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Discoteca
(Bari, Palomar, 2003) di Andrea Di Consoli, è una raccolta di poesie di
un testimone diretto dell’età adolescenziale, che compie un’escursione
sull’epoca dei miti, essendone distanziato (ma ancora partecipe) dal
solo dato dell’aver raggiunto una maturità anagrafica (Di Consoli è nato
a Zurigo nel 1976 da genitori lucani e vive a Roma, dove collabora su
“L’Unità”, su vari settimanali e riviste, e dove lavora ai programmi
radiotelevisivi della Rai).
In Discoteca emerge “l’emozione” di scrittura” del poeta
che diverge frequentemente, che affronta suggestioni tematiche e
sfumature umorali, gioie e pianti. In una superficie specchiata, con un
linguaggio secco e confessionale, prosastico, facendo leva su
un’impronta di tipo diaristico, Di Consoli ritorna al suo passato come
facesse una smorfia, con un metodo infallibile, complice. Il “tuffo a
ritroso” coglie pretesti puramente occasionali con una capacità
epifanica che reinventa il mondo appena lasciato. E’ la freschezza
dell’età del ragazzo il tratto saliente del libro, che ricorda certi
echi di Sandro Penna o di Davide Rondoni, per la capacità di assurgere
anche gli oggetti e le situazioni impoetiche a quel grado di bellezza
che segnò il magistero di un John Ruskin, per il quale le cose brutte
possono diventare poesia di uomini (e non estetica), e ricondurre alla
vita.
La “discoteca meridionale”, come intitola una sezione della raccolta, è
uno dei flussi di autenticità in cui i luoghi affollati e caotici
dipanano una rabbia e una malinconia pressanti (“Faccio fatica a
parlarti nell’orecchio / La musica è sempre più rabbiosa / Abbiamo fatto
un giro immenso / Per essere al punto di partenza”).
E’ come ritrovarsi di punto in bianco un una diaspora del tempo, segnata
dal passaggio delle mode musicali, dal mondo che cambia, da una crescita
solo apparentemente disincantata. Non è affatto un libro facile questo
di Di Consoli, tutt’altro. Anzi, ci si pone probabilmente di fronte ad
una novità piuttosto esclusiva nel panorama della giovane poesia
italiana. Innanzitutto perché la verità dell’uomo è assai diversa dal
luogo delle infinite apparenze, basti leggere versi felicemente
spudorati come questi: “Cosa ne sanno, loro, di cosa siano i corpi senza
pensiero / delle discoteche? Quei lunghi silenzi inseguendo ragazze
senza idee, / trascorsi nelle piste appena sotto la consolle, con un
whisky in mano?”. Luoghi d’incontro asettici, tremebondi, infatuati,
irresponsabili per il destino di chi li frequenta.
Mi pare che la novità di Discoteca stia inoltre nel
linguaggio, che non rimanda a niente, che non fa supporre, ma
decisamente constatare. Un impoetico luogo dei sogni, come un’impoetica
giostra di parole, anima un contesto senza infingimenti. Da questo punto
di vista Andrea Di Consoli ha vinto la sua sfida, perché il nume assurto
a poesia non consiste in una mera virtù formalizzata, ma in un
intelligente processo di vivificazione per sollecitazioni convulse, in
cui la lingua “passa sotto”, è solo un mezzo.
Per chi è cresciuto negli anni ottanta, il bardo del poeta delle
discoteche piace perché è un esempio di riconoscimento e svelamento.
L’emozione, allora, si trasforma in un magico vaso comunicante che passa
di mano. E’ il lettore che si impadronisce di questi testi, che li
assorbe come destinatario di un intreccio dialogico.
Andrea Di Consoli rappresenta una generazione nell’ottica di personaggi
sconosciuti che sono protagonisti del niente, di quelle nottate passate
con un bicchiere in mano, di mattine senza un biglietto per prendere il
treno, di pomeriggi nella saletta di un bar di periferia. Gente che non
ha fatto nulla per essere ricordata nelle cronache, è al centro della
scrittura del poeta, di quei giorni così vicini eppure lontani, perduti.
I fuggiaschi tra i sedili, per dirla proprio con Di Consoli, sembrano
essere ancora al loro posto, pronti a girare e a non essere risparmiati
(“Capita in certe situazioni di offrire a tutti da bere / Con il
nascosto desiderio di vedere la tristezza degli altri / Di vederla
affiorare dall’orlo di un bicchiere”).
“La condizione umana”, altra sezione di Discoteca, fa
emergere dirompente il desiderio verso l’altro sesso, vissuto con
enfasi, sogno, eros, come viatico per chi sente un corpo, ma senza
lesinare il sentimento, perché è proprio l’idea dell’amore che soffoca
l’istinto più brutale. E le ragazze sono tasselli di un mosaico perfetto
in cui il bazar degli odori e dei profumi è già una storia di serate
(“Ma se a te è capitato di amarne soltanto una / di donna e per tanti
anni l’hai tenuta stretta / abbracciata e hai girato la città solo con
lei e hai / bevuto solo dal suo bicchiere tu non credere / di aver
vissuto di meno…”).
In questo libro il target identificativo della notte è spesso raccontato
in un impasto di canzonette, di musiche che rimangono nell’orecchio, una
fonte classica per ogni giovane che filtra la realtà seguendo le note di
un cantante pop. Canzoni che non dicono nulla nella storia della musica,
ma che dicono molto nella storia di ognuno, per attingere a Pasolini. E
con la musica che “accompagna” una generazione, ecco che il “pagano”
senso dell’esistere, o del male di vivere, esalta un attimo pulsante che
viene incorniciato. E’ esattamente il pretesto meraviglioso di Di
Consoli: riaccendere lo stereo della macchina, girare la manopola,
ritrovare un’affettuosa canzone di Concato o dei Depeche Mode, di una
new wave epocale che figura il vagabondaggio da un posto
all’altro. La “grande piena” della vita fa uscire un campione di persone
e di interpretazioni, un modo di essere (o di non-essere).
”Confessioni” e “Inferno” sono intitolate le due ultime sezioni del
libro, in cui una romantica preservazione del passato si scontra con il
tentativo ideale di fuggire dal mondo. Cambiare o no: il dilemma del
ragazzo fattosi uomo si prolunga. La tenuta di Discoteca è
incontrovertibile sul piano delle cognizioni e dei dubbi “sputati” sul
mondo. Lo sguardo è asciutto, crudele, lucido come il verso (“Siamo
animali d’abitudine / ma poi un giorno sentiamo un profumo / una strana
tensione nella nostra pancia / e ci annoiamo delle cose di sempre / e
vogliamo seguire questa nuova scia / ma quanta paura a cambiare vita…”).
La tensione febbrile di Di Consoli è tutta impegnata di “sondaggi”
attuali, in cui la coscienza a posteriori è la traccia e il filo rosso
che fa apparire fresco e invincibile il suo bisogno di poesia e la sua
riuscita. Abbiamo un poeta nuovo nello stile e nella cifra del
conoscere, guarda caso all’inizio del nuovo millennio.
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