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Discoteca e poesia
 

di Alessandro Moscè

 
 

Discoteca (Bari, Palomar, 2003) di Andrea Di Consoli, è una raccolta di poesie di un testimone diretto dell’età adolescenziale, che compie un’escursione sull’epoca dei miti, essendone distanziato (ma ancora partecipe) dal solo dato dell’aver raggiunto una maturità anagrafica (Di Consoli è nato a Zurigo nel 1976 da genitori lucani e vive a Roma, dove collabora su “L’Unità”, su vari settimanali e riviste, e dove lavora ai programmi radiotelevisivi della Rai).
In Discoteca emerge “l’emozione” di scrittura” del poeta che diverge frequentemente, che affronta suggestioni tematiche e sfumature umorali, gioie e pianti. In una superficie specchiata, con un linguaggio secco e confessionale, prosastico, facendo leva su un’impronta di tipo diaristico, Di Consoli ritorna al suo passato come facesse una smorfia, con un metodo infallibile, complice. Il “tuffo a ritroso” coglie pretesti puramente occasionali con una capacità epifanica che reinventa il mondo appena lasciato. E’ la freschezza dell’età del ragazzo il tratto saliente del libro, che ricorda certi echi di Sandro Penna o di Davide Rondoni, per la capacità di assurgere anche gli oggetti e le situazioni impoetiche a quel grado di bellezza che segnò il magistero di un John Ruskin, per il quale le cose brutte possono diventare poesia di uomini (e non estetica), e ricondurre alla vita.
La “discoteca meridionale”, come intitola una sezione della raccolta, è uno dei flussi di autenticità in cui i luoghi affollati e caotici dipanano una rabbia e una malinconia pressanti (“Faccio fatica a parlarti nell’orecchio / La musica è sempre più rabbiosa / Abbiamo fatto un giro immenso / Per essere al punto di partenza”).
E’ come ritrovarsi di punto in bianco un una diaspora del tempo, segnata dal passaggio delle mode musicali, dal mondo che cambia, da una crescita solo apparentemente disincantata. Non è affatto un libro facile questo di Di Consoli, tutt’altro. Anzi, ci si pone probabilmente di fronte ad una novità piuttosto esclusiva nel panorama della giovane poesia italiana. Innanzitutto perché la verità dell’uomo è assai diversa dal luogo delle infinite apparenze, basti leggere versi felicemente spudorati come questi: “Cosa ne sanno, loro, di cosa siano i corpi senza pensiero / delle discoteche? Quei lunghi silenzi inseguendo ragazze senza idee, / trascorsi nelle piste appena sotto la consolle, con un whisky in mano?”. Luoghi d’incontro asettici, tremebondi, infatuati, irresponsabili per il destino di chi li frequenta.
Mi pare che la novità di Discoteca stia inoltre nel linguaggio, che non rimanda a niente, che non fa supporre, ma decisamente constatare. Un impoetico luogo dei sogni, come un’impoetica giostra di parole, anima un contesto senza infingimenti. Da questo punto di vista Andrea Di Consoli ha vinto la sua sfida, perché il nume assurto a poesia non consiste in una mera virtù formalizzata, ma in un intelligente processo di vivificazione per sollecitazioni convulse, in cui la lingua “passa sotto”, è solo un mezzo.
Per chi è cresciuto negli anni ottanta, il bardo del poeta delle discoteche piace perché è un esempio di riconoscimento e svelamento. L’emozione, allora, si trasforma in un magico vaso comunicante che passa di mano. E’ il lettore che si impadronisce di questi testi, che li assorbe come destinatario di un intreccio dialogico.
Andrea Di Consoli rappresenta una generazione nell’ottica di personaggi sconosciuti che sono protagonisti del niente, di quelle nottate passate con un bicchiere in mano, di mattine senza un biglietto per prendere il treno, di pomeriggi nella saletta di un bar di periferia. Gente che non ha fatto nulla per essere ricordata nelle cronache, è al centro della scrittura del poeta, di quei giorni così vicini eppure lontani, perduti. I fuggiaschi tra i sedili, per dirla proprio con Di Consoli, sembrano essere ancora al loro posto, pronti a girare e a non essere risparmiati (“Capita in certe situazioni di offrire a tutti da bere / Con il nascosto desiderio di vedere la tristezza degli altri / Di vederla affiorare dall’orlo di un bicchiere”).
“La condizione umana”, altra sezione di Discoteca, fa emergere dirompente il desiderio verso l’altro sesso, vissuto con enfasi, sogno, eros, come viatico per chi sente un corpo, ma senza lesinare il sentimento, perché è proprio l’idea dell’amore che soffoca l’istinto più brutale. E le ragazze sono tasselli di un mosaico perfetto in cui il bazar degli odori e dei profumi è già una storia di serate (“Ma se a te è capitato di amarne soltanto una / di donna e per tanti anni l’hai tenuta stretta / abbracciata e hai girato la città solo con lei e hai / bevuto solo dal suo bicchiere tu non credere / di aver vissuto di meno…”).
In questo libro il target identificativo della notte è spesso raccontato in un impasto di canzonette, di musiche che rimangono nell’orecchio, una fonte classica per ogni giovane che filtra la realtà seguendo le note di un cantante pop. Canzoni che non dicono nulla nella storia della musica, ma che dicono molto nella storia di ognuno, per attingere a Pasolini. E con la musica che “accompagna” una generazione, ecco che il “pagano” senso dell’esistere, o del male di vivere, esalta un attimo pulsante che viene incorniciato. E’ esattamente il pretesto meraviglioso di Di Consoli: riaccendere lo stereo della macchina, girare la manopola, ritrovare un’affettuosa canzone di Concato o dei Depeche Mode, di una new wave epocale che figura il vagabondaggio da un posto all’altro. La “grande piena” della vita fa uscire un campione di persone e di interpretazioni, un modo di essere (o di non-essere).
”Confessioni” e “Inferno” sono intitolate le due ultime sezioni del libro, in cui una romantica preservazione del passato si scontra con il tentativo ideale di fuggire dal mondo. Cambiare o no: il dilemma del ragazzo fattosi uomo si prolunga. La tenuta di Discoteca è incontrovertibile sul piano delle cognizioni e dei dubbi “sputati” sul mondo. Lo sguardo è asciutto, crudele, lucido come il verso (“Siamo animali d’abitudine / ma poi un giorno sentiamo un profumo / una strana tensione nella nostra pancia / e ci annoiamo delle cose di sempre / e vogliamo seguire questa nuova scia / ma quanta paura a cambiare vita…”).
La tensione febbrile di Di Consoli è tutta impegnata di “sondaggi” attuali, in cui la coscienza a posteriori è la traccia e il filo rosso che fa apparire fresco e invincibile il suo bisogno di poesia e la sua riuscita. Abbiamo un poeta nuovo nello stile e nella cifra del conoscere, guarda caso all’inizio del nuovo millennio.

 

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30/05/05

 

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