|
Il Festival Alpe
Adria Cinema, grande rassegna di cinema dell’Eupora dell’Est, che si
svolge ogni anno a Trieste, è ormai arrivato, quest’anno, alla sua XVI
edizione. É uno di quegli eventi che seguiamo con attenzione da tempo,
rammaricati, fra l’altro, che la stampa nazionale non gli dedichi il
giusto rilievo, più volta a inseguire ciò che fa notizia, rispetto a ciò
che fa cultura. Insomma, la cultura che si promuove a Trieste, ormai con
collaudata competenza, dovrebbe fare più notizia: si tratta infatti
della vetrina più ampia sulle culture dell’Europa orientale, che
purtroppo, nonostante la caduta dei regimi comunisti e l’ingresso di
alcuni di questi paesi nell’UE, continua ad essere ben poco visibile. Un
festival analogo viene allestito soltanto in Germania, che ha
tradizionalmente mantenuto maggiori legami, culturali ed economici, con
questa area geografica che noi invece trascuriamo. Dal 20 al 27 gennaio
proiezioni praticamente non-stop di cortometraggi, video, film prodotti
negli ultimi anni, ma anche materiali d’archivio e retrospettive.
Raccontare il festival è impossibile nello spazio di un articolo, ma
alcune considerazioni tengo a farle. Innanzi tutto, avendo assistito
alle diverse edizioni, si nota un certo cambiamento nei temi più
trattati. L’anno scorso c’era stata una grande presenza di film centrati
sull’emigrazione, in particolare quella clandestina: da Polonia,
Ucraina, Bielorussia…una sorta di grande esodo, cui facevano da
contraltare film e documentari su realtà arcaiche ed isolate, popolate
quasi esclusivamente da vecchi e bambini.
Fra l’altro cogliamo l’occasione per segnalare che il film vincitore
dell’anno scorso,
Uzak (Distante), del
regista turco Nuri Ceylan,
passato alla chetichella per qualche sala d’essai, verrà proiettato a
Lugo il 16
marzo nella
bella rassegna organizzata al San Rocco dall’Associazione
Eco.
Negli anni passati la presenza di film russi era abbastanza limitata, se
si considera la grande tradizione cinematografica di cui dispone il
paese.
La cinematografia russa è invece esplosa quest’anno, con una
interessante
retrospettiva del regista Viktor Kosakovskij,
formatosi negli studi della Lenfilm, la casa cinematografica di San
Pietroburgo, che a soli 43 anni è già considerato un maestro. Un artista
originale, rispetto ai canoni cui siamo abituati, che racconta storie
attraverso immagini, scardinando il tempo cronologico in una sorta di
fissità atemporale, come nel cortometraggio ‘L’altro giorno’: una strada
qualsiasi di San Pietroburgo, un morto per strada che non si riesce a
far rimuovere, i ragazzini che giocano e si mettono in posa davanti
all’obiettivo, un uomo in una cabina che tenta di chiamare la polizia.
Tutto resta immobile. Il tempo al di fuori della storia, un tempo
ciclico, che riproduce eternamente il già stato: ‘La storia la fa lo
spettatore, con le emozioni che il cinema-immagine suscita in lui’,
osserva il regista. Un cinema di emozioni, infatti, che registra la vita
nei suoi immutabili cicli. In ‘Mercoledì 19-7-‘61’, la sua data di
nascita, Kosakovskij segue la quotidianità di alcuni giovani nati a San
Pietroburgo nel suo stesso giorno. La vita nella sua essenzialità, i
piccoli interni sovraffollati, i secchiai smaltati, l’idraulico che
aggiusta lo sciacquone e si fa pagare con una bottiglia di vodka, il
parto, con cui inizia e termina il film, ancora a sottolineare
l’immutabilità della condizione umana. Il distacco, la visione dall’alto
di una città uguale nei secoli, l’inquadratura finale.
Una cinematografia russa che inizia a interrogarsi sul suo passato, e lo
fa con leggerezza, rifuggendo dalla retorica che l’arte di regime
acclamava. Come
il film vincitore del
Festival ‘Il tempo del raccolto’ di Marina Razbezkina,
che narra con sottile ironia la vicenda di una donna che nel dopoguerra
deve lavorare duramente nel kolchoz, per sfamare i figli e il marito
invalido, tanto da essere premiata con la Bandiera Rossa di velluto. Il
problema sarà mantenerla integra in una casa infestata dai topi. Per non
correre rischi non resta che continuare a vincere bandiere, ogni anno.
Il narratore della storia è il figlio, che poi cadrà nella guerra in
Afganistan.
La personale
di quest’anno è stata dedicata al
regista slovacco
Juraj Jakubisko,
eclettico e raffinato esponente della cultura praghese. Nato nel 1938 e
diplomatosi alla FAMU di Praga, prestigiosa scuola di cinema e fucina di
talenti, Jakubisko, considerato dalla critica un grande maestro del
‘900, apprezzato ai festival internazionali, famosissimo in patria, è
conosciuto in Italia solo da pochi appassionati. Fantasioso e originale
nelle tecniche espressive, per definirne lo stile Fellini, che fu suo
grande amico, parlò di ‘realismo magico’. Durante gli anni più cupi
della repressione in Cecoslovacchia, per poter lavorare, si dedicò alla
realizzazione di alcune favole fra cui una, “La signora della neve”,
interpretata da Giulietta Masina. A Trieste, in occasione del festival,
è stata presentata anche una sua mostra di qradri, disegni, xerografie.
Immagini dal tono metafisico e onirico, realizzate secondo la tecnica
carovaggesca dell’immagine che emerge dal fondo cupo.
Tantissime le presenze a Alpe Adria Festival: da
Emir Kusturica
a Mario
Monicelli,
solo per citarne alcuni, in una città che, soprattutto in inverno,
mantiene intatto il suo fascino un po’ antiquato. Incredibile invece che
questo evento culturale, pur frequentato e amato dai residenti, non
attiri in egual misura pubblico da fuori. Nell’aria si avverte una certa
crisi del cinema, di cui anche queste manifestazioni risentono: pochi i
film che riescono a ottenere visibilità. Cosa che purtroppo dipende non
tanto dalle qualità artistiche, quanto invece dal potere che la casa di
produzione ha di imporsi sul mercato. Pochi colossi reggono un’industria
dove i piccoli faticano a sopravvivere.
Proprio per questo iniziative coraggiose come quella triestina
andrebbero promosse e fatte conoscere a un pubblico più vasto.
golferasi@yahoo.it
|
|