|
Quando la diversità è sentita da tutti come legittima e complementare,
va tutto bene. I problemi nascono quando essa è vissuta come minaccia o
contrapposizione o emarginazione. Francesco d’Assisi vive in un tempo e
in una società in cui le diversità sociali e religiose sono tante e
problematiche. Come dice Francesco la diversità?
Condividendo gioiosamente la vita degli ultimi
Ad Assisi nel Duecento ci sono i maiores e i minores. I primi sono tali
per nobiltà di natali o per imprese militari o per la scalata
economico-sociale che stanno facendo. I secondi sono tutti gli altri,
con ulteriore grande diversità: si va dalla gente che ha salute,
famiglia e lavoro alla moltitudine dei poveri che vive alla giornata
spesso andando all’elemosina, fino ai lebbrosi confinati nei loro ghetti
ad aspettare la morte. Al termine della vita, nel Testamento, Francesco
scrive che la sua vita evangelica è iniziata proprio quando “essendo io
nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il
Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia” (FF
110). Francesco giudica peccaminoso il tempo in cui non vedeva o faceva
finta di non vedere la diversità dei lebbrosi, la barriera dietro cui
erano confinati. E salta questa barriera per andare “ad usare con essi
misericordia”. Resterà fondamentale e programmatica questa scelta e la
riproporrà a tutti i suoi seguaci: “Devono essere lieti quando vivono
tra persone di poco conto e disprezzate, tra poveri e deboli, tra
infermi e lebbrosi e tra i mendicanti lungo la strada” (FF 30). In ogni
epoca ci sono maiores e minores: Francesco dice la diversità
condividendo gioiosamente la vita con gli ultimi e chiamando se stesso e
i suoi frati “fratelli minori”. Se diversità ci deve essere, lui sta con
i minori, mai desiderando di essere sopra gli altri, e mai giudicando
l’altro, chiunque sia e comunque si comporti.
Dialogando
rispettosamente con i lontani
Diversità ancor più problematiche erano quelle tra cristiani e
musulmani, diversità affrontate sui campi di battaglia. A Damiata nel
1219 si fronteggiavano i due eserciti nella quinta crociata. Arrivò
anche Francesco e, invece di indossare le armi, andò a parlare con il
sultano d’Egitto Al-Malik al-Kamil, il quale non si convertì, ma “ne
rimase profondamente stupito e lo guardava come un uomo diverso da tutti
gli altri” (FF 422). Era un modo “diverso” di affrontare la “diversità”
religiosa. Nella Regola scriverà per i missionari che il primo modo di
evangelizzare è “che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad
ogni creatura umana per amore di Dio” (FF 43).
Parlando la
lingua degli altri
Poi ci sono le diversità che nascono dai diversi punti di vista. In
quella pagina straordinaria dei Fioretti che racconta del lupo di Gubbio
(FF 1852), colpisce la capacità di Francesco di parlare la lingua
dell’altro, non solo nel senso che riesce a parlare con il lupo, ma
soprattutto perché agli abitanti di Gubbio egli parla la lingua del lupo
e della sua fame, e al lupo parla la lingua degli abitanti di Gubbio e
della loro paura. È questa capacità di parlare la lingua dell’altro il
“santissimo miracolo” che renderà possibile il dialogo e il patto di
amicizia tra quella gente e il lupo.
Parlare la lingua dell’altro è ciò che permette a Francesco di
convertire i ladroni di Monte Casale. Aveva certo la sua lingua, fatta
di buone ragioni, frate Agnolo, guardiano di quel convento, che aveva
cacciato via i tre riprendendoli aspramente: “Voi, ladroni e crudeli
omicidi, non vi vergognate di rubare le fatiche altrui...”. E Francesco,
saputo l’accaduto, fortemente riprese quel guardiano, parlandogli la
lingua dei ladri, della loro fame e della loro emarginazione, e
mandandolo quindi a cercarli per scusarsi, portare loro pane e vino, e
invitarli al convento. Ed essi vennero, ascoltarono la lingua
dell’accoglienza fraterna di Francesco e l’impararono tanto bene che si
fecero frati (FF 1858).
È questa capacità straordinaria di rivolgersi all’altro nella sua lingua
che permetterà a Francesco di parlare non solo alle rondini (FF 1846) e
alle tortore (FF 1853), ma anche al vescovo e al podestà di Assisi che
non si intendevano più (FF 1800) e ai vari partiti bolognesi in lotta
tra loro quel 15 agosto 1222 in piazza Maggiore (FF 2252).
A Francesco piaceva incontrare tutti anche se diversi, anche scavalcando
mura: per incontrare i lebbrosi, Francesco andò al di là delle mura di
Assisi, giù nella pianura; per incontrare il lupo e i banditi andò più
lontano, nella foresta; per incontrare i musulmani andò al di là del
mare e della cristianità. Usando sempre e con tutti quella “cortesia”
che è un attributo di Dio e quell’atteggiamento da fratello minore che
lo rende caro anche al di là dei confini cristiani.
Nel 1986, il Papa, circondato da tanti altri capi religiosi, così disse:
“Ho scelto Assisi come luogo della nostra giornata di preghiera per la
pace per il significato particolare dell’uomo santo venerato qui, san
Francesco, conosciuto e rispettato da tante persone nel mondo intero
come un simbolo di pace, di riconciliazione e di fraternità”.
Il tema – secondo della serie
“Così dice Francesco” – viene approfondito
mercoledì 19 gennaio alle ore
17.30 a Ravenna, al
Punto d’incontro “Ai Cappuccini”, in via Felicia Rasponi 1. |
|