agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti agli incroci dei venti  
 
 
 

 Blu per Batis
 

di Marisa Lepore

 
 


 Comprendere” vuol dire capire
il punto di vista dell’artista"
.
[V. Kandinskij]

Il filo che unisce gli artisti è il colore blu, il colore del mare, il colore del sogno, il colore dell’anima
Le loro opere ora oniriche, ora realistiche, alludono ad una dimensione, ad uno stato, ad una memoria, ad un contesto, ad un segno, che deriva e riporta ai cromatismi, alle tonalità e alle sensazioni del blu.
Le “Finestre dell’anima” di Lorenza Altamore, sono compatte strutture blu attraverso cui filtra la luce e il colore dello spirito. Il suo blu è una soglia geometrica, una grata, un reticolo più o meno fitto che cattura l’attenzione e invita al suo superamento. Ma ognuno può essere dietro o davanti a questa soglia, può esserne o non esserne preso, in base alla valenza del proprio spirituale. Per penetrarne le maglie, occorre essere liberi da bagagli ingombranti e da inutili orpelli.
 

 

Lorenza Altamore

 
  Lorenza Altamore
Finestre dell’anima, 2005
3 pezzi, acrilico su tela cm 60 x 120 cm 30 x 60
 

L’artista si dà al mondo, alla possibilità di fruizione della sua poetica, all’uso terapeutico e catartico della sua arte, attraverso il filtro della spiritualità. Ne fa convivio in una modalità oltremodo selettiva. Per penetrare la sua arte è necessario procedere gradualmente e conquistare l’angolazione necessaria a superare la trama di quel fitto tessuto di luce, segno e colore che è confine tra materiale e spirituale.
L’artista, eclettica per lessici, contenuti e tecniche, comunque caratterizzati da una matrice fortemente spiritualistica e da un intimismo lirico espresso con estremo pudore, attraversa una fase molto feconda dell’informale geometrico con risultati raffinati, puri ma linearmente complessi, monocromi tonali estremamente ricercati e di grande valenza emotiva. Le “Finestre dell’anima” sono una variante significativa di questa poetica. Il blu per l’artista è “una barriera” intesa come selettività alla penetrazione, capacità individuale e collettiva di attraversamento.
Le emozioni interiori sono lasciate andare e contemporaneamente inquadrate, incorniciate per gestire il caos emotivo, per comunicare messaggi di sensazioni già esperite, elaborate ma mai completamente risolte, per far emergere – e questo è sempre il fine ultimo dell’arte di Lorenza Altamore – bellezza, armonia e assonanza, perché non si gravi ulteriormente sul bagaglio esistenziale di una contemporaneità in crisi di valori, di identità, di ideologie.
L’arte è, dunque, messaggio di bellezza, di armonia, di pulizia, di raffinatezza in un mondo disarmonico, caotico, disumanizzato. Anche quando comunica forte emozionalità, la sua arte solleva e riposa lo sguardo. Posizione coraggiosa, mai decontestualizzata né decontestualizzante.
La finestra, cornice dell’anima, diviene il filtro selettivo attraverso cui l’artista conduce per mano lo spettatore, in una via dove l’impervio viene mostrato, già vissuto e arricchito di positività, di colore. Dove la materia, non importa se monocromizzata di blu, di viola, di oro o argento – tanto cari al segno estetico dell’artista – è resa di nuovo amica, empatica, come in una “aurea aetas”.
L’Ofelia di Michelangelo Borrello è “colta” nell’attimo della sua trasfigurazione, fiore bianco/nero dei recessi della memoria, acceso dei rossi e dei blu della vita che assale e avvinghia oltre ogni intenzionalità. Eroina shakespeariana, è creatura drammatica, fragile e diamantina che soccombe alla strategica follia di Amleto, incapace di opporre la semplice forza del proprio amore all’opportunità della ragione di stato, strumento inconsapevole, non prima e non ultima vittima dell’amaro e crudele proposito di ricomposizione della legalità del potere.
 

