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Cari amici, oggi
parlerò de “Il
laboratorio”
, un elegante volumetto di
Gianluca
D’Andrea
stampato dall’editore Lietocolle durante questo 2004 che sta per finire.
La fatica del giovane poeta messinese è una raccolta di poesie molto
particolari, di lettura difficile ma nel contempo affascinante. Va
subito detto che il libro non chiede suadenze e non blandisce il
lettore; diciamo piuttosto che solletica e impegna chi vi si avvicina.
Dice bene Giovanna Frene, che ha steso una breve prefazione di questo
“Laboratorio”: l’impegno di D’Andrea si avvicina a un certo tipo di
prosa contemporanea e sperimentale, il cui dettato è continuamente
rintuzzato in un angolo difficile della comunicazione. Si parla di
laboratorio, di quell’officina della scrittura in cui l’uomo “si
mette le vesti del poeta, che a sua volta ne veste molte: quella del
profeta, del prigioniero, del bambino, del padre, dell’amante e
dell’uomo di mezza età”. La Frene ci dice che il poeta stesso si
sovrappone, e coincide con la figura dell’uomo, così come la poesia si
sovrappone alla vita.. Di questa vita, Gianluca traccia le coordinate
attraverso un codice di aristocratica difficoltà; egli si manifesta
nell’esatto momento in cui si mimetizza dietro una veste apparentemente
inconciliabile con la piana dichiarazione del proprio dire. Il
linguaggio è astratto e concusso con l’ambiguità della sentenza; i versi
appaiono intrisi di termini scientifici, rari o desueti, quasi a
stimolare chi si sia impegnato a interpretarli.
“Il
laboratorio”
si divide in tante parti quanti sono i personaggi prima citati.
Si comincia dal “Vecchio profeta”, la sezione forse più
impegnativa, in quanto, per prima, mette davanti agli occhi del lettore
le difficoltà espressive. In questa parte del libro vi sono passi che
inducono al sentimento del ghiaccio formale: si legga, a tal uopo, il
frammento che segue.
“le galassie non furono arginate
non furono oscurati i passi
il corpo multiforme s’adattava
piuma di fenice
alle onde del cosmo
e le madri cullavano gli embrioni”.
Un clima così siderale suona come un adagio criptico, sulla cui
provenienza nulla si sa.
Che cosa vede questo profeta?
Che cosa prospetta all’uomo?
Egli potrebbe scorgere livelli diversi da quelli del comune sentire,
dove forse le metafore usate ( il modo in cui le foglie si dispongono
sullo stelo o la tenacia con cui i corpi incassano gli urti) altro non
sono che le immagini dell’uomo malato e iper-sconvolto.
Tali frammneti, specie quelli che seguono fino a pagina 27, hanno
notevoli potenzialità mimetiche, irreali, iporeali o anche iperreali, e
proiettano l’”oggetto poesia” lungo un quadrivio astrale di notevole
inquietudine. Siamo nella zona dei seguenti versi: “mille vite ci
separano / micrometriche distanze ha spalancato / l’esperienza. Il
contatto rabbrividisce / ...”.
L’uomo-che-scrive giunge così a colossali aperture
semantiche, di grande ambiguità; tanto ambigue, che non si riesce a
capire quale possa essere il risultato finale.
Nella seconda sezione di questo Laboratorio il poeta si lancia nella
problematica del “prigioniero”, che, chiuso in una stanzetta
suburbana, si dà all’attività di solitario amanuense, tutto preso com’è
da una “scrittura bidimensionale, ma luminosa, fatta di minuscole
sillabe” .
Cosa annota questo personaggio?
Gianluca afferma quello che si è or ora detto, con ulteriori ed efficaci
parole (pagina 31):
“Come un amanuense in solitudini
qualunque ad accarezzare gli studi.
