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E’ il viaggio, che mi
interessa mettere a fuoco, nel complesso fenomeno della migranza, in
quanto il viaggio rappresenta il discrimine, la soglia, temporale e
spaziale, fra e-migrazione e im-migrazione. Uno stato di sospensione, di
non-appartenenza, che ritengo possa essere di per sé traumatico, anche
se nel trasferimento tutto viene a “filar liscio”.
Il più ampio respiro sintattico della prosa , rispetto alla poesia, più
si presta al “racconto del viaggio”, secondo una durata e
un’articolazione in fasi, che può suggerire formule varie del rapporto
fabula-intreccio. Si prevede quindi di imbattersi in un’ampia rassegna
di opere narrative sul viaggio di e migrazione degli Italiani, entro la
letteratura dell’Ottocento e Novecento. Ma così non è.
Le ripetute emigrazioni dall’Italia dalla fine/inizi secolo fino agli
anni Sessanta , da quelle Oltre Oceano a quelle verso il Nord Europa (la
Svizzera, il Belgio soprattutto) e anche quelle interne dal Sud al Nord
, hanno spazio narrativo limitato nella nostra letteratura; se mai
costituiscono contesto, più di rado sono tema centrale. Si rintracciano
soprattutto singoli racconti o brani in romanzi di altro tema, oppure
romanzi della cosiddetta letteratura “minore”, spesso considerata “per
ragazzi”( vedi “Gli “americani”di Ràbbato, di Luigi Capuana, 1912) ,
quasi dimenticati.
Viene da chiedersi quale sia la ragione di questa marginalità, vista la
rilevanza del fenomeno migratorio. Fra le possibili si può pensare che,
mentre la letteratura ufficiale di fine Ottocento - inizio Novecento,
d’ispirazione risorgimentale-patriottica, aveva esaltato come
prospettiva dell’Unità il processo di riscatto della nazione e le
promesse di uno sviluppo futuro, non poteva di conseguenza ritenere
meritevole di rappresentazione, tanto meno di celebrazione, la
condizione di insuccesso, di difficoltà socioeconomica post-unitaria.
Per lo stesso motivo durante il regime fascista non dovevano certo
essere favorite né ben accolte le testimonianze della realtà
dell’emigrazione nelle pagine della fiction narrativa . Le due guerre
che segnano la prima metà del Novecento finirono poi per polarizzare
l’ispirazione degli scrittori contemporanei e degli anni a seguire.
Solamente da quando l’Italia, da paese di emigrazione si è trasformata
in paese di immigrazione, nel giro di poco più di un secolo, è iniziata
una sorta di riflessione a ritroso, si è avviato il cammino della
memoria nelle pagine di molti scrittori italiani, come per comprendere
ed accogliere più consapevolmente il fenomeno attuale, in analogia con
la nostra esperienza passata. Ma mi sembra di poter dire che i romanzi o
le raccolte di racconti di questo filone non hanno in genere raggiunto
la notorietà, hanno costituito e costituiscono un settore di nicchia.
Farei eccezione per due opere che un più largo pubblico ha mostrato di
apprezzare, fino al traguardo dei best seller: il documentatissimo
saggio di
Gian Antonio Stella “L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi”
(2003) e
il romanzo
“Vita”, di Melania Mazzucco,
vincitore del
Premio Strega 2003.
In uno dei romanzi più famosi del canone letterario ottocentesco,
I Malavoglia
(1881) di Giovanni Verga, è già presente, ma non centrale, il tema
dell’emigrazione, come vano tentativo di soluzione di una pesante e
precaria condizione socioeconomica. Due sole parole, per un rapido
recupero della memoria di un testo ben noto, anche se chiamato in causa
solitamente non in questa luce.