 

Michelangelo Borrello

 
  Michelangelo Borrello
Ophelia in liquid flowers, 2004
b/n interpolato dia colore, photoshop
cm 156 x 100
 

L’Ofelia qui raffigurata, stesa sulla nuda terra, sottratta all’acqua, gli occhi obliqui semiaperti verso un oltre di là da venire, l’accenno di un abito di foggia cinquecentesca nello sbuffo di una manica, un monile da giovinetta, ha in sé l’universale e sempiterna caparbia capacità di rinascita, come lo può ogni ossessione dell’animo. Il tutto si condensa nei colori che, alla sommità del capo, allungano all’infinito le linee di fuga penetrando in profondità, oltre lo spazio visibile, oltre il desiderio realizzabile.
Così, in Amleto, la Regina piange Ofelia: “Un salice cavalca il ruscello, specchiando le foglie canute nella vitrea corrente; ella passava con fantastiche ghirlande di ranuncoli, ortiche, margherite, e quelle lunghe orchidee rosse a cui i pastori danno un nome più volgare, ma che le nostre fredde fanciulle chiamano dita di morto; lassù, arrampicatasi per dedicare i suoi diademi di prato ai ramoscelli penduli, un giunto invidioso si spezzò; e quei trofei d’erba, ed ella stessa, caddero nel ruscello piangente. Le sue vesti si sparsero e gonfiarono a sostenerla, una sirena, mentre ella intonava arie di vecchie canzoni, come inconsapevole della sventura, o come creatura nata e vissuta in quell’elemento; ma non a lungo, e le vesti, appesantite d’acqua, la trassero giù, infelice, dal suo mormorio melodioso alla morte nel fango.” [atto IV scena III] E così Laerte comanda:”Deponetela dunque nella terra, e dalla sua bella carne inviolata nascano le viole!” [atto V scena I.
Ofelia assurge, per l’artista, a proiezione del suo senso dell’amore, trasfigurato in ogni rinascita e in questa immagine può essere palesato l’auspicio di Laerte e della sua visione onirica: il blu dell’acqua del ruscello ha attraversato, nutrendosene, il giovane corpo, e ne ha tratto linfa per una nuova vita.
La curva blu di Rosalba Conte è un arco tirato sul mondo interiore. “Scoccante” ma bloccato, la tensione dello scatto è ammorbidita e rallentata. Come il rivissuto di un esplosione, di un atto violento, di un’emozione. Un rallentamento della conoscenza, dilatazione di rumori e immagini, rielaborazione di sonorità e fotogrammi di visioni. E allora ciò che è esploso nell’animo in tante piccole parti è ricomposto in un caleidoscopio della memoria.
Per l’artista diventa imperativo ordinare il caos emozionale, fissandolo sulla tela, olio e gessetti, olio che penetra la tela, gessetto che ancora rimane attaccato alle dita, un’intimità diretta col supporto, un contatto intimo, una copula.
Per l’artista diventa necessario raccontare l’inquietitudine e il blu, che ne è la partenza indifferenziata, si accresce delle valenze del colore. Ancora tanto bianco sulla tela, linee nere di contorno fino al morbido rosso pastello di una figuretta che nasce centralmente al quadro, e che tende, nelle sue immaginarie linee di forza, ad attraversarlo. Freccia scoccata di quell’arco blu scoccante.
L’artista protegge questa immagine, indifferenziata ma avvertita, informe ma definibile, circoscritta ma gemmata. La tiene a bada, la coccola con valenze cromatiche dense di significati, proprio per opposizione al blu. La pone parallela ad atre linee di colore pastello, un giallo e un arancio che rasserenano ma accrescono la complessità delle forme scaturite dal fondo blu a sinistra, assunto a mare, humus primordiale. La figuretta non è lasciata crescere. E’ una parte del sé dell’artista posta fuori dal sé dell’artista. Al limite tra interno e esterno, immagine subliminale, nasce come colore all’interno di linee ineluttabili, di percorsi obbligati. Indefinita nella propria identità, esprime una volontà di potenza ancora intrinseca.
Le linee del quadro vanno a imbuto verso l’alto e ciò rasserena perché suggerisce un controllo, una regia dell’emozione. Racconta ciò che sta accadendo come già accaduto e come ancora non accaduto. E’ terapeutico il confronto tra ogni parte del quadro-simulacro con i simulacri dell’animo.
E la forma che resta impressa è quella del calice di un fiore, un contenitore completo di vita.
E l’arco blu diviene allora un occhio, una platea, la gradinata di un teatro, dove si rivive il più antico e primordiale rito della comunicazione mediatica, il rituale religioso, il colloquio tra umano e divino, il colloquio tra noi e la parte divina che è in noi. L’inquietudine di Rosalba Conte, ad un livello più profondo di elaborazione, resta fruita “in quiete animi”, come “quies animi”.
Il blu di Andrea Grosso Ciponte è complesso. Profondo e scuro, ondeggiante, gioioso e vitale, è narrativo, oggettivo e sognato, reale e vero. E’ un “motus vitae” che taglia con convinzione l’immagine, conferendo effetti flou o d’indistinto, o deformando la visione da un qualche punto di vista ottico o del sentire, che avvicina, attirandolo, l’occhio dello spettatore.