Manoscrivere e miniare lo spirito,
ricopiare attraverso una scrittura
bidimensionale ma luminosa
ed aggiungere al contatto diretto
la comparsa di minuscole sillabe
dentro questa stanzetta suburbana”
e vuole forse significare la trasmissione delle radici umane verso le
braccia del futuro. Chissà. Oppure desidera far comprendere agli altri
la violenza dell’auscultazione analitica del sé più intimo.
Il prigioniero parrebbe, all’interno del suo piccolo e quieto inferno,
aver ricevuto il compito di produrre e ri-produrre “segni” atti a
redigere annali inconsapevoli. Qui il poeta imbocca un cammino più ampio
e piano, a differenza del prima. I versi, quasi tutti endecasillabi,
contribuiscono al dipanamento del respiro e alla riflessione.
Come a pagina 33,
“Dal punto si dirama oscillazione
nell’inchiostro che comincia a sgorgare
dal procedere assiduo d’ogni sillaba.
Sigarette e accendino sulla tavola,
attendo di mutare angolazione ...
ora uno stimolo segue uno stimolo.
Scostata la tendina sulla porta,
ho attraversato in un istante lo
scintillio delle perline, il bagliore
della strada che si fa carne e s’espande” ,
dove l’atto dello studio è riportato con preziosismo certosino.
L’abbondanza di particolari, come ad esempio il fluire dell’inchiostro
dalla stilo che segna le parole, è quasi intesa come l’ossessione del
ritrovarsi all’interno di un movimento visto alla “moviola”.
Questo prigioniero, a detta dell’autore, è comunque libero di intendere
la “prigionia” come anelito di movimento. Ne potrebbe far fede il testo
di pagina 35:
“Gradino dopo gradino, scendendo
i passi appesantiti dai borsoni
e zaini del ritorno, rotolavo
le chiavi, poi spalancavo le imposte.
La luce entra nella casa, forma
nuvole di riflessi nel salone
e l’aria, poco fa pregna di muffa
e chiusa, saturata dal pulviscolo,
dissolve rapida dalle aperture
sostituita da quella di fuori”.
Mi pare un po’ più formale la parte che s’intitola “Il bambino
geometrico e le citazioni”, all’interno della quale il poeta si
spinge in arditezze forse troppo gelose di sé. Oltretutto, lo sposalizio
tra la citazione e il testo ad essa relativo, è, il più delle volte, del
tutto misterioso (almeno al mio intendere). Qui continua però il fascino
degli addensamenti dei termini di natura “specialistica”, che danno
all’insieme un tono di superamento igneo del verso. Sono numerosi i
suffissi in –ione: si vede incrementare il gusto per la dinamica
strutturale, destinata a un pubblico di “nicchia”. Rimane comunque la
grazia del pensiero di cui, a volte, la Poesia si avvale,
anche per discostarsi (con esiti opposti) da una più frequente
versificazione che tratti argomenti della realtà con occhi troppo
indulgenti al “fotoromanzo”. Come sempre, sarebbe auspicabile mediare
fra questi due poli e fornire a chi legge un codice “medio” di
comunicazione. E allora, riprendendo il testo della pagina 47 (e fattolo
proprio, a livello metabolico), ne risulta evidente un efficace effetto
onomatopeico “fra il suono delle parole e il contenuto del pezzo
stesso”.
Qui mi fermo.
L’altra metà della raccolta la lascio alla vostra immaginazione, la
quale vi indurrà a procacciarvi quest’ultima fatica di D’Andrea.
Vale ora quello che dice Giovanna Frene a conclusione del suo
intervento: “Quello che questo libro lascia non sono risposte, ma
ipotesi, e, quel che più conta, ipotesi di modalità di vita: perché se
la morte non coincide con il corpo e con la cecità dell’occhio –in
quanto ognuno è solo “un barlume del circuito”-, allora il vero problema
rimane come sempre la natura della realtà – in quanto idea non
valicabile.
Gianluca D’Andrea
Il laboratorio
Lietocolle libri, 2004. pp.
71.
Pubblicato in
La
costruzione del verso & altre cose,
21 dicembre 2004 |
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