Il padre di Nunziata e della nidiata dei fratellini è partito da anni
per Alessandria d’Egitto, a cercar fortuna, ma non è più tornato. I due
giovanotti imbarcatisi qualche anno prima e di ritorno in paese spendono
e spandono all’osteria, mostrano fazzoletti di seta alle ragazze,
raccontano di aver visto mezzo mondo …, ma la sorte non è altrettanto
favorevole con ‘Ntoni di Padron ‘Ntoni che vuole seguire il loro
esempio. Il giovane Malavoglia, partito con il fagotto sulle spalle e le
scarpe in mano, contro il volere dei suoi , con il viatico funesto di
Nunziata Così se ne è andato mio padre, ritorna di lì a
poco senza scarpe… lacero e pezzente, in tempo per disincentivare
altri giovani che come lui stanno per avventurarsi a quella minchioneria
di lasciare il paese.
Il viaggio del giovane emigrante costituisce nella trama narrativa
un’ellissi non colmata; l’unico accenno lascia intendere che anche
questa ventura contribuisce a seminare nel suo animo la smania del
cambiamento, che è poi la causa del suo tradimento-traviamento: Così
‘Ntoni faceva il predicatore..almeno aveva imparato questo nel
viaggio, ed ora aveva aperto gli occhi, come i gattini dopo i quaranta
giorni che son nati. E per antifrasi il narratore aggiunge :
“La gallina che cammina torna a casa con la pancia piena”. Se non
altro egli se l’era riempita di giudizio, la pancia…. Un
giudizio tale, che spinge progressivamente ‘Ntoni alla rovina!
E’ inevitabile che assuma rilievo singolare per la centralità del tema
il romanzo
“Sull’oceano”di Edmondo De Amicis (1889),
che a me pare ancor oggi meritevole di lettura sia per una
documentazione dettagliata sul viaggio degli emigranti italiani nel 1884
da Genova all’Argentina (prima tappa Montevideo), sia per la commistione
fra l’impianto narratologico classico e il reportage giornalistico,
vicina ai gusti del lettore attuale, abituato alla estrema libertà di
composizione delle storie, sia infine per alcune caratteristiche
stilistiche della scrittura.
L’etereogeneità dei milleseicento passeggeri di terza classe, in
prevalenza contadini di tante regioni del Nord e del Sud, la
drammaticità delle condizioni di vita da cui sfuggono, la variegata
gamma dei rozzi comportamenti di quella plebe dolente sono tratteggiate
in un vivace mosaico di bozzetti, amalgamate in un gioco di rapidi
passaggi, di elencazioni, di accumuli caotici, e danno la risultante di
un microcosmo saturo, sballottato da riva a riva dell’oceano senza la
consapevolezza né dell’itinerario del viaggio né del destino che si
prospetta nella vagheggiata America.
Lo scrittore è “in mezzo” agli emigranti, senza distanza , questa volta
( faccio riferimento alla poesia di cui ho già parlato) sia nel senso
che è fisicamente presente sul piroscafo ( E. De Amicis nel 1884 accettò
l’invito del giornale “Nacional” a tenere conferenze a Buenos Aires, in
qualità di testimonial della cultura italiana all’estero) sia nel senso
che l’ampia panoramica descrittiva, coloristica, su quel campionario di
umanità è girata da un punto di vista interno, di testimone autoptico e
partecipe, e si intreccia di continuo all’espressione di riflessioni,
sensazioni e sentimenti personali. Si avvertono indubbiamente puntate
retoriche, esternazioni di tipo pietistico, come anche accenni
pregiudiziali ( quei poveretti, ad esempio, non sanno
godere del piacere estetico, non possono apprezzare la bellezza di un
tramonto di fuoco sull’oceano, “l’ignoranza non ammira il mare”...),
ma nell’insieme quando lo scrittore-giornalista “scende” dallo spazio
privilegiato della prima classe a quello maleodorante, sovraffollato
della terza, è animato sì da curiosità ma anche da sincera sim-patia per
la sorte dei derelitti e si indigna più volte per quell’artiglio
di miseria che afferra inesorabilmente tanta parte della
popolazione italiana.