Andrea Grosso Ciponte
Andrea Grosso Ciponte
Sotto Sale, 2004
olio su tela   cm 120 x 80
Andrea Grosso Ciponte
Sotto Sale, 2004
olio su tela   cm 120 x 70

Operazione solita all’artista, che inquadra fotograficamente i suoi personaggi per coglierne una qualche emozione, ansia, difetto, alterazione fisica o psichica, o per presentarci identità in contesti che sono spaccati di vita contemporanea, dove si vive la propria “normale” vita, dove si respira il fumo dei locali di notte, dove si sentono i rumori e gli odori di strade metropolitane o si condividono, rubandone i dettagli, intimità violate entro spazi quotidiani. Quel quotidiano, istantanea al millesimo di secondo come un fotogramma, esperito e estrinsecato con l’indistinzione del ricordo che pervade, della stessa materia e sensazione coloristica, contesto e personaggi, sfondo e dettagli.
L’immagine è lì e ci dice, con distacco esperenziale e con la selettività della memoria, che quei personaggi, movimenti, quelle energie giovani e vitali ci sono; ineluttabili ed eterne come lo sono i pesci del mare, le alghe, i coralli, come oggi lo sono le macchine e le città, dove un pallone ha la stessa pregnanza delle rotondità del braccio, dove il sogno ha la stessa valenza dell’esperienza.
I mondi creati da Luigi Impieri hanno la sintesi e l’essenzialità del linguaggio poetico. Il colore, elemento d’impatto e di comunicazione sensoriale più immediato, è funzione all’estrinsecazione di una complessa elaborazione di contenuti, di valori, di sentimenti e di emozioni.
Caro è all’artista l’impegno a che l’arte filtri la realtà attraverso la bellezza, l’armonia, l’eleganza formale, la positività; in ciò, non dimenticando il dato esistenziale contemporaneo, né l’impegno sociale e politico, aspetti determinanti della sua vita artistica e didattico-professionale.
 

Luigi Impieri

  Luigi Impieri
Nel cuore della notte, 2004
pastello su carta cm 40.5 x 63.5
  Luigi Impieri
Alcune notti, 2004
pastello su carta cm 40.5 x 63.5

 

I mondi disegnati sulla carta sono monadi autosufficienti, narrazioni che hanno la levità della favola o il fascino del racconto mitico, l’emozione dei sentimenti vissuti o la pregnanza delle aspirazioni, l’ansietà dei desideri non ancora realizzati o la profondità del sogno. Articolati in un alfabeto di segni semplici e universali che si ripetono sempre nuovi, contengono la saggezza della vita.
Colpisce la nitidezza di ogni particolare, sia esso oggetto o personaggio; la cura con cui viene resa ogni immagine, sempre a fuoco, dovunque sia collocata nello spazio; la capacità con cui lo sguardo può appropriarsi di ogni elemento senza sforzo, perché la prospettiva spesso è resa dalla suddivisione in più piani del narrato. Tutto è ugualmente importante, natura, personaggi, cose, anche la più piccola parte dei mondi via via costruiti sulla carta. E pochi elementi sono sufficienti al dispiegarsi delle storie narrate. Rami di alberi fitti e intrigati come meandri dell’animo; cuori gonfi di acqua come metafore della nostalgia; donne-sfingi che sovrastano mari immensi, dove minuscole nitide figure, stagliate all’orizzonte, vivono l’impulso a esorcizzare fino in fondo il paradosso di essere uomini; donne-cariatidi che hanno impressa nella lentezza del movimento tutta la storia dei secoli, palcoscenici di vita, territori di avventura, terre vergini da esplorare; donne-ondine, donne-guerriere, donne-dee e semi dee, donne-compagne di vita, a cui vento e mare e amore sciolgono i lunghi capelli.
E le metafore care all’artista: barchette di carta che alludono al viaggio, ai viaggi mitici, ai viaggi della speranza, ai viaggi della mente; e libri e foglietti sparsi, metafore della comunicazione, supporti ai linguaggi interiori, ai linguaggi dell’animo; e cuori grandi e piccoli, sospesi nel vento, sorretti ai rami degli alberi, metafore di sentimenti, passioni ed emozioni raccontate, invocate, rimpiante.
C’è un grande bisogno di comunicazione nell’arte di Impieri. L’esigenza di un dialogo per trasmettere e condividere una curiosità per la vita che mantiene tratti di semplicità e, insieme, di grande spessore antropologico. C’è un immenso legame con la propria terra d’origine, mare e coste, splendori di civiltà remote e storia di difficili contemporaneità. Grandi e piccole migrazioni nel proprio e nell’altrui vissuto, sradicamenti e adattamenti, partenze e ritorni.
Un po’ Peter Pan, un po’ Ulisse, un po’ uomo contemporaneo, il suo è l’animo di un esploratore, un cacciatore di emozioni, un cercatore di vita, un vagabondo dell’immaginario.
La donna di Silvana Liotti nasce da un fondo blu che la contiene e ne permea ogni parte, con forza o con impalpabilità di riflessi, invadendo comunque la sua fisicità e la sua interiorità. Figura possente, espansa, inadeguata allo spazio che nel quadro l’artista le assegna, finisce col divenire tutt’una con il fondo, in un rimando che è contemporaneamente segno estetico e poetica. “Contenuta” nello spazio, la sua forma è anche un “contenitore” che assume in sé il mondo esterno e la vita, in virtù della capacità di procreare. Il suo è un sogno di divinità e di potenza creativa. Essa è, insieme, materia e divenire, in una visione panica dell’esistenza.
 

