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Iscatolati nei mezzi
di trasporto o correndo da un marciapiede all'altro per evitare di
essere investiti, o anche affrettando inutilmente il passo per non
arrivare in ritardo a qualche appuntamento, noi viviamo spesso la
"nostra" città senza vederla Sì, ci accorgiamo se un palazzo viene
abbattuto o un altro in via di costruzione, memorizziamo i nomi delle
strade (qualche strada) e ci accorgiamo se il nostro droghiere ha
tentato un addobbo natalizio, ma la nostra attenzione ai cambiamenti
meno vistosi è fiacca - e nulla addirittura per ciò che avviene oltre i
confini del nostro territorio: il condominio, un pezzo di quartiere,
l'itinerario di ogni mattina. Dubito che siano in molti ad accorgersi
che vanno crescendo di numero, fra noi, "le botteghe della saudade".
"Saudade" è parole brasiliana quasi impossibile da tradurre. Si potrebbe
dire "nostalgia, ma la saudade è qualcosa di più: è un tormentoso
vivere, minuto dopo minuto, accanto a persone che in realtà sono
lontanissime, è un doloroso continuo ri-calcolare quella distanza, in
una specie di sussulto dell'anima. È una voglia smaniosa di tornare
donde si è partiti. È infelicità allo stato puro. E poiché da ogni
sentimento umano è possibile spremere soldi, ecco nascere, e
moltiplicarsi, in ogni città, negozi in cui gigantesche aziende
transnazionali vendono agli emigranti la possibilità di telefonare "a
casa" a tariffe ridotte.
Questi negozi sono quasi invisibili perché spesso non hanno insegne, non
hanno vetrine (che cosa potrebbero esporre?), dalle porte si scorge un
ambiente squallido come quello delle sale-corse ; ma invece di tetri
giocatori d'azzardo in attesa di una fortuna che non arriva mai, qui,
nelle botteghe della saudade, i clienti sono soprattutto donne; e, se ti
fermi ad ascoltare, ti accorgi che molte sono madri che stanno
telefonando ai loro lontanissimi bambini. Lo capisci dal fatto che
improvvisamente le voci si fanno pigolii, balbettamenti e persino
implorazioni. Naturalmente noi non intendiamo nemmeno una parola di
tamil, di tagalog, di guaranì, di amarico, di quiché, il wolof:
linguaggi che ci sembrano senza senso; eppure, se ascoltiamo con
attenzione, comprendiamo che in una regione remotissima c'è un bambino
tenuto in braccio a un padre o a una nonna e qui, accanto a noi, una
donna che chiede. "Sono la mamma, la tua mamma. Ti ricordi ancora di me?
Fammi sentire la tua voce, dimmi che mi mandi un bacio. Quando tornerò,
ti porterò un bellissimo regalo. Sii buono, tesoro mio".
L'emigrazione di madri verso paesi in cui molte donne non hanno più il
tempo o, qualche volta, la voglia di esserlo, non è fenomeno nuovo.
Intere regioni italiane come la Brianza o la Ciociaria hanno "esportato"
per generazioni, a Milano o a Roma, "donne da latte", che lasciavano i
loro bambini appena nati per nutrire di sé i bambini delle famiglie
agiate. Questa transumanza era una vera e propria tradizione di alcuni
paesi poverissimi. per non so bene quale "gemellaggio", ad esempio, sino
agli anni '30 del secolo scorso centinaia di balie movevano dal Feltrino
per la città di Marsiglia, senza sapere una parola di francese - né, se
è per questo, di italiano.
Qualche volta la creaturina che avevano partorito e dovuto abbandonare
appena nata, moriva. Allora, schiacciata dal suo destino, la balia si
aggrappava al bambino "dei Signori", titolare inconsapevole e innocente
di uno dei tanti modi di sfruttamento dei poveri: un figlio non suo, che
di lì a qualche mese, le sarebbe stato sottratto, ripreso dalla sua
famiglia "di sangue".
Il trionfo del latte artificiale ha stroncato il fenomeno delle balie,
ma il vertiginoso aumento del lavoro extracasalingo delle donne della
borghesia europea ha incrementato la richiesta di cosiddette colf, in
realtà, per lo più, bambinaie; e mentre l'"offerta" italiana di
domestiche crollava per il carattere servile del lavoro, la
globalizzazione apriva un nuovo immenso mercato, quello dei popoli
poveri. Centinaia di migliaia, milioni, di madri partono oggi dal
cosiddetto Terzo Mondo affidando i loro piccini. al marito o alle nonne.
Tornano, quando va bene, dopo un anno, per una breve vacanza; e
ripartono per radunare un piccolo gruzzolo che consenta un futuro
migliore. Spesso tutta una famiglia dipende da questo sacrificio; e le
rimesse degli emigranti salvano molti paesi poveri da un definitivo
naufragio economico.
2
Avevo cominciato questa lettera nell'imminenza della Festa della
famiglia che la Chiesa cattolica celebra dopo il Natale per sottolineare
l'importanza di questa cellula della società nella formazione
dell'individuo. Volevo attirare l'interesse dei miei fratelli nella fede
su questi presepi dai quali Maria è assente, obbligata ad accudire altri
bambini perché il suo possa campare. Questo dramma mi sembrava (e mi
sembra) indicativo della crudeltà del sistema in cui viviamo.