Nello stesso tempo la fitta trama descrittivo-espressiva non resta
piatta a fare da contesto, ma è essa stessa racconto di viaggio, che si
snoda in ventidue giorni in un avvio – l’imbarco (il Galileo
…continuava a insaccar miseria…) - nella sequenza di
vicende-peripezie, scandite dai passaggi dei paralleli, dai cambiamenti
dell’oceano ( con lo spannung della violenta tempesta al
terz’ultimo giorno), da una serie di piccoli grandi eventi umani (
nascita, morte, risse, amori…), fino alla chiusa, lo sbarco dal
Galileo dello scrittore , che questa volta non si lascia
sfuggire l’occasione per un messaggio tipicamente deamicisiano, commisto
di retorica-pedagogia-empito moralistico-buonismo di sentimenti: un
appello… all’unico sentimento sapiente e utile, che è quello di
una grande pietà per tutti…e all’Italia, madre dolorosamente
costretta ad abbandonare i suoi figli. Così l’excipit:
«
Esso non era più che un tratto nero sull’orizzonte del fiume
smisurato, ma si vedeva ancora la bandiera, che sventolava sotto il
primo raggio del sole d’America, come un ultimo saluto dell’Italia che
raccomandasse alla nuova madre i suoi figlioli raminghi.»
Con un salto di circa cinquantanni, nel pieno del regime fascista, si
ritrova nella classe contadina italiana la medesima disperata tensione
verso le terre d’oltreoceano, verso l’America del Nord, in specifico
verso New York, per compensare “il tradimento” subito da parte di
Roma, la capitale dei signori, il centro di uno Stato straniero e
malefico.
Carlo Levi,
al confino per antifascismo nella lucana Gagliano nel 1935-36, pubblica
nel 1945 “Cristo
si è fermato ad Eboli”,
un’opera memorialistica, fra narrativa e saggistica, che dedica nel
paragrafo d’inizio .. a quella mia terra senza conforto e
dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la
sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte.
E nel cap. XIII lo scrittore con amarezza constata che l’America per i
contadini della Lucania ha una doppia natura, terra di
fatica , dove solo a prezzo di stenti e privazioni si accumula un po’ di
denaro, e insieme paradiso, Gerusalemme celeste!, ma
soprattutto che quelli che ritornano, dopo vent’anni, sono
identici a quando erano partiti. Drammatico in ogni caso il
viaggio di emigrazione, sia con la soluzione del definitivo abbandono
della propria terra, per garantire ai figli una nuova identità
americana, sia con la non soluzione del ritorno, che sancisce
definitivamente l’immobilità di una esistenza di pena.
L’emigrazione in Svizzera nel secondo dopoguerra è il soggetto del
romanzo di
Saverio Strati,
dall’esplicito titolo “Noi
lazzaroni”(
1972). La
decisione di un muratore calabrese, che vive da ormai vent’anni a
Zurigo, di scendere al Sud (con biglietto di andata e
ritorno!) per una vacanza crea nell’impianto narrativo un intreccio
fitto di tempo presente e passato, di benessere e di miseria, di affetto
e di distacco nei confronti del paese d’origine. Il ritorno dà il via ai
ricordi, richiama il primo viaggio del giovane emigrante, in treno, in
compagnia di una cinquantina di terroni, e la brutale
esperienza della vista medica a Chiasso, finalizzata alla selezione:
palpati e divisi come si fa allo stazzo con le pecore e le capre,
perché malati, rachitici, impotenti non potevano essere
bestie da lavoro… Il giovane, prelevato alla stazione,
attraversa il paese senza che nessuno gli mostri un briciolo di pietà,
si ritrova in una fredda e maleodorante baracca dove altri disperati
come lui si contendono spazio e cibo. Immediati l’odio per la nuova
realtà e il pensiero di fare dietrofront, nonostante alla
radice della sua partenza ci sia il progetto di scappare dal chiuso
mondo di Montalto, come tanti altri hanno già fatto, verso l’Australia,
la Germania, l’Olanda, l’America, là dove Se uno aveva sale in
capo e spirito d’iniziativa era libero di farsi avanti e poteva
diventare ricco quanto Roccheffellere!... Un progetto a lungo
rimuginato assieme ai coetanei, contro la volontà del padre ( Noi
giovani parlavamo ogni giorno di quanto sarebbe importante girare il
mondo, anziché stare fermi come alberi).