 

Silvana Liotti

 
 

Silvana Liotti
Sogno in blu, 2005
tecnica mista su tela cm 80 x 100

 

Tanta potenza è espressa con grande naturalezza, in una nudità priva di ostentazione, in un auto abbraccio oltremodo protettivo del proprio essere. Contenitore di vita è, essa stessa, immagine fetale che rimanda al mistero della vita. La sua testa è minuscola perché la sua energia di crescita è spostata verso il centro del corpo, in un sentire tutto istintuale. Le “sproporzioni” della figura sono armoniche e armonizzate, fanno da specchio alla modificazione fisica e dell’interiorità, funzione alla funzione procreativa.
L’opera è esposta su una parete che è alla base di un arco di tufo e due lunghe strisce di colore su supporto cartaceo, a sé stanti ma collegate idealmente, partono dalla sommità del quadro, verso e lungo l’arco, rivestendolo quasi totalmente, al di sopra di chi guarda. Le strisce sembrano dipanarsi dal capo, tracciati di emozioni, ecografie dell’animo e figure, segni, colore e materia impressi su di esse si autodefiniscono e interdefiniscono in rimandi, la cui codificazione è soggettiva ed estemporanea. Dall’alto ci vengono incontro, ci inondano e penetrano il nostro sentire. Sta allora a noi, se possiamo, rivivere la sensazione di essere insieme materia e divenire, creati e creatori, grandi e piccoli, umani e divini.
Colore e materia nell’opera di Francesca Macri assurgono a navicelle spaziali del sentimento per un viaggio dell’anima nell’anima universale. Ribollimenti di sinapsi come solfatare; uno stato perenne di vita in fieri che percorre gli stadi superficiali del sentire; energia che non esplode né si smorza ancora mai completamente e sempre nuovi legami propagano in orizzontale la propria forza, la propria valenza. Silenzi siderali, ovattati, ronzii vibrati, vibrazioni cullanti, esplorazioni dense e materiche di monotonali che si accrescono di accenni sfumati del blu. Un blu ritrovato nel magma monocromo.
 

 

Francesca Macri

 
 

Francesca Macri
Anima, 2003
olio su tela e materico
cm 100 x 80

 

Se si entra a occhi chiusi nel colore di Francesca Macri, si avverte una vertigine che si espande in orizzontale, perché le densità del materico sostengono il peso e lo avvolgono e lo trattengono e lo rallentano e lo nutrono. Una mappa dell’anima con “isobare” morbidamente declinanti. Gemmazioni del vissuto da nuclei duri e grumosi, diradanti materia e energia.

Le pennellate dell’artista producono un informale ritmico-gestuale che conserva negli occhi i colori e le sensazioni del mare, per interpretare realismo e onirismo di una visione mediterranea della natura. Le alternanze del colore sono di una liquidità pastosa che suggerisce sempre e comunque immersioni ed invita ad emozionanti annullamenti.

