativo per rianimarlo pare sortire effetti. Colpito al cuore da quella televisione che in un’altra epoca, dopo averlo ferito gravemente, lo aveva soccorso e sostenuto, guarda con angoscia e disperazione al suo futuro. Finirà, forse, tra i ricordi di quando eravamo poveri, come i carretti trainati dai cavalli, i contadini che portavano il latte nelle case ogni mattina, lo spazzino che ritirava i rifiuti a domicilio e le biciclette, così preziose da attirare nelle strade di allora le attenzioni dei ladri. Oggi il mondo si è enormemente dilatato, ma, più che il mondo, si è allargata la visione che ne abbiamo, portata direttamente nelle nostre case, senza essere costretti ad entrarci dentro, senza tutti i rischi e i pericoli che vivere in questo mondo può comportare. Nel secolo scorso, finita l’epoca dei grandi viaggi di esplorazione ed avventura, restava ancora la possibilità di vivere le emozioni e i pericoli, seppure per procura, e in nessun luogo come in una sala cinematografica questa possibilità era concessa fino in fondo. Gli unici rischi che si potevano correre erano quelli di una sala fredda, uno schermo opaco e consunto, un impianto di proiezione giunto al capolinea, un sistema di amplificazione inesistente. Ma il piacere di incontrarsi con altri autentici appassionati, con i quali condividere le nostre emozioni, faceva superare ogni difficoltà. Adesso, la televisione, dietro pagamento, perché anche le comodità hanno un prezzo, ci evita, maternamente, di uscire di casa ad affrontare le intemperie invernali o le calure estive, e ci porta il mondo, proprio tutto, quello reale e quello virtuale, direttamente nel nostro salotto. Noi, spettatori paganti, e quindi con il diritto di distrarci, lanciamo ogni tanto delle occhiate sempre più annoiate verso lo schermo gigante a cristalli liquidi, ultimo ritrovato della tecnica, con tanto di dolby surround che allieta le nostre orecchie, e, in mezzo a questo tripudio di tecnologia, avvertiamo un senso di malessere e di privazione. Chiusi nelle nostre comode e sorvegliate dimore, avvertiamo sempre più forte la mancanza degli altri, dai quali ci siamo volutamente e consapevolmente allontanati e che contribuiamo a tenere ancora più lontani con messaggi minacciosi e poco rassicuranti: “proprietà privata: vietato entrare”. Qualcuno, forse uno degli ultimi cinefili, condotto per caso da quelle parti dal suo incessante girovagare alla ricerca della vita, ha voluto correggere con un pennarello rosso la scritta. Adesso, se provate ad avventurarvi per strada, anche a rischio di incontrare qualche vostro simile, e passate di lì, potete leggere: “proprietà privata: vietato sognare”.

 
 
 
 

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