Il romanzo sembra prospettare di fatto la possibilità di una soluzione
in positivo del fenomeno dell’emigrazione, con il riscatto dalla miseria
originaria e la conquista di un certo benessere, ma nello stesso tempo
lascia nell’insieme il peso del processo di adattamento, la chiara
percezione delle difficoltà di integrazione, la drammaticità dello
straniamento dalle proprie origini. E’ ciò che si assimila dalla
lettura, grazie alla progressiva costruzione di una sorta di coscienza
politica del protagonista e alla natura frammentata della narrazione, su
cui incide il continuo intersecarsi dei due piani contraddittori,
temporale e spaziale, lo stile nervoso e asciutto, il linguaggio crudo.
Il lungo
viaggio,
di Leonardo
Sciascia (
pubblicato nel
1973
nella raccolta “Il mare color del vino", testi scritti fra
il 1959 e il 1972) è un racconto che con lucida drammaticità riconduce
uno degli ultimi viaggi degli emigranti italiani alla attualità di uno
dei tanti viaggi di immigrazione verso le nostre coste meridionali,
amareggiando il lettore per il profondo scorno che umilia i
protagonisti.
Ieri come oggi, il viaggio che allontana dalla propria terra nasce come
progetto, dalla disperazione e dalla speranza insieme, che danno la
forza di sostenere l’esosità del pedaggio, il rischio di una traversata
pericolosa, il distacco dagli affetti. Ma tale progetto spesso fallisce
l’obiettivo, non tanto per impedimenti oggettivi, prevedibili e
previsti, quanto per l’interferenza della ineliminabile malvagità di
uomini contro uomini, che può prender forma di sfruttamento, di truffa
distruttiva. L’amara, disincantata riflessione, connaturata all’universo
di pensiero di Sciascia, scaturisce dalla conclusione della storia ( il
bieco impresario che finge di trasportare nella sua barca in America un
gruppetto di poveri siciliani, dopo un viaggio di undici notti e dopo
aver incassato un esoso pedaggio, li sbarca sulle coste della loro
stessa isola!) , ma è già nascosta nelle prime righe, nell’espressione “
E faceva spavento, respiro di quella belva che è il mondo, il
suono del mare..”
Ancora – siamo verso gli anni Sessanta - valige di cartone e
fagotti, ancora il mito dell’America – Nuovaiorche, Brucchilin,
Trenton…- dove il denaro è tirato fuori a manciate. La
sottile, perfida finzione dell’impresario gioca con l’ingenuità dei
siciliani, buttati ingannevolmente sulle coste illuminate
dell’America, resi ciechi e sordi ai segnali del disinganno dalla
disperata volontà di credere, fino all’ultimo, fin quando si
buttarono come schiantati sull’orlo della cunetta…
Le cronache dei nostri giorni ci parlano di speculazioni, truffe,
brutalità di impresari, scafisti, mafie, ai danni degli immigrati
clandestini.
Concludo le tre tappe del mio "itinerario
errabondo"
con l’approdo all’oggi. Le ultime opere di rilievo sull’emigrazione
italiana , come ho già accennato, sono il saggio di G.A. Stella e il
romanzo di M. Mazzucco . Per restare nel mare della letteratura, a cui
mi affido di preferenza, ho incominciato la lettura del romanzo che la
giuria dello Strega ha premiato. Sono alle prime pagine, ma già lo stile
vigoroso mi ha preso, e di nuovo mi sono ritrovata a sbarcare dal
piroscafo, questa volta con i piccoli Diamante e Vita, di fronte a New
York, nell’isoletta “di accoglienza” degli immigrati, quell’Ellis Island
che secondo Georges Perec ospitò nei suoi sessant’anni di attività ben
cinque milioni di Siciliani e Italiani.
Ma dagli anni Novanta, nuove rotte in vista:
la Letteratura
sull’immigrazione e la Letteratura dell’immigrazione.
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