agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti

 

 


 
 

Un destino chiamato tsunami

di Sergio Tardetti

 
 

Spesso un fatto di cronaca, a volte minore e quotidiano, a volte apocalittico ed eccezionale, richiama alla memoria altri fatti, immagini, suoni, ricordi che il tempo ha sedimentato in strati apparentemente inaccessibili della mente. E’ il caso dell’onda che si è abbattuta sulle popolazioni costiere di diversi paesi asiatici che si affacciano sull’Oceano Indiano, un evento per il quale ogni aggettivo, presente nel più copioso dizionario di qualsiasi lingua, suona del tutto inadeguato. Immagini dolorose e strazianti ci sono giunte e continuano a giungerci, quasi in tempo reale, dai luoghi della catastrofe, accentuando in noi, persone civili e fragili, quell’ansia che ci assale di fronte a fenomeni naturali imprevedibili e incontrollabili. La stessa ansia disperata, trasmessa dai media di tutto il mondo, si poteva inequivocabilmente leggere negli occhi di quanti, scampati alla furia dell’onda, si aggiravano senza sosta e senza meta tra le rovine delle loro case e tra i corpi senza vita di quelli che, in un tempo assai recente, erano stati loro genitori, figli, fratelli, parenti, amici, vicini. Per una casuale e indefinibile associazione di immagini nella mia mente, quegli occhi hanno richiamato altri occhi, usciti stavolta dal grande schermo di una sala cinematografica, occhi di bambini, la cui innocenza è andata perduta da tempo immemorabile, per aver fissato, troppo a lungo e troppo insistentemente, le sofferenze dell’esistere quotidiano. Certo, un film è, a volte, solo una finzione e poco si apparenta con una realtà che, pur soffocata, serializzata e omologata dalla roboante e mistificante macchina televisiva, continua comunque a giungerci in tutta la sua crudezza. Ma quando un film svela e propone realtà di inimmaginabili sofferenze, pur ricondotte nel limite della finzione, assume la connotazione e la potenza mediatica di un documento che proponga un frammento di cronaca. Il film in questione, “Piccoli ladri” ha per protagonisti due bambini, fratello e sorella, abbandonati a se stessi e resi virtualmente orfani, in un Afghanistan post – talebani, dalle vicissitudini della guerra. Il padre, guerrigliero, disperso sulle montagne afgane per lungo tempo, creduto morto, giace ora prigioniero nelle carceri sorvegliate dall’esercito americano. La madre, rimasta sola e abbandonata a se stessa con i due piccoli, presunta vedova, risposatasi per convenienza e necessità, incarcerata a sua volta con l’accusa di adulterio, rischia la condanna a morte, secondo le ferree regole, dettate da una religione che ha escluso la pietà dalle sue leggi. In mezzo, come tra incudine e martello, i due piccoli, che cercano di sbarcare il lunario raccogliendo rifiuti in una grande discarica a cielo aperto e trascorrendo la notte in prigione insieme alla madre, fino al giorno in cui viene loro proibito di vederla. La disperazione e l’indifferenza che li circondano finiscono per far prendere loro la decisione di entrare in prigione ad ogni costo. La visione del film “Ladri di biciclette” suggerisce loro l’idea di rubare e poi farsi arrestare, per tornare di nuovo insieme alla madre. Il tutto è sospeso tra realtà e finzione, secondo i più stretti canoni del neorealismo italiano, cinema di dopoguerra, al quale allude palesemente la scelta della regista di rendere omaggio ad un capolavoro del genere quale è il film di De Sica. “Piccoli ladri” è senza dubbio un film ampiamente sottovalutato, incapace come è di reggere il confronto, nella semplicità e modestia del suo impianto scenico e narrativo, con le megaproduzioni di Hollywood, macchine per sognare e far sognare pubblico e produttori, con effetti speciali e incassi altrettanto speciali. Film “minimalista”, che deve farsi largo tra mille e mille proposte, più affascinanti e accattivanti, meno problematiche e impegnative, più adatte ai nostri sempre più rari momenti di tempo libero, dedicati all’evasione più che alla riflessione, utilizzando come unico strumento la compassione, la capacità di soffrire con i piccoli protagonisti e per loro. La dimensione della catastrofe umanitaria che racconta è quella di un disastro in sedicesimo, se paragonata alla Grande Catastrofe che viene proposta quotidianamente alla nostra attenzione, con ogni mezzo di comunicazione disponibile; parlare di un film, qui e ora, può sembrare fuori luogo e fuori tempo. Resta tutto il dramma di un paese, risparmiato dalla Grande Onda, ma travolto da altre e altrettanto grandi onde, che, con il trascorrere del tempo, finiranno per uscire dalla cronaca ed entrare nella Storia, spazzando via i piccoli protagonisti, eroi della guerra per la sopravvivenza quotidiana, e lasciando la ribalta a quelli che hanno deciso il loro destino e quello di interi popoli, per costruirsi un monumento “più duraturo del bronzo”. Un paese che, per essere figlio di un destino minore, non merita le platee massmediatiche, concesse ad un evento tragico che ha accomunato povere popolazioni e ricchi vacanzieri, la dignitosa miseria dell’oriente e l’ostentata opulenza dell’occidente. La natura, nelle sue manifestazioni più violente e incontrollabili, non ammette distinzioni e parzialità; l’uomo può farne molte, tracciando e costruendo destini estremamente diversificati, che vengono messi a nudo, vinti e sovrastati quando finiscono per incrociarsi, a loro volta, con un destino più grande chiamato tsunami.

 
 
 
 

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