La catastrofe nel Sudest asiatico mi ha tolto ogni parola e mi ha
costretto all'ascolto. Ha scritto ai suoi amici europei Krishnammal
Jaganatham, leader del movimento nonviolento indiano: "In mezzo alla mia
gente, in questi giorni, la frase che ascolto in continuazione è "Aiya
en pillayai Pathingala?".Significa:. "Hai visto i miei bambini?". Decine
di migliaia di bambini sono spariti nelle acque, nel fango, nel caos del
terrore. Decine, centinaia di orfani - sembra certo - sono stati rapiti
dai trafficanti della pedofilia. Anche il vento - dice la signora
Jaganatham, - anche il vento che scompiglia le macerie e smuove i cenci
dei morti, creando l'illusione di un po' di vita, anche il vento sembra
ripetere senza stancarsi: "Aiya en pillayai Pathingala?".
E io penso: in quante diverse traduzioni quel grido continua a risuonare
nelle "botteghe della saudade"? Ma all'altro capo della linea telefonica
nessuno risponde.
3
Lontano dall'orrore, qualcuno si meraviglia della bontà che ci nasce
dentro. I telegiornali ce lo ripetomo in continuazione: all'immenso SOS
che giunge da un continente ferito, la maggioranza dei nostri telefonini
(del costo di centinaia di euro) ha risposto con un SMS che donava una
moneta: non è meraviglioso? Ma l'ironia è un lusso che non possiamo
permetterci, Diciamo che non basta. Un giornalista che arrivasse da un
altro universo e cercasse di descrivere la Terra di oggi sarebbe, molto
probabilmente, incline a parlare di una follìa planetaria. Elencherebbe:
1) gli eserciti imperiali si vantano di avere visori talmente
sofisticati da leggere, a mille chilometri di distanza, la targa di un
autocarro mentre i due terzi dell'umanità non ha strumenti ( o non ha
tecnici) per avvistare un'onda di 12 metri d'altezza che corre per gli
oceani; 2) terremoto e maremoto hanno travolto centinaia di migliaia di
persone del tutto diseguali fra loro: alcune decine di migliaia
vivevano, sia pure per un breve periodo, nel lusso dei grandi alberghi e
milioni, al di là dei recinti degli hotels, sopravvivevano a stento: due
razze? 3) se questa volta la furia della natura è stata apocalittica, a
causa di quella forza ciclopica che è la "deriva dei continenti", il
sudest asiatico è "normal-mente" aggredito da tifoni e inondazioni, e
questi rovinosi fenomeni sono causati o ingigantiti dagli sfruttamenti
selvaggi del suolo e dalla produzione di agenti chimici che devastano il
clima ma proprio pochi giorni prima della catastrofe gli Stati Uniti e i
loro portacoda, come l'Italia, hanno fatto fallire, a Buenos Aires, una
apposita conferenza internazionale; 4). Eccetera, eccetera. Direbbe
insomma, quel mio collega sceso dal cosmo, che l'umanità è gravemente
malata di schizofrenia; e aggiungerebbe ciò che ben pochi giornalisti
italiani e ancor meno governanti vanno dicendo: e cioè che questa
schizofrenia assumerebbe contorni moralmente intollerabili e suicidi dal
punto di vista ecologico se ci si sforzasse soltanto di riprodurre la
situazione precedente al maremoto; sarebbe una sorta di gigantesca
elemosina che lascerebbe poveri i poveri e ricchi i ricchi,
dichiarerebbe inamovibili i parametri dell'ingiustizia, ucciderebbe ogni
speranza.
Ma forse, invece, qualcosa di meraviglioso è fiorito accanto all'orrore.
È toccante vedere come la tragedia abbia imprevedibilmente abbattuto il
muro di separazione fra la miseria delle capanne e delle baracche e le
lussuose "clausure" dei villaggi turistici, in cui la popolazione locale
entrava soltanto per i servizî più pesanti e assisteva allo spreco
insensato di viveri e alla follìa di docce godute a tutte le ore del
giorno nella beata inconsapevolezza, che questo significava sottrarre
acqua agli abitanti della zona. È commovente constatare come quell'incontro
fra le macerie e la paura, fra persone per una volta egualmente povere,
abbia fatto emergere tesori di solidarietà. Unanime è la testimonianza
dei turisti accolti dagli indigeni dei villaggi collinari. "Hanno diviso
con noi tutto il poco che avevano. E anche per questo è giusto
aiutarli".
Ringrazio i visitatori del mio
sito:
www.ettoremasina.it Nei circa quaranta
giorni della sua esistenza, ha ricevuto (si dice così?) 3 mila contatti.
Con l'aiuto di Luca Lo Cascio lo abbiamo aggiornato settimanalmente;
l'ultima volta ieri, 29 dicembre.
L'editrice San Paolo ha
deciso di abbandonare la narrativa e di conseguenza di mandare al
macero, fra altre opere, il mio libro che io amo di più. "I gabbiani di
Fringen": cinque racconti lunghi o romanzi brevi, che si inanellano fra
loro, dando vita (hanno scritto i critici ) a un mondo magico, ricco di
emozioni. Ho riscattato alcune copie e le metto a disposizione di chi ne
vuole un esemplare. Se poi qualcuno crederà di inviarmi un rimborso
delle spese di spedizione (le calcolo in 5 Euro), lo accetterò
volentieri: ma quel che mi preme è che il libro venga letto: e dunque
raccomando soprattutto ai giovani di non farsene un problema.
Buon Anno da Ettore
Masina |
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