Le installazioni di Ivana Russo sono immagini di immagini. Immagini di un’artista che assume e rielabora poetica e contenuti di altri artisti, che verosimilmente ne hanno catturato interesse, immedesimazione ed empatia. Sicuramente l’omaggio a Bill Viola e Peter Campus, da cui sono derivate queste elaborazioni, ha la sua valenza; sicuramente le potenzialità della riproducibilità tecnica possono essere assunte a metodologia estetica; sicuramente è possibile agire sull’opera d’arte per creare un’opera d’arte, ma è interessante osservare il risultato di questa operazione, quello che le immagini, così assemblate nell’intenzionalità progettuale, comunicano. Un esercizio di stile, un’esercitazione di educazione all’immagine dentro una poetica.

  Ivana Russo  

Ivana Russo

 
  Ivana Russo
Uomoviola, 2004
foto-installazione
digitali su supporto luminoso cm 50 x 70
  Ivana Russo
Acquacallas, 2004
foto-installazione
digitali su supporto luminoso cm 50 x 70
 

Su di ogni supporto luminoso, tre, una sull’altra, essenziali, pure, sintetiche, reiterano il blu dell’acqua da distanze diverse, media, lontana e tanto vicina fino al fuori fuoco, o alla visione da dentro o alla visione soggettiva. Sei immagini rese luminose, multivisione o banco di montaggio video, sei monitor che indagano l’acqua e il rapporto uomo-acqua e natura-acqua, come dietro un progetto di regia. In ogni gruppo di immagini c’e un’esigenza di relazione-comunicazione, una visione prospettica e c’è il sogno, l’immagine poetica.
Nell’uomo a mezzo busto, come negli uccelli che beccano nella battigia, c’è l’urgenza alla domanda, una curiosità alla naturalità della vita, un bisogno al protagonismo come alterità nel dialogo, un avvicinarsi ai bisogni primari e alle esigenze semplici della vita.
Nell’uomo indistinto nei lineamenti e nelle persone di spalle c’è la coscienza di essere parte di una realtà che ci accomuna, microcosmo nel cosmo, tutti egualmente simili, pur nella diversità somatica, parte di un’identità universale che rassicura.
Poi l’acqua inonda l’uomo e inonda i nostri occhi e, oscurando la visione, apre spazi più profondi di emozioni e di vissuti e si possono dire a se stessi le parole che vorremmo sentirci dire ogni giorno, sicuri di non essere sentiti, ma sicuri di essere compresi in questo ripiegamento.
Le installazioni in esposizione sono disposte su irregolari pietre di tufo, la pietra della nostra terra, antica, friabile, permeabile, scalfibile, di un colore che unisce morbidamente mare, cielo e verde della nostra antica terra, contrapposizione non troppo stridente tra una poetica della tecnologia e la poeticità della natura.

Blu per Batis

 

BLU mostra d’arte contemporanea a cura di Marisa Lepore presenta nella struttura di Batis le opere di otto artisti provenienti dal territorio nazionale: Lorenza Altamore (Forlì) Michelangelo Borrello (Milano) Andrea Grosso Ciponte (Cosenza) Rosalba Conte (Napoli) Luigi Impieri (Forlì) Silvana Liotti (Napoli) Francesca Macri (Firenze) Ivana Russo (Cosenza).
Batis. Sistema integrato di ospitalità nasce dal progetto di recupero e restauro del più antico quartiere domestico costruito a Baia nel 1800, integrato nel Complesso archeologico-monumentale di Baia, tra i resti dell’imponente “Palatium Baianum”, la residenza imperiale situata nella vegetazione mediterranea della collina di Baia, tra punta Epitaffio e la punta del Castello Aragonese.
Ideale collegamento tra la Baia moderna e la storia del territorio, la struttura riprende la funzione degli “Hospitalia”, le antiche strutture ricettive che, dopo la decadenza dell’impero romano, furono destinate a i frequentatori delle Terme di Baia. Batis è il primo sistema di ospitalità integrato con il territorio di Baia e si pone e identifica come il suo “genius loci”.

inaugurazione 15 giugno ore 19.00
Proiezione del video “L’abbraccio” di Andrea Grosso Ciponte e Giusi Pallone DVD 5’

catalogo on line www.batis.it  info marisalepore@inwind.it


15 - 26 giugno 2005
Baia Campi Flegrei
Batis Sistema integrato di ospitalità
Complesso archeologico – monumentale Via Lucullo 101
info line tel/fax 081 868 87 63 info@batis.it  www.batis.it 
 

 

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12/06/05